Non esistono vite perfette, sincroniche, prive di rimorsi o ripensamenti anche dolorosi; molte, invece, sono le vite vissute da persone che pur amandosi hanno sperimentato la distrazione, l’incomprensione (“l’incalzare delle cose / che non furono capite”), la nevrosi e l’egoismo, l’errore umano e i doveri mancati (“e pensi ai pensieri e alle omissioni”), la trascuratezza e la lontananza emotiva, l’inciampo nella propria stupidità (“se penso allo spreco stupido / di quello che andava salvato”). Così come non esiste una sola tipologia di addio: ci sono gli addii in vitam tra individui che continueranno a esistere altrove, separatamente, respirando altra aria, guardando altri panorami e volti; addii il cui dolore (al netto dell’eventuale disamore che li ha caratterizzati) è contaminato sempre da una sottile speranza basata sulla consapevolezza materiale dell’esserci comunque, sulla coltivazione di fantasie riguardanti ritorni fisici, tangibili, di incontri casuali che capitano a chi ancora calpesta la terra di questo pianeta. E poi ci sono gli addii irreversibili “a cui non ci si abitua”, inesorabili, mortali (“gli addii doloranti”): in quel caso il dolore – non meno forte – è però più rassegnato, educato alla scuola dell’umana finitezza senza ritorni e che è legge indiscutibile, alla visione di un abisso che non contempla alcuna speranza ma solo ferree soluzioni da deglutire senza edulcoranti e da cercare in altre dimensioni, in un’altra gamma di appigli non illusori, metafisici, spiritualistici, ancora basati sulla concretezza del lascito. Non si tratta di semplici ricordi che “fanno i loro banchetti”, bensì di un ripercorrersi reale, al limite del materialistico, un riviversi sulla scena in compagnia della parte mancante che è ancora in un certo qual modo presente, incidente nella quotidianità.
Nella raccolta poetica Cartoline degli addii (Fallone Editore, 2022), Alessandro Cartoni registra, descrive e archivia – forse con finalità (auto)terapeutiche e non solo per omaggiare la memoria della persona amata, fuggita o estinta – questo processo di lenta rarefazione della traccia mnemonica (“… il pensiero di te torna […] / a portarmi il tuo volto / sempre più lontano / sempre più evanescente…”), di inevitabile interruzione e allontanamento dalla quotidianità condivisa, di una rimandata separazione dagli oggetti che tuttavia non diluisce il sapore vagamente “escatologico” di certe domande: “Dove vanno gli aloni? I pezzi / di esistenza?”. E lo fa con un linguaggio chiaro, diretto, urgente, non sofisticato, senza fronzoli metrici per occultare un grido di dolore che deve restare pacato, ben strutturato ma genuino, accessibile a ogni essere pensante di passaggio che leggendo si riconosca in quell’esperienza atroce e al tempo stesso talmente umana, “normale”, diffusa, da risultare indescrivibile con parole più originali, nuove, diverse da quelle dell’umanità che da sempre – da quando ha consapevolezza dell’essere sapiens – si confronta con l’abbandono, con la morte e i vuoti che provocano.
Forse una soluzione è nel negarsi certi appigli: “la foto non c’è più / ed era un baluardo / al tempo, / non ci ricorderemo / domani che sguardo / fosse il nostro, e forse / questo è un bene…”. O forse, ancora, come ci ricorda il personaggio di Mr. Stevens (Anthony Hopkins) nel film “Viaggio in Inghilterra”: <<Il dolore di oggi fa parte della felicità di ieri>>; non c’è soluzione di continuità nell’esperienza esistenziale, anche se tendiamo a separare, a dire “questo è utile, questo no”, “questo è umano, questo è disumano”, “questo non lo voglio, questo invece sì”, “la vita è naturale, la morte no” come se girassimo con un carrello nel supermercato degli eventi. E bisogna lasciare andare le logiche sicure del passato, costruite nel tempo: “molto di quello che ieri / avevi amato scompare / in un buco di insensatezza”; buco, entrata sull’abisso di una nuova vita non desiderata, che sembrerebbe prepararci, volenti o nolenti, a impegnare l’ingresso di quel gorgo citato da Cesare Pavese nella sua Verrà la morte e avrà i tuoi occhi perché tutti, prima o poi, “Scenderemo nel gorgo muti”, senza null’altro da dire, da aggiungere alle inutili chiacchiere di una vita terrena. E questa disciplina del silenzio dovrebbe accompagnarci già in vita, per anticipare rispettosamente la nostra rassegnazione dinanzi all’inesorabile. E invece scalciamo, ci agitiamo, non ci prepariamo adeguatamente al trapasso; perché come cantano i Baustelle in Monumentale:
I cimiteri non danno pensieri,
Sei tu che ti sbagli, se stanco, disperi
E piangi per colmare i buchi dell’assenza, […]
I camposanti non hanno rimpianti,
Sei tu che li covi, li rendi fantasmi,
Li canti per sentirne meno la mancanza,
Come non bastasse l’esistenza e l’eco che fa.
Tuttavia l’Autore non si illude perché sa che “Quel dolore in quella vita /” è “così perfetto e concluso / e conclamato in se stesso / da non aver bisogno / di altro e di nessuno” e che è “inutile guardarsi indietro, / o pensare che ritornerai”; che “non devi più pensare / le cose come sono state”, che “i suoni e le parole / se ne andranno via, / nell’insignificanza” perché “di questo nulla / è fatto il mondo”. Educarsi al concetto di Vuoto, non quello causato nel quotidiano dall’assenza di chi in qualche modo ci lascia, ma al vuoto buddisticamente inteso la cui consapevole esperienza porta al “Risveglio” e quindi al superamento del dolore innescato da convincimenti convenzionali ereditati dalla cultura positivistica. Niente a che vedere, di conseguenza, con il nichilismo sfiorato nella silloge (“Bisogna smettere di fingere che / ci sia qualcosa invece del nulla”) o lo scetticismo ateo, affetti anch’essi da una visione materialistica dell’universo. Ci si affeziona al dolore tradizionale perché non si vuole “uscire / da questo torpore / da questa reclusione / per gettarmi nell’ambascia / di poterti scorgere / fuori dai ricordi”; anche se c’è il tentativo di seppellire “… il tuo volto / […] per non avere più ricordi” e cercare di voltare pagina, in nome di una “vita da tenere in vita”. Perché è sempre in agguato la tentazione di “stringere pochi attimi / qualche foto, qualche parola / dimenticata / la visione / del tuo viso che svapora / nel tempo”; perché non vogliamo fare nostra la verità che “lentamente le persone / scompaiono / dalla vita e dalle cose / dai pensieri degli altri” e che “la voce amata / si perde nelle stanze / in polvere si disfa / il sole dei ricordi”. Anche i ricordi sbiadiscono (ricevere il “dono […[ della smemoratezza”) e hanno un loro turnover (“i necessari oblii”), per lasciare spazio a certi indimenticabili elementi amati da ricercare negli altri o nelle altre (“cerco una bocca / che assomigli alla tua”) o al sogno che mitiga l’assenza da svegli (“stanotte sei tornata […] l’unica cosa vera / è questo sogno”). Per salvarsi bisogna affidarsi a una saggezza superiore, a una guida più antica che ha già sperimentato tutto questo e sa come muoversi; abituarsi al fatto che “nulla è come prima”, e finalmente un giorno riuscire a dire: “ora vai anima mia, non voltarti più / raccogli questi frantumi della notte / e portali con te, come diademi, / non ricordare nulla, non tornare / in questi luoghi di antica ferocia / non avere passato è l’unica / salvezza”.
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è rimasta l’ombra tua
in queste stanze
dalla volta che vi entrasti
e vi lasciasti il segno
del tuo corpo vero,
la neve si scioglie
in tracce sporche
di memoria,
poi si addensa
dentro stagioni
ingrate, è necessario
preparare qualcosa
di più antico delle ombre,
attendere che il filo d’erba
si faccia legno e corteccia
e struttura che sostiene
il tempo oscuro,
poi verrà un fuoco
per scaldarsi ancora
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il cemento sul tetto della casa
è ormai coperto da uno strato
di tegole simmetriche
ripensi all’anno prima
alla casa nuda ancora
in costruzione quasi smarrita
dentro la campagna
così le cose vanno avanti
circondate dagli eventi
le stagioni le estinzioni
i nuovi corsi e i necessari
oblii, nulla che fermi
il tempo, anche i ricordi
ormai hanno vita interinale,
i visi poi si sfaldano
nei soffi della nebbia
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versione pdf: Nota a “Cartoline degli addii” di Alessandro Cartoni
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