versione pdf: Nota a “Scuse senza realtà” di Vincenzo Pietropinto
“… e quell’aria potrebbe essere / quanto rimane della mia vita”
(E poi basta, pag. 56)
Vincenzo Pietropinto definisce la propria poesia lapidaria; e aggiungo io da lettore, è un “lapidario dialogante” (mai sentenzioso o definitivo) con il vissuto (“… i percorsi remoti…”) – un passato che ritorna sfumato ma ancora vivo -, con i misteri dell’esistere, con quei sentimenti che hanno accompagnato il poeta e tuttora lo tormentano dolcemente. È un dialogo che in alcuni casi diventa resa dei conti, con se stesso, con i personaggi incrociati, con le persone amate fosse anche di sfuggita; un dialogo oscillante tra linguaggio didascalico e quotidiano e una poeticità spesso ermetica, da decifrare, che lascia solo trasparire la vicenda umana alla base dei versi. Domande basilari, quasi fanciullesche alla Peter Handke (“… Perché sono io?”; “E non ti piacerebbe nascere di nuovo…?”) che scavano nell’unicità e irripetibilità della vita ricevuta in dono; domande escatologiche sul cosa resterà dopo o dove si andrà a finire; domande inquiete poste da un cuore che insegue “i fantasmi del passato”; domande filosofiche: “Che significato può avere la mia vita / a paragone con il giro del mondo / che continua da millenni?”; domande che superano il tempo giocando con l’eternità: “Dove sarò fra cento anni? […] e se saranno passati i cento anni / saprò d’essere morto senza essere mai nato”. O per dirla alla Battiato: “Ti sei mai chiesto quale funzione hai?”.
Rimorsi o nostalgie? Forse entrambi, senza far prevalere mai la disperazione, anzi correndo sempre “verso energie / nuove, inesplorate”. Solo chi è inquieto, mentre gli altri attendono sereni il fato, costruisce quotidianamente la propria esistenza come meglio desidera, “per riabbracciare la mia vita / e quel che in noi c’è d’umano”. Che valore ha il perdonare e il perdonarsi? Quale invece l’umiltà? Ma bisogna fare presto perché “Il freddo già minaccia la coltre della mia memoria, / avvolgendola con una nebbia / senza avere nessuna pietà / delle durezze dentro noi.” Perdonarsi anche soffocando “la nostra ingenuità / in sorprendenti risate […] Si trascende così / la profondità dell’essere / e il cielo si fa più vicino!”.
Ma il poeta, a volte, ha “paura di raccontare tutto”, di disperdersi nel vento dell’ascolto e allora torna a chiudersi, a rendersi quasi indecifrabile, inaccessibile, per proteggersi, conservarsi nel mistero di se stesso. La vita che bussa alla sua porta, però, è più forte di qualsiasi lucchetto e fa domande urgenti sulle altre esistenze incontrate: “Cosa unisce i percorsi di vita? […] un ponte unisce i nostri / misteri”; sullo sfondo di questi contatti la consapevolezza della condizione umana che resta genuinamente solitaria: “Si trapassa il quotidiano, / si vive il futuro, / uniti da un ponte / di solitudine”. La solitudine è uno stato interiore che esula dalla quantità di persone che ci circondano (“Io sono solo a questo mondo […] Io e più nessuno”) ed è in grado di suggerire cose inedite a chi scrive: “I canali dei miei pensieri / sono stati contagiati / dalla tua solitudine”.
Come trovare un compromesso tra la passione per la vita e il peso del vissuto? Pietropinto sente di essere “albero ancora vitale” ma anche “appesantito / dai rimpianti”: la risposta non sta in un adolescenziale giovanilismo fuori tempo (“giovani pensieri / che non guardano / i pesanti anni”) bensì nel non rinunciare all’amore per il presente, per ciò che suscita passione e interesse ora e qui; ribellandosi a un Dio che ci trascura restando al proprio posto, presenti a se stessi e in lotta con strumenti culturali, combattendo il desiderio legittimo di andarsene dal mondo, caso mai fare finta di “trattenere tra le mani / la certezza dell’eterno”; gustando la bellezza del ritrovarsi dopo momenti di smarrimento e sconforto (“Bisogna anche credere in se stessi”); andando incontro alla tristezza, vivendola pienamente, abbracciandola e alimentando le sue fiamme “magari solo per dispetto verso se stessi, / con un buon bicchiere di liquore / secco”. Il poeta non si arrende, vuole ancora sentire “il profumo dell’amore” per vivere ad oltranza “mentre dentro di me / tutto muore”; nell’autunno della vita rivivere tutto una seconda volta con una consapevolezza che da giovani è impossibile avere. Solo la parola della poesia può realizzare questo miracolo: fondersi nel tempo, piegare la realtà “in un repertorio di emozioni nell’eternità”. Perché il poeta sensibile e attento ha “la dimensione dei guerrieri / che ci suggeriscono interpretazioni della vita / profumate come ginestre, / conquistatori con spade filosofiche, / delle vibrazioni corrose dell’esistenza…”; è bisognoso di sogni, non per evadere dalla realtà ma per ricaricarsi e tornare rigenerato nel mondo, per il mondo.
Il poeta ha fede nell’esistenza in cui è immerso; conosce fin troppo bene il gioco del ricevere e del perdere perché “tu sei dolore e gioia / e per questo io ti chiamo vita”, una vita che prima o poi riscuote sempre un’amara tassa sui momenti di serenità (“Perché non può vederti felice”). Una vita simile al mare che prima accoglie e poi rigetta sulla spiaggia, al ritmo di onde esistenziali. La notte precede il freddo mattutino che “schiaffeggia il cuore” ma solo con la luce si può scorgere la fallacia dell’umano comportamento; le cose e le persone cambiano, noi stessi cambiamo nel tempo, anche se nutriamo “la speranza che qualcuno / torni ad essere quale era… […] che qualche istante / possa ripetersi nel tempo”. L’autore chiede in un verso: “Potrò rivedere il sorriso sul tuo volto?”.
Anche se leggiamo che “L’estate passò / e la calma autunnale / riportò il cuore / al suo ritmo normale / alle sue razioni di calma / e di malcontento, controllato / e malcelato”, la poesia di Vincenzo Pietropinto non può essere considerata poesia autunnale, rassegnata al destino e al declino: è consapevole della realtà dei fatti e degli anni ormai trascorsi, certo, ma anche delle “pagine migliori / ancora da scrivere”; consapevole del proprio movimento attivo e mai passivo attraverso la storia personale e quella dell’umanità. C’è malinconia, è vero, che rappresenta l’autentico carburante del pensiero poetico capace di attraversare il tempo e lo spazio, ma c’è anche la forte speranza che un lascito interiore sia già stato assicurato all’eternità.
Consapevolezza
Sono un libro aperto
con le sue pagine migliori
ancora da scrivere.
Da tempo, vivo senza tempo,
tra l’indifferenza e pieno d’illusione
nel tempo dei ricordi,
tra la polvere degli anni
nel calore delle cose
che mi circondavano
dove mi legano gli affetti
al disordine del cuore
per avere la consapevolezza
di trasformarmi.
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Sogni poetici
Poi tramonteranno i sogni
e arriverà la realtà
argille secche del tuo mondo di donna.
Mi risveglio e il cielo
ci accoglie con colori rubini
e le nuvole s’inseguiranno
come un filare di ciliegi, veloci,
scompigliando i nostri pensieri
come chioma al vento.
Vivo stupore di smarrire
nei tuoi occhi nebbia intrisa d’acqua,
e il cielo ripiegando verso il castello
sembrava la diligenza alata dei viandanti
e la pioggia, regina sconfitta,
legittimava tutte le strade e percorreva
la selva dei miei pensieri
coprendo la mia mente
come un diadema.
Rincorrere, sempre ogni cosa
con esagerata commozione,
perché io ho la dimensione dei guerrieri
che ci suggeriscono interpretazioni della vita
profumate come ginestre,
conquistatori con spade filosofiche,
delle vibrazioni corrose dell’esistenza…
mi risveglio da me con suoni di tamburi
e vedo che tutto è già pieno di vita
e della abituale umanità.
L’alba dei miei pensieri
deserto di sogni fantastici,
mi fa respirare la tua assenza,
ma il tuo caldo amore come una goccia di magia
scioglie le insidie del tempo e interrompe
la vacanza della mia ambrata solitudine.
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versione pdf: Nota a “Scuse senza realtà” di Vincenzo Pietropinto
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