
La poesia tra parentesi.
Cosa cercano gli scienziati poeti? Sono tanti, troppi, gli autori provenienti dal mondo scientifico per assestare una risposta univoca che vada bene per tutti i casi. Da sempre, prim’ancora della scellerata idea di separare le discipline umanistiche da quelle scientifiche, le lettere sono complementari e, forse, compensative a una formazione ritenuta rigida, preparatoria a una professione – quella medica – che non può essere affidata all’estro, all’ispirazione creativa (a volte sì, senza esagerare!), ma alla più sicura riproducibilità sperimentale e alla dimostrabilità statistica degli effetti benefici di una pratica. E ritornano alla memoria le bellissime Note di un anatomopatologo del messicano F. Gonzales-Crussi: scienziato rubato alle lettere o letterato prestato alla scienza? Si tratta, come spesso accade, ed è forse un bene, di ibridazioni difficili da misurare. Così come inutile sarebbe stabilire se João Luís Barreto Guimarães sia un medico-poeta o un poeta-medico: il confine, in poesia, tra detto e non detto, tra visibile e invisibile, tra scientifico ed esoterico, è equivalente a quello esistente tra azione del farmaco e processo di autoguarigione; anche gli scienziati, a volte, devono arrendersi dinanzi al mistero, e accettare di cantarlo in versi.
C’è un senso di profondità e di speranza nel delegare al tempo ciò che la poesia ha ancora in serbo per noi pazienti. “… La poesia va senza paura / (si dispone sulla carta) / lascia scritto in nero ciò / che aveva da dire / (ambendo senza pigrizia a ciò che / ancora non c’è)…” (Preludio). Si ha fiducia nella poesia, senza forzarla a dire tutto e subito, perché “… con l’inchiostro sprecato potrei aver conservato / parole straordinarie…” (Dita macchiate d’inchiostro).
Per soddisfare queste attese c’è bisogno della pazienza del nomade: le lunghe pause pretese dal viaggio, le immense distanze che non possono essere coperte se non percorrendole con il solo sguardo umano, fin dove può, aspettando il momento adatto per fissare l’essenza dell’arrivo, e nel frattempo farsi immortalare per caso Nelle fotografie di altri; il tempo va ignorato (perché è inutile dare importanza allo scorrere del tempo: “Solo l’amore ferma il tempo”, Nomadi; e infatti: “Ciò che chiudi in una stretta quando / abbracci qualcuno non è / un corpo: è tempo.”, Meccanica di un abbraccio) anche se alla fine si vendica, mostrandoci in un colpo solo tutti i segni del suo inesorabile passaggio: “… Il tempo è implacabile: incide / queste rughe nella pelle solo / per punirmi…” (La crescita del tempo).
C’è abbondanza di versi tra parentesi nella poesia di Barreto Guimarães: voci aggiuntive, cori per una polifonia dell’animo umano, controcanti, forse embrioni di eteronimi pessoani, come strumenti musicali che accompagnano, con abbellimenti informativi e paralleli, la partitura principale. “… Dentro la poesia: / suoni / (intorno: spazio bianco) / silenzio all’opera.” (Mele selvatiche). Come se un poeta minore coabitasse con il Poeta, quello vero, e lo aiutasse a dire di più, a spiegare, a slacciarsi per aprirsi al mondo, a volte coadiuvando il discorso, altre volte quasi contraddicendolo in un dire che va per la sua strada. Ma è un’antitesi che aiuta e non scredita.
Il poeta s’interroga spesso sul non ancora detto, su quella parte di poesia che non si è ancora espressa, e che forse mai si manifesterà non per mancanza di volontà, ma più semplicemente per carenza di occasioni, perché la vita potrebbe decidere di “stuzzicare” altri centri della versificazione; perché la poesia non può essere progettata in laboratorio ma appare, scompare, a volte riappare altrove in base a logiche misteriose, a economie dell’anima che fortunatamente non possiamo controllare: “… il / postino stesso ignora che sorta di / futuro porti. Anche con una penna vuota si / possono incidere / parole altisonanti…” (Dita macchiate d’inchiostro).
Tuttavia quella del poeta è una posizione privilegiata: nel mezzo, in una zona grigia da cui poter osservare le cose (anche quelle che vanno perdute, perché “La vita / vista da fuori / invita a figurarsi l’archeologia delle perdite”, Vita interiore), i fatti personali e le altrui vicende. “Con la tavolozza dei grigi potrei / perfezionare l’arte della sopravvivenza che / (come i miti ben sanno) è / non essere vivo / né morto.” (L’ipotesi del grigio). E se il pericolo di una Falsa vita si fa terribilmente concreto, non ci resta che partire: “Se alla fine del giorno chiedi / dove sia finito tutto il giorno / è ora di partire…”. Il tempo passa e il corpo lo sa: la malattia attende al varco in compagnia di orribili pesi lasciati in eredità dalla Storia (“Ma loro / ancora vestono di nero…”, I corvi di Birkenau).
Domande sull’esistenza sparse tra immagini passeggere recuperate dal mondo percorso; ricordi personali che diventano insegnamenti di vita quando è giunto il momento che lo diventino, e mai prima. Quella di João Luís Barreto Guimarães non è una poesia sofisticata, bensì semplice, discorsiva, che parla all’umanità dell’uomo, che descrive il libero Movimento del mondo, geniale in alcune soluzioni scelte per spiegare a se stesso e a noi lettori la sorprendente originalità della vita. È una poesia degli opposti: al poeta, a volte, piace giocare con elementi inizialmente contrastanti, li confronta, li sposta, fa delle prove per vedere se sia possibile ricavare nuove verità esistenziali sfuggite alla logica scientifica e all’ordine della sperimentazione, nuove combinazioni tra realtà e immaginazione, tra mito e cronaca, tra solitudine (quando si è uomini stanchi) e conquista del mondo, tra passato e presente, in eterno bilico tra Eros e Thanatos.
Nonostante la sua formazione, il poeta concede alla propria penna la possibilità del disincanto e di una salvifica irrazionalità: “La / conoscenza di tutto (quando ben adattata) / entra nello spazio esiguo di una / scatola / cranica. […] In questa spugna curiosa quasi non entrava / la ragione per la quale Cayetano Ordóñez tradì / Paloma Castillo con una certa / Mercedes Ortiz.” (Sala d’attesa). Anche per la scrittura poetica, frutto di questa spugna curiosa, valgono le stesse regole-non regole: “Tu scrivi / lo stesso – / fallo nel tuo stile (prosa nuda punteggiata / da note di ironia) in fin / dei conti / è probabile che / non ti capiranno.” («Naturalmente che ci piacerebbe poter contare su di te»). Un consiglio spassionato che non può non richiamare alla memoria la sentenza fortiniana: “Nulla è sicuro, ma scrivi!”. Anche se sei tra Quelli che arrivano secondi.
Michele Nigro
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Grazie mille per la lettura Eufrasia!
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È sempre un piacere!
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Una prefazione molto “sentita”, si capisce che le poesie di questa raccolta sono nelle tue “corde” e questo credo sia importante; nel momento in cui leggiamo una silloge, non sempre ne siamo ispirati e leggendo alcune prefazioni, lo si capisce immediatamente che ciò che è scritto è quasi un “compito / dovere”.
Non è questo il caso!
Sono andata a guardare anche l’articolo pubblicato sul sito di Kolibris / Iris e ho potuto leggere, per ora, solo una poesia di João Luís Barreto Guimarães che mi ha colpita subito… “A titolo d’esempio”, echi di Álvaro de Campos, eteronimo del grande Fernando Pessoa, si insinuano nei versi “sono uno che è rimasto. Mi puntarono il dito”. Mi basta questo verso, per capire che sicuramente questa raccolta sarà da leggere, anche grazie alle tue parole, e non vedo l’ora…
Grazie!
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Grazie Eufrasia per le tue parole e per aver apprezzato la mia prefazione… Credo ne sarà contenta anche Chiara De Luca delle Edizioni Kolibris!
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