Poesia senza mecenati

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Poesia senza mecenati

 

“… Clamori nel mondo moribondo…”

(Franco Battiato)

Esistono, forse da sempre, due tipi di poesia: c’è una poesia famosa, sostenuta e promossa dalle masse (anche da quelle che non l’hanno mai letta e non sanno nulla di poesia), che motiva i mecenati e attira i “fan”, acclamata e distribuita per inerzia, spinta più da clamori sociali e da partiti presi che da un’effettiva validità letteraria; una poesia cosiddetta “civile” – figlia anch’essa del “pensiero unico” applicato alla letteratura? -, incentivata dalle vicende personali dell’autore e dal presenzialismo che ne consegue, il cui testo passa in secondo piano perché il primo piano è occupato dalla figura del personaggio, dalla sua immagine eclatante che rappresenta la novità, lo scandalo, lo strappo alla normalità, il gap epocale, il politicamente corretto in cerca di consensi attraverso i versi di una poesia.

Molteplici i fattori che possono corroborare una poetica famosa: una diversità generica, un percorso di riassegnazione sessuale (transgenderismo), un handicap fisico o mentale, un diverso orientamento sessuale, un’ingiustizia sociale subita, una disabilità relazionale, un qualcosa che prima di assestarsi in ambito poetico sia in grado di circolare tra la gente per mezzo dell’informazione generalista. È il fatto in sé che lo richiede, non è il poeta che ricerca (almeno non inizialmente) un certo clamore mediatico. A passare, a bucare lo schermo poetico, è la mancata accettazione della diversità divenuta – ahinoi! – tema principale di una ricerca disoggettivizzata, attraverso il racconto poetico della discriminazione vissuta o del percorso psicofisico personale, e non la poesia. La poesia, quella vera, è stata già uccisa molto tempo prima della pubblicazione del libro famoso.

Il “successo poetico” che ne consegue è effimero, anche se quantitativamente consistente dal punto di vista editoriale; si tratta di un successo studiato a tavolino e fortemente voluto da potenti mecenati già affermati in ambito letterario, decisi a lanciare un nuovo “prodotto” in linea con i tempi: si potrebbe infatti parlare di instant poetry; è una poesia che ammira se stessa, è fine a se stessa e insegue se stessa, come nel simbolo dell’Uroboro o nel quadro intitolato “Noi, Vittorio Sgarbi” del pittore Rocco Normanno; una poesia buona per il divano della D’Urso o per la piazza de “I Fatti Vostri”, che non può occupare un tempo di senso sulle lunghe distanze ma che soddisfa l’esigenza del momento (del poeta e di altre persone che hanno vissuto un’esperienza simile o di lettori politicamente solidali ad essi), che segue la moda travestita da battaglia civile, descrivendo l’evento soggettivamente, senza donargli la necessaria universalità che trasforma una poesia in Poesia.

La poesia, è vero, nasce (anche) dall’esperienza esistenziale dell’autore ma di questa non ne dovrebbe mai diventare la schiava, almeno non apertamente, (così come non ne dovrebbero diventare schiavi i suoi lettori o il poeta stesso!), cercando sempre una rielaborazione più faticosa, spalmata nel tempo, resa impersonale e che non conduce a una comprensione facilitata delle istanze del poeta immediatamente riconoscibili nel verso o a un successo istantaneo ottenuto stimolando la “pancia” di un certo bacino di utenza.

In seguito, partendo da questa base solida di tipo mediatico, si cerca di riacquistare una verginità poetica ormai compromessa, alterata, piegata all’urgenza del fatto da denunciare, un po’ come quando si legge un romanzo dopo aver visto il film tratto dallo stesso e cerchiamo di immaginare come sarebbe stato il romanzo se non avessimo visto prima il film: ma è tardi, l’immaginario è ormai occupato, “inquinato” dalla forma, dall’immagine del poeta, dagli effetti speciali che gli sono stati creati intorno per vendere più copie, dalla pressione della vicenda sociale, dal caso umano ad essa legato (viviamo in un mondo di segni, la spiegazione didascalica del significato viene quasi sempre accantonata o semplicemente non ascoltata); la parola, ridotta ormai a “integratore alimentare”, cerca di infiltrarsi sotto forma di novità nell’animo del lettore, ma senza successo, perché lo trova già impegnato a processare il messaggio mediatico precedente, che ha appunto preceduto o accompagnato il “fenomeno letterario”. È così per la cantante non vedente che va a Sanremo, è così per il direttore d’orchestra malato che dirige altri musicisti o che suona il piano, è così per la campionessa sportiva disabile onnipresente e inflazionata (e usata come vessillo di un’Italia speciale, da parte di una corrente politica pseudocomunista, perbenista e ipocrita). Senza per questo gridare all’eugenetica artistica o correre alla difesa della normalità; e neanche condannandola, come se fosse diventata un peso o una colpa, giusto per sembrare moderni e politically correct. La stessa “correttezza” di facciata che ha caratterizzato in questi anni l’azione di una certa intellighenzia di sinistra così impegnata a risollevare le infauste sorti dei diseredati di tutto il mondo, da dimenticarsi della middle class nostrana. Discriminazione al contrario? Può darsi.

Vi è poi una poesia “banale”, normale, quotidiana, non impegnata (désengagé), casalinga, sconosciuta, “generalista” (o quasi), non personalizzata, soprattutto non specializzata, non originalmente intimista, non meriniana, non estremizzata; una poesia a piede libero, non legata a un tempo conosciuto da tutti attraverso il gossip o a un fatto di cronaca che accompagna l’evento letterario, che non vuole inviare messaggi civili o politicamente corretti; una poesia ignorata e volutamente “ignorante”, arcaica, non mediatica, dimenticata ancor prima di essere letta perché di fatto incapace di fornire un movente al lettore (soprattutto al lettore di oggi molto più influenzato da input superficiali e istantanei); una poesia che non va in televisione, non partecipa a tutti i reading della penisola, alle fiere librarie, alle rassegne poetiche trasmesse in diretta streaming. “Che non fa notizia!” direbbero gli esperti di comunicazione.

Si tratta di una poesia che si lascia scoprire per caso, inciampandogli sopra e bestemmiando per quell’alone di inutilità che porta con sé; una poesia che ha scarsissimo successo e quindi pochi lettori, che non s’impone all’attenzione del mondo (giusto il minimo sindacale!) perché non vuole cambiarlo; una poesia senza mecenati direttamente o indirettamente legati alle vicende del poeta (mecenati che sposano la causa – anche per un tornaconto personale – più che la poesia), con un “pubblico da coronavirus” ovvero quasi del tutto assente; una poesia pensata da persone qualsiasi, poco interessanti, che hanno una vita piatta, quasi insignificante. Le parole di questo tipo di poeta vengono accantonate perché non arrivano, non possono arrivare subito e non devono arrivare; perché il loro “creatore” ha scelto di non arrivare subito, anzi di non arrivare affatto, ma soprattutto perché “gli addetti alla cultura” di battiatica memoria – ignorandolo – hanno deciso che non deve arrivare; perché al poeta in questione sta bene, in fin dei conti, il fatto di dover effettuare il giro a largo prima di farsi leggere e recensire. La sua aspirazione (non perché costretto ma per filosofica convinzione) è “essere dimenticato” e non quella di vivere immediatamente il tempo presente utilizzando la parola (il tempo dei fatti, non quello cronologico, che prende il sopravvento sulla parola è una sciagura non da tutti riconosciuta); il suo sogno più intimo è di farsi riscoprire da lettori di passaggio, dopo molti anni, sulla bancarella di un venditore di libri usati in via San Biagio dei Librai a Napoli. Essere dimenticato da quelli che contano, paradossalmente, ed essere ricordato dagli improbabili e dagli altri invisibili.

Il contesto di questa poesia non è subito comprensibile: è un contesto indecifrabile (anche dallo stesso poeta!) perché amorfo, sfuggente, non dichiarato. Si arriverà in seguito, con calma, attraverso altri scritti, a una sua collocazione organica, a una poetica definita ma mai definitiva.

 versione pdf: Poesia senza mecenati

– video correlato –

“Clamori”, Franco Battiato

(immagine: quadro di Rocco Normanno intitolato “Noi, Vittorio Sgarbi”)

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