Su “È stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino

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“La realtà è scadente”

(Fabietto)

Al di là dell’autobiografismo “in ritardo” – anche se c’è sempre qualcosa di personale persino in film la cui trama è all’apparenza lontana dal privato del regista -, È stata la mano di Dio” di Sorrentino è una bella elegia filmica sulla nascita di una scelta artistica: la propria.

“Ce l’hai una cosa da raccontare?” la domanda cardine del film. E cos’è che ti spinge o ti spingerà a raccontarla attraverso la cinepresa (o un romanzo, ricordando il più recente Sorrentino romanziere)? Basta il “dolore”, quest’entità ispiratrice non ben definita e di fatto non definibile, per scegliere di trasporre l’esistenza reale che non ci piace sotto forma di riduzione cinematografica? Se non ci fosse stato l’evento luttuoso, l’impeto sarebbe stato lo stesso? Quella idea embrionale di “fare il regista di film” avrebbe sostenuto le distanze? Forse sì ma in maniera diversa: non lo sapremo mai. Ed è giusto non saperlo perché le esistenze non si basano sui “se fosse” ma su ciò che appare concretamente davanti agli occhi, in questo caso, dello spettatore. L’idea abbozzata e maldestra, come il primo sesso fatto con l’anziana vicina di casa che fa da “nave-scuola”, per realizzarsi avrà bisogno di ben altre esperienze, di vero sesso con ragazze desiderate, di gambe che hanno voglia di andare, di esistenza da macinare altrove. Di fede: come quella nel “munaciello” e in una zia che si fa passare per pazza gabbando una realtà scomoda e violenta; di fede in cose di cui vergognarsi, lontanissime, non credute possibili dagli altri (e forse anche da sé stessi), come il voler fare cinema. Fantasticherie giovanili che pian piano diventano esigenze esistenziali, modi vitali per tradurre il reale amaro in qualcos’altro.

Il dolore non è completo se non è abbinato al comico che nasce anche nei momenti più tragici: passare dalla disperazione alla risata è la commedia della vita che può ispirare un film, una storia da scrivere, una musica; è il vissuto sublimato in arte.

I familiari e i parenti – proprio come la città di Napoli che basa la sua bellezza su un’atavica contraddizione che non può essere compresa e accettata da tutti, se non viene vissuta e metabolizzata – sono al tempo stesso spassosi e drammatici: la quotidianità è un continuo e sorprendente psicodramma da cui trarre impulso creativo.

La propria materia umana è ancora, giustamente, acerba, non modellata, imbevuta di indecisione: anche imparare a piangere diventa una conquista interiore importantissima e interessante. Fino a quando ci si potrà isolare dal mondo nascondendosi sotto le cuffie di un inseparabile walkman? Si diventa curiosi sperimentatori di sé stessi e del mondo circostante: il dolore apre canali sensoriali ed emotivi straordinari, sprona sensibilità che in seguito serviranno a penetrare in modo originale e non convenzionale in quell’umanità ridotta in pellicola. C’è sete di vita e di libertà: anche dall’amicizia con un malavitoso, poco raccomandabile in base a un buonsenso comune, si attinge a piene mani e sospendendo il giudizio; la conoscenza diretta della realtà, quella che brucia sulla pelle scarificata dalla sofferenza, prevale sulla morale e soprattutto sul moralismo. Il dolore permette all’uomo sensibile di continuare a stupirsi e a considerare il “mistero” lì dove le persone appagate e asintomatiche non vedono nient’altro che una stanca realtà.

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Il “circo felliniano” (tipico dei film di Sorrentino: personaggi grotteschi che vediamo accampati anche in “La grande bellezza”, “Il divo” e altre pellicole) è riproposto fedelmente perché indispensabile componente di ciò che ci circonda; perché basta osservare familiari e parenti per accorgersi che il “circo” ce l’abbiamo avuto da sempre sotto il naso e non ci resta che raccontarlo. Lo stesso Fellini è evocato in qualità di “segno premonitore” del futuro cammino nel mondo del cinema: un “imprinting” che darà i suoi frutti. Napoli e l’avvento di Maradona sono la scenografia su cui viene proiettata la genesi della scelta di Sorrentino: ci dovrà pur essere un altro modo di raccontare, e di digerire, questa realtà scadente che ci tradisce ogni giorno pugnalandoci alle spalle. Ad un certo punto la tv viene spenta proprio mentre va in onda un’importante partita con l’idolo calcistico protagonista (lo stesso che in un certo qual modo salva la vita al giovane Fabio! O questo è il significato scaramantico che si vuole dare a un “segno” superiore, divino; a quella Mano che non interviene solo per segnare goal reinterpretati addirittura come atti politici anti-imperialistici e di giustizia sociale, ma anche per deviare destini privati): la morte è più forte dell’idolatria, le priorità sono destinate a mutare, il futuro è lì che ci attende e vuole essere agguantato; la vita ci sbatte in faccia altre esigenze interiori più urgenti a cui dare risposte. Un’urgenza espressa magistralmente dall’irriverenza “maieutica” del regista Antonio Capuano, uno dei personaggi del film prestati dall’esperienza biografica di Sorrentino, che senza giri di parole affonda la lama nel cuore del problema (così come critica aspramente in pubblico una giovane attrice di teatro), che aiuta a sviscerare gli obiettivi ma prim’ancora i “perché” di una ricerca ancora verde. Ce l’avrai qualcosa da dire o no? Non vedi quante cose ha da dirti questa città? Che cazzo ci vai a fare a Roma? Forte è il tema della “fuga” verso un futuro gravido, ma altrettanto possente è l’invito a “non disunirsi” ovvero a non fuggire dalla propria realtà e quindi da un passato doloroso e divenuto insopportabile: tema ricorrente in tutti gli artisti che per realizzarsi hanno viaggiato, sono andati lontano per dimenticare sé stessi e la propria storia. Per poi ritornare con un’energia ancor più convincente. Sorrentino è ritornato a Napoli o non se n’è mai andato veramente?

I maestri come Capuano scoraggiano, decostruiscono, smontano per meglio ricostruire, se dall’altra parte c’è determinazione e visione. Ma quello che il giovane Sorrentino ha da dire è ancora troppo personale – c’è un dolore da domare nel tempo -, troppo legato alla tragedia da poco sperimentata sulla propria pelle: “Non me li hanno lasciati vedere!”. Dovrà per molti anni raccontare altro, forse fuggire anche attraverso la cinepresa, prima di trovare la giusta lucidità per raccontarsi al mondo.

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“Napule è”, Pino Daniele

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