Sul “darwinismo romantico” de L’Amica Geniale

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Sarebbe un errore madornale liquidare le vicende interpersonali vissute dalle due protagoniste della fiction “L’Amica Geniale” come “invidiosa competizione” di quartiere travestita da amicizia. Così come sarebbe sbagliato ridurre il tutto a una risultante vettoriale tra trascinatrice trascinata, tra presunta forte e altrettanto presunta debole. In realtà alla base di questa storia italiana, e non solo napoletana, c’è di più, molto di più: vi è un’atavica separazione sociologica che affonda le radici nei secoli, e si è fatta genetica, carne e pensiero, e quindi tratto somatico, gestualità, linguaggio dialettale, reazione diversificata all’esistenza, modi differenti di salvarsi o di non salvarsi dal destino. Anche la diatriba tra quartiere bene e quartiere popolare (chi ha vissuto in una grande città come Napoli conosce e ha provato almeno una volta sulla propria pelle questa contrapposizione) passa in secondo piano, quasi accompagnata da una sorta di giustificazione primordiale, assecondata da tutti con un fatalismo irreversibile, se scegliamo di affidarci a strumenti d’indagine di tipo storico. Rischiando, però, di cadere nel tranello di una spiegazione meramente intellettualistica: e un po’ già appare nella fiction questa “accusa” che nasce da un inevitabile confronto sociale, da un dialogo tra classi sociali che per alcuni sembrerebbe non poter esistere e di fatto non funziona per mancanza di convinzione.

C’è chi cerca di salvarsi dalla morsa del quartiere, dalle battaglie quotidiane tra “sottogruppi antropologici”, fuggendo in una lotta intellettuale, nella lettura “matta e disperatissima”, nell’auto-elevazione culturale, nell’impeccabile percorso scolastico che redime, lontano dagli errori familiari, dalla miseria interiore prima ancora che economica, da insopportabili e retrograde caratteristiche genitoriali, da un’ingiustizia sociale locale proiettata verso proteste lontane, contro guerre di cui si è solo letto sui giornali. E c’è chi da quella morsa non riesce proprio a liberarsi, nonostante la genialità, le idee non istruite che fanno “friggere” il cervello per trovare il modo di riuscire a campare, a emergere dalla miseria; e qui ritorna il concetto quasi ineffabile di “destino storico”, radicato in alcune persone, “che sta per sempre nelle cose” direbbe Carlo Levi, che resta attaccato alla pelle anche se i movimenti sono violenti nel tentativo di liberarsene.

Ci si aggrappa a una appariscente ricchezza esteriore, alla “posizione” conquistata tra l’infelicità per le aspirazioni mancate, all’alibi di essere comunque sposati che si contrappone alla “fallimentare” libertà di chi sceglie la cultura, i libri, lo studio che raccoglie frutti nella distanza, la dipendenza genitoriale, l’attesa nel “sistemarsi”, il prendere tempo per sperimentare il vero (o un presunto) amore.

A chi sembra forte, pur restando prigioniero di un destino deciso dagli altri a tavolino, dalla cultura predominante dell’epoca, non resta che la genialità quotidiana, sublimata nell’arte di arrangiarsi o di imbrogliare: l’inganno e lo scatto vincente per sbocconcellare pezzetti di vita dagli altrui piatti esistenziali, o deviando i propri introiti verso cause giuste, diventando giudici di sé stessi e giustizieri; strumenti poveri ed effimeri per considerarsi ancora in gara, non ancora schiacciati da pressioni familiari o dal confronto sociale che diventa quasi sempre scontro, sfida, insanabile contrasto paranoico affrontato con un disprezzo che si tramuta in sadico sberleffo persino verso una persona cara.

Anche la trasformazione di una foto in un originale collage artistico diventa occasione per dimostrare la propria superiorità mentale in un contesto bidimensionale, che non prevede profondità, decostruzione del proprio destino, deviazione dalla semplice realizzazione di un’apparenza di quartiere. Qualcuno intuisce le potenzialità del genio, dà corda all’estro, ma solo in funzione di un meccanismo ristretto, commerciale, assecondando un impulso mai compreso pienamente: si può possedere la vita di una persona ma non la sua immagine, quella no; la decostruzione artistica dell’io voluto da altri è l’unica scappatoia possibile.

La competizione sembrerebbe diventare cattiva, ma non è mai disumana, anzi è umanissima nel suo tentativo di coprire la fragilità che la ispira; attraverso il senso di fastidio provato per un comportamento scorretto, cinico e non amichevole, riusciamo ancora – con amore – a scorgere una richiesta di aiuto originaria, antica, proveniente non solo da un passato personale ma dalla Storia, che si aggrappa ai lembi del presente.

La trascinata, nonostante una personalità pacata, riflessiva, apparentemente passiva, è per certi versi più forte della trascinatrice: vive le proprie esperienze senza quell’irreversibilità tangibile, invece, nella vita dell’amica geniale; è come se l’esistenza, toccandola piano, educandola con esperienze lievi, le volesse concedere l’opportunità di conquistare la calma e la visuale ottimale per poter raccontare tutto in seguito. Lila, sfruttata e ingannata da tutti, intuendo il destino privilegiato di Lenù, cerca di proteggerla, di spronare l’amica a saltare oltre il quartiere, a dare il meglio di sé, di tenerla lontana dal proprio vortice pur non volendola mai perdere, di sostenere quella giovane piantina con i mezzi conquistati a caro prezzo sulla propria pelle. Una protezione quasi materna, pur essendo coetanee, a volte violenta, che esige di tanto in tanto lo strappo inatteso e apparentemente inspiegabile di qualche tenera fogliolina appena spuntata, così, per gioco, per sfida, qualcuno potrebbe dire – ma sarebbe una spiegazione troppo comoda e superficiale – per invidia. Quasi una lezione di vita crudele regalata a chi quella crudeltà non proverà mai. Insegnare a non fidarsi persino degli amici del cuore: per far diventare più forti quelli che amiamo, per trasmettere loro le difese immunitarie acquisite a causa di un’eredità non desiderata.

Saltare oltre il quartiere, ma quando si cerca di farlo veramente si ha paura, e si tenta di bloccare finanche il tentativo fatto dall’altro, dal vicino che inizialmente vorremmo salvare, dall’amica speciale. E torna in mente una scena tratta dalla prima stagione: Lila e Lenù bambine cercano di raggiungere il mare a piedi, ma a un certo punto, su imprevedibile decisione della trascinatrice, tornano indietro; è solo una prova, sarà per un’altra volta. Lenù vedrà il mare per conto suo, vivrà quell’esperienza in seguito, dopo aver preso la rincorsa sulle spalle di Lila che resta bloccata, ancora una volta, l’ennesima volta di una lunga serie. A bloccarla è la vita che le è capitata in sorte, ma è anche lei stessa, i suoi irrinunciabili muri, il fossato di classe al cui scavo contribuisce orgogliosamente. Il fare, quel riuscire comunque a fare di Lenù oltre il quartiere, la sua brillante evoluzione, in un certo qual modo la indispettiscono perché vorrebbe farne parte: il divario, che il passare degli anni e le scelte inevitabilmente creano, è determinato da una sempre più crescente mancanza di controllo sull’altra; la formazione e soprattutto lo strutturarsi delle personalità conducono a un attrito irrimandabile. Persino i libri, quelli amati e letti insieme fin da piccole, acquistati in alternativa alle bambole e acquisiti con sacrificio, spesso ricevuti in dono da mani generose e lungimiranti, diventano terreno di gara: è un gareggiare (intuito già dalla maestra delle scuole elementari!) non meramente intellettualistico ma soprattutto sociale e contemporaneamente interiore, una gara di “posizione” nei confronti di ciò che l’altra è riuscito a ottenere, non per decostruirne la portata e il valore, bensì per sfidarsi, per riuscire a dirsi “l’ho saputo fare anch’io!” o “se avessi potuto, avrei fatto meglio di te qualsiasi cosa!”. Più tardi diventerà “posso avere i tuoi amori!” o “posso competere anch’io nella classe sociale in cui cerchi di farti strada!”. Per poi disinteressarsi all’oggetto del contendere. E Lila lo dichiara apertamente: è una sfida con sé stessa nel fare la medesima cosa, farla di più e meglio; aggiungendo quel tocco geniale che stravolge lo schema educato di Lenù, il percorso ufficiale degli studi. Un tocco da parte di chi quel percorso non l’ha potuto o voluto intraprendere.

Ma imporsi dal di fuori dei percorsi istituzionali richiede forza di volontà, testardaggine, inventiva, colpi di testa che spiazzano anche le persone da sempre vicine e che dovrebbero comprendere. Tutte azioni non sempre, anzi quasi mai, captate dalla società, da chi si affida ai titoli di studio e ai punti ottenuti in classifica (dal termine classificazione ovvero l’azione che tende a dividere in classi, a collocare gli esseri in categorie, in base a punteggi convenzionali): solo quando si ha la fortuna di entrare nel “raggio maieutico” di qualche anima eletta, quando lo sguardo oggettivo del vero educatore si posa disinteressatamente (al di là di ogni classifica) sulla materia acerba percependone le potenzialità, si può assistere al miracolo del genio salvato da sé stesso e dal destino. Ammesso che il genio voglia essere salvato dalla rabbia ancestrale che lo fa scalpitare e lo mantiene vivo.

Il genio selvaggio attrae l’intellettuale ordinato, lo affascina da sempre, lo manipola, lo seduce con la sua naturale ufficiosità: è l’istinto che, scavalcando schemi ideologici e razionali, reclama compensazioni genetiche e sociologiche.

Quella raccontata ne L’Amica Geniale di Elena Ferrante è in sostanza una storia “darwiniana”: un ecosistema storicamente ostile si presta a sperimentazioni sociologiche occultate da una trama narrativa che nonostante l’assenza di scene clamorose o sconvolgenti coup de théâtre – la vita è più tragicamente ordinata e lenta di come ce la descrivono in altre pellicole – riesce a tenere incollati i fruitori dei libri prima e ora i telespettatori della fiction.

Non è “disumano” parlare di sperimentazioni: come non fu disumano ma “pacificamente obiettivo” lo sguardo del sociologo Banfield che posandosi nel 1958 su un paesino della Lucania coniò il concetto di “familismo amorale”.

È la storia, commuovente se ci soffermiamo a riflettere, di un intreccio di esistenze catapultate, per caso o per destino, in un angolo d’Italia, in un preciso momento storico, schierate tutte davanti allo stesso canape teso alla partenza, ognuna con un ordine di entrata predeterminato, con un tipo di “mossa” scritto nei geni, nelle opportunità, negli incontri fortunati o sfortunati. All’inizio, durante l’infanzia, frastornati dallo sparo del mossiere, tutti pensano solo a correre; in seguito le distanze cominciano a delinearsi, il disincanto rallenta il passo, le solitudini si accentuano nonostante le promesse fatte in amicizia. Ma non significa che la gara (o l’amicizia) sia finita: quando ci si spoglia dell’iniziale cameratismo, tutto è più chiaro; la gara diventa solitaria e intrigante, senza per questo perdere di vista le persone care, pur avendo l’impressione di essere stati lasciati indietro dalla vita e dagli altri. Le piccole cattiverie embrionali, gli imbrogli, si trasformano in filosofia per sopravvivere; il “fenotipo acquisito” viene scritto nel materiale genetico e quindi trasmesso.

È la storia di un’amicizia tra due giovani donne che immedesimandosi, a turno, salgono l’una sulle spalle dell’altra, entrano l’una nella vita dell’altra, per compensarsi, provarsi, sperimentarsi e completarsi nella diversità, per riuscire a vedere lontano attraverso gli occhi dell’altra, oltre il quartiere, oltre il destino, addirittura oltre sé stesse.

versione pdf: Sul darwinismo romantico de L’Amica Geniale

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