Devo ammettere che non mi è capitato quasi mai, anzi sicuramente mai, di utilizzare il “colorito locale”, certe espressioni dialettali della regione in cui sono nato e vivo, nei miei scritti qui sul blog o altrove. Non per una questione di snobismo linguistico, di pudore antiprovincialistico, anche perché considero la lingua napoletana ricca, interessante e “internazionale”, ma più per una semplice mancanza di occasioni.
C’è un bellissimo detto della mia terra che recita così: “Chi fraveca e sfraveca, nun perde maje tiempo” ovvero “Chi fa e disfa, non perde mai tempo”. Chi si dà da fare, anche rifacendo percorsi per ricominciare daccapo, per ridarsi un nuovo inizio dal punto di vista esistenziale (Koestler parlava, dal punto di vista evoluzionistico, di un “rinculare per saltare”, di involvere per cambiare), vuole dimostrare che il proprio impegno è serio, autocritico, profondo, strutturato; che si intende giungere al termine dell’opera (qualunque essa sia) nel migliore dei modi, non raffazzonando una forma a caso ma esigendo da sé stessi un prodotto finale all’altezza della domanda (propria o di altri). Occorre molta pazienza sia per fravecare che per sfravecare, anzi direi di più nella fase altamente critica della sfravecatura, quando è richiesta una decostruzione ragionata del proprio operato, quando sarebbe fin troppo facile deprimersi, gettare la famigerata spugna, mandare al diavolo l’idea che inizialmente ci era sembrata favolosa e agevole da realizzare.
Si potrebbe applicare lo stesso aforisma anche alla scrittura? Direi che l’attività scritturale si presta, o dovrebbe prestarsi, in maniera naturale, fisiologica, al concetto dinamico di fravecatura e sfravecatura: bisogna nutrire fortissimi dubbi − e a volte si nota già la sua debolezza durante la lettura, senza dover compiere ulteriori indagini – dinanzi a uno scritto che non ha subìto un’azione, anche violenta e destrutturante, di sfravecatura, soprattutto quando ciò non avviene in itinere ovvero quando sembrerebbe che si sia giunti a un buon punto e che l’opera sia ormai in discesa verso un’ipotetica fine. È proprio quando ci si rilassa, quando lasciamo fare tutto il lavoro alla gravità, pensando che il testo sia compiuto e pronto per la pubblicazione, che il dubbio sfravecante dovrebbe insinuarsi in maniera proficua nella mente dello scrivente. Ma l’autocritica, lo sappiamo, è una pratica difficile da applicare: occorre sviluppare un “terzo occhio critico” capace, anche a distanza di tempo (la decantazione è uno dei più importanti “fattori sfravecanti”), di individuare i punti deboli di un testo, i suoi errori, le incongruenze, le parti da disfare, da sfravecare appunto, da migliorare, da eliminare, da aggiungere, da smontare per vedere come sono fatte dentro, come quando da bambini smontavamo i giocattoli per vedere come erano organizzati al loro interno, come funzionavano, quali segreti nascondevano, quali deludenti retroscena meccanici erano occultati nelle loro viscere…
In alcuni casi, per esigenze strettamente legate all’impersonalizzazione di un testo che nasce per un uso privato (ad esempio, un diario) ma in seguito destinato, per un preciso progetto scritturale, a un pubblico che non comprenderebbe il linguaggio intimo utilizzato a monte dall’autore, prima di procedere alla scrittura bisogna ripercorrersi, ricreare il mood dell’epoca, compiere un’azione di rilettura e distillazione dal testo originario: a volte si opta per una vera e propria riscrittura del concetto espresso ricavando, appunto, un distillato dal fiume di parole del testo base; in altre occasioni il testo originario, se funziona, può essere riportato quasi integralmente così come è stato concepito. Dipende: si naviga a vista, caso per caso.
La traduzione di sé stessi, la reinterpretazione dei propri scritti, è un tipo di sfravecatura che inizialmente scoraggia, mette in crisi, destabilizza, fa venire meno la terra sotto i piedi dell’autore che ama sentirsi al sicuro, al riparo della prima stesura. “Buona la prima!” vorrebbe urlare. Ed è una bella attività, una vera sfida, quella del disfare: le parole, come i mattoni, attendono la giusta malta che le leghi tra loro nel modo migliore; a volte alcuni mattoni vanno tagliati da ‘o masto (il maestro dei fravecatori, quasi sempre il titolare del testo) per meglio adattarli al muro testuale che si sta costruendo. È una regola che vale in poesia per questioni metriche ovvero di eufonia e di ritmica in caso di “verso libero” che troppo libero non deve mai essere; vale a maggior ragione per la prosa dove è più facile cadere nell’equivoco di credere di avere tutto lo spazio a disposizione proprio perché si tratta di prosa: anche un testo non poetico va disciplinato e asciugato, va sfravecato quando serve.
Sottolineare, evidenziare con colori diversi a seconda dell’importanza che ha per noi un dato passaggio, fare l’artigiano, estrapolare, accorpare o dividere, creare il “fantasma” di un testo su cui concentrarsi lasciando illibato il testo originario (come afferma Nicola Gardini, in riferimento alla traduzione, nell’articolo “Il piacere di tradurre”; “Poesia”, anno I, n.3 – Crocetti editore), spostare, sintetizzare, prelevare una singola parola o una frase e innestarla, come si fa in agricoltura con le piante, in un punto preciso del nuovo testo che accoglierà l’idea primigenia della prima versione, della fonte primordiale, continuando a dare frutti ma da un altro punto del foglio. Deviare fiumi di parole, portarli verso nuove terre da irrigare. Senza alterare il senso di ciò che si voleva dire in principio. Applicare il “cut-up” di Burroughs – che utilizzava una sfravecatura pesante – in maniera lieve, simbolica, senza attaccare le radici semantiche del primo scritto. E accorgersi, sfravecando sfravecando, se il nuovo testo si adatta o meno alle esigenze autoriali, al progetto editoriale per cui è stato ripensato. La presunta perdita di tempo, già smentita dal motto napoletano, cede il passo a una valorizzazione del tempo che l’autore ha impiegato per lasciare traccia di sé, anche se in maniera embrionale, acerba, affastellata. La revisione farà ordine, ristrutturerà l’idea iniziale, ristabilirà le priorità e la sequenza di apparizione dei concetti che si deciderà di far sopravvivere alla sfravecatura.
Perché la scrittura, checché ne dicano i “geniali” fautori di uno spontaneismo ispirato che implicherebbe una presunta e – lasciatemelo dire – malsana intoccabilità del testo, è soprattutto riscrittura.
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versione pdf: Fravecare e sfravecare in scrittura
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