I primi 50 anni de “I giardini di marzo” su Pangea.news

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Il mio articolo I primi 50 anni de “I giardini di marzo” (già pubblicato su questo blog, qui) è stato riproposto su Pangearivista avventuriera di cultura e idee, “una delle migliori rassegne culturali in Italia”, curata dal giornalista, poeta, scrittore e critico letterario Davide Brullo e che da sempre pubblica articoli interessanti e culturalmente stimolanti.

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I primi 50 anni de “I giardini di marzo”

versione pdf: I primi 50 anni de “I giardini di marzo”

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Io e questo brano dell’immortale Lucio Battisti siamo quasi coetanei — la differenza è di un anno — ma entrambi ci sentiamo ancora “giovani” e in gara: ciò accade perché, come nel caso de “I giardini di marzo” scritta insieme al grande Mogol, le tematiche che la animano sono attuali, inossidabili, riguardanti l’umano e quindi non sorpassabili. Ho sempre pensato che il testo di questa canzone fosse un chiaro manifesto poetico non nel senso prettamente musicale — sulle differenze strutturali tra poesia e canzone si è già discusso ampiamente, anche se la poesia o “lirica” deriva proprio dal canto che nell’antica Grecia era accompagnato dal suono della lira — bensì da un punto di vista intimistico, psicologico.

Il carretto passava e quell’uomo gridava “gelati!”
Al ventuno del mese i nostri soldi erano già finiti
Io pensavo a mia madre e rivedevo i suoi vestiti
Il più bello era nero coi fiori non ancora appassiti

Il carretto è l’elemento iniziale che squarcia il velo della memoria: un ricordo giovanile — quello di un uomo che grida “gelati!” — irrompe nel presente a sottolineare una condizione passata, una precarietà economica che non precludeva a una sorta di felicità semplice, essenziale; la visione di un abito materno, tra i tanti affioranti dall’archivio-armadio, che conserva ancora una freschezza intatta, legata a un’epoca di giovinezza non ancora appassita. A volte è strano pensare che anche un genitore, oggi invecchiato, stanco, fisicamente in declino, abbia vissuto un’età verde, rigogliosa, splendente, proprio come quella vissuta da noi cosiddetti giovani. La cosa ci fa indirettamente male perché è la prova che tale ciclo, terminante si spera con un bel tramonto, toccherà a tutti, indistintamente: il genitore è solo la testimonianza più evidente che abbiamo a portata di mano.

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All’uscita di scuola i ragazzi vendevano i libri
Io restavo a guardarli cercando il coraggio per imitarli
Poi, sconfitto, tornavo a giocar con la mente i suoi tarli
E la sera al telefono tu mi chiedevi “perché non parli?”

Anche il ricordo di una certa “precarietà esistenziale” torna nel presente con tutta la forza di cui dispone: non bisogna mai dimenticare come si è stati, cosa siamo stati, l’impreparazione all’esistenza, il timore di confrontarsi con chi appariva più determinato, con i coetanei che sapevano vendere e vendersi senza esitazione sul mercato delle opportunità; ci sono epoche della nostra vita in cui possiamo solo osservare gli altri, registrare i loro movimenti “vincenti”, studiarne le capacità per poi, forse, riprodurle in un possibile futuro ricco di coraggio e di autodeterminazione. Quando si è giovani la mancanza di slancio può essere interpretata, da se stessi e dagli altri, come una sconfitta sul campo perché non si posseggono ancora gli strumenti per accettare la propria diversità, la propria unicità, per riciclarla verso campi applicativi più soggettivi e meno standardizzati: se in un primo momento l’imitazione (e non l’emulazione che rappresenterebbe già uno stadio evolutivo più auspicabile) sembra essere l’unica strada percorribile per non farsi notare e giudicare, e soprattutto per sopravvivere in un mondo che va veloce e non aspetta nessuno, in seguito — non da un giorno all’altro ma coltivando pazientemente la propria personalità e non quella di qualcun’altro visto in tv o sui social — viene a maturare l’idea che l’imitazione è inutile e dannosa, e che l’unica cosa saggia da fare è diventare se stessi. Nel frattempo si torna a “giocare” — così come da giovani di gioca con altri giochi — con la mente che propone fantasie autodistruttive, ipotesi paranoiche, tarli prodotti dalla disistima che scavano nella direzione sbagliata… Ma sono “giochi” da assecondare, che fanno parte di un gioco ancor più grande, incomprensibile durante certe epoche della vita. Bisogna solo giocare e basta! Ci sarà tempo per rivalutare gli “idoli” imitati, per decostruire l’impatto emotivo di certi “tarli”. Nel frattempo, dinanzi alla nostra presunta mancanza di determinazione e organizzazione, quelli che ci amano e sono in apprensione per noi, non possono non domandarci “perché non parli?” ovvero perché non vivi, non ti getti a capofitto nel mondo e nella vita, perché non rischi, non ti racconti, non ti esprimi con i tuoi mezzi linguistici, non importa se acerbi, spuntati, zoppicanti. Insomma “parla cazzo!”, dici qualcosa… Sembra di assistere alla bellissima scena “maieutica” tratta dal film di Sorrentino “È stata la mano di Dio”, quando Antonio Capuano dice a Fabietto: “‘A tiene ‘na cos’ a raccuntà? Forza, curaggio. A tiene o no ‘na cos’ a raccuntà? Tien’ ‘o curaggio ro ddicere. E te vuo’ movere o no?”. Il silenzio è sì importante, soprattutto quando prevale l’esigenza di dover raccogliere le idee e le forze prima di esordire con la propria espressività: non è il silenzio dello sconfitto dalla vita (come troppo facilmente pensano certi detrattori), ma è la pausa — per alcuni lunga, per altri breve — che precede il canto (quello libero!), l’espressione sentita e non casuale del proprio mondo interiore.

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Che anno è, che giorno è?
Questo è il tempo di vivere con te
Le mie mani come vedi non tremano più
E ho nell’anima
In fondo all’anima cieli immensi
E immenso amore
E poi ancora, ancora amore, amor per te
Fiumi azzurri e colline e praterie
Dove corrono dolcissime le mie malinconie
L’universo trova spazio dentro me
Ma il coraggio di vivere quello ancora non c’è

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“Un anno senza Franco Battiato”, su Pangea.news

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Il mio articolo “La presenza nell’assenza: un anno senza Franco Battiato” (già pubblicato su questo blog, qui) è stato riproposto su Pangearivista avventuriera di cultura e idee, “una delle migliori rassegne culturali in Italia”, curata dal giornalista, poeta, scrittore e critico letterario Davide Brullo e che da sempre pubblica articoli interessanti e culturalmente stimolanti.

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La presenza nell’assenza: un anno senza Franco Battiato

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La presenza nell’assenza: un anno senza Franco Battiato

“… Percorreremo assieme le vie che portano all’essenza…”

Ho sempre avuto un approccio da “archivista” nei confronti della morte: di quella di un parente, di un amico… Superato un comprensibile momento iniziale di smarrimento per la dipartita, senza perdermi d’animo, anzi con ancor più lena, ho sempre dato spazio a una conseguente opera di “raccolta e archiviazione” di tutti quegli elementi esistenziali che hanno caratterizzato un vissuto comune, un cammino condiviso: stampare il dialogo di una chat, elencare date cruciali, raggruppare foto, raccogliere materiale… per me rappresentano gesti naturali del post-mortem. Come a voler congelare non il momento della morte in sé, quanto piuttosto il percorso concreto, tangibile, che l’ha preceduto; un appiglio materialistico sull’abisso, un modo per dire a se stessi che nulla, neanche una briciola, andrà perduta di quel che è stato fatto insieme; per non darla vinta alla morte che livella – lei sì, archivista definitiva e inesorabile! -, che chiude a ogni possibilità di proseguimento di un discorso tra viventi che emettono suoni. Allora ci si affida alla stampa dei reperti per averli sottomano nei giorni successivi alla tumulazione, alla tecnologia che conserva negli hard disk pezzi di testimonianze anche frivole di ciò che è stato, alle registrazioni per quando verrà a mancare il ricordo della voce, alle immagini catturate da un vivere quotidiano senza cronaca, almeno per noi “comuni mortali” non famosi. Tutto viene sigillato in scatole, poi seppellite in armadi, in attesa di quei giorni in cui c’è più bisogno di ravvivare memorie, di ricordare fatti ricoperti dalla polvere ma non dimenticati, spostati dalla visuale ma non cancellati. Qualcuno dice che esagero a conservare tutto, che dovrei lasciar andare, che dovrei fare space clearing: ma non c’è ossessione nel mio conservare, c’è solo previdenza, cura museale per vite poco importanti agli occhi della Storia. Si conserva il passato perché il nostro cervello, giustamente, per fare spazio alle urgenze del presente, lascia andare fisiologicamente molti dati considerati “inutili” alla quotidianità.

Quando, però, ad “abbandonare il pianeta” è una persona altrettanto cara e preziosa come Franco Battiato, che non ha bisogno di “archiviazioni” d’urgenza, come nel caso del parente o dell’amico sconosciuti alle cronache, in quanto la sua stessa esistenza artistica è stata produttrice naturale di tracce non solo sonore, si finisce con l’interrogarsi sul reale significato della “presenza nell’assenza” di un personaggio pubblico di tale calibro, che ha avuto e ha un impatto umano, spirituale e artistico, diverso rispetto a quello di altri nomi altrettanto autorevoli del cosiddetto “mondo dello spettacolo”. Nomi di personaggi estinti, cari a un popolo in fila sotto il sole per salutare il feretro, osannati e pianti, certo, ma la cui essenza va ad affievolirsi, oserei dire naturalmente, nel corso del tempo: questi passanti, a maggior ragione, sono bisognosi di archivi e teche Rai da rispolverare.

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Battiato, invece, si fa ricordare con una forza crescente proprio nel silenzio e nella distanza; più si lascia sedimentare l’evento umano della sua morte, più la sua essenza risale attraverso i mesi e le distrazioni come un “rigurgito spirituale”. Battiato non apprezzava gli archivisti; raccomandava sempre di non raccogliere ossessivamente tutto su di lui: interviste, foto, video, bootleg, “rubriche aperte sui peli” di Battiato e “reliquie” varie… Ci preparava, già allora, alla ricerca dell’essenza, al non attaccamento alle cose e ai corpi cantanti. Anche l’Egitto, con le sue piramidi e le sue meraviglie, prima o poi verrà ricoperto nuovamente dalle sabbie, e i musei perderanno i propri reperti custoditi gelosamente: la materia è destinata a dissolversi, come le onde in uno stagno o quelle sonore di una canzone. Ma l’essenza no, quella permane anche senza l’ausilio degli oggetti archiviati: come nel film “Padre” di Giada Colagrande, la presenza dell’estinto (interpretato proprio da Battiato) si fa ancor più viva e significativa – per comodità cinematografiche si identifica questa presenza attraverso la figura ormai folcloristica del classico fantasma – all’indomani della sua dipartita: ed è un esserci discreto, non spaventevole, silenzioso (silenzio a cui Battiato, per questioni private non da tutti rispettate, ci aveva già consegnati molto tempo prima di attraversare “la porta dello spavento supremo”). “Un giorno senza tramonto / le voci si faranno presenze”: è la scoperta dell’essenza nell’assenza, anche dell’assenza in vitam. Una scoperta che può essere fatta solo se si ha il coraggio, a un certo punto, di abbassare l’audio dei vari tour commemorativi, degli affollati e umanamente comprensibili concerti-evento per onorare il grande artista, e di affidarsi seppur dolorosamente alle sole registrazioni discografiche di una voce destinata a non ritornare, mai più, per come eravamo abituati a percepirla, ovvero attraverso i limitati sensi umani: la voce del padrone di un corpo disfatto, che non rivedremo mai più muoversi, cantare, scherzare, suonare, danzare su un palco come negli anni gloriosi e spensierati dei live in giro per il mondo e dei nostri viaggi in vista di concerti estivi, tra piazze e cavee. “Spensierati” fino a un certo punto: la musica di Battiato solo in superficie lasciava spazio a un goliardico citazionismo all’apparenza slegato e al cazzeggio cuccurucucheggiante dei fine concerto sotto i palchi; in realtà i testi e la musica di Battiato, come ben sa chi l’ha musicalmente frequentato, scavavano in profondità, mutavano inesorabilmente l’animo dell’ascoltatore, si prendevano il loro tempo, disseppellivano angolazioni interiori non catalogabili, di quelle che ci invitavano e ancora c’invitano al viaggio in paesi che tanto ci somigliano: territori spirituali ma anche geografici; a volte prima geografici e poi spirituali.

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Viaggiare con Battiato nelle cuffie, colonna sonora di traversate solitarie in territori non per forza mistici, a volte popolari, turistici, affollati come i mercati arabi in paesi stranieri o il “suk palermitano” di Ballarò, perché Battiato rappresentava e rappresenta l’esperimento riuscitissimo di una ricerca superiore fatta con mezzi appartenenti alla cosiddetta “musica di comunicazione”, non per forza di consumo (pur essendo stata anche di consumo), e che diede vita a un inedito, colto e ossimorico “pop elitario”. Così come fanno certi vaccini di ultima generazione, veicolava “frammenti genetici” di insegnamenti sconosciuti e antichissimi attraverso l’involucro “innocuo” del mezzo sonoro: l’obiettivo non dichiarato era quello di creare un’immunità (mai “di gregge” perché Le aquile non volano a stormi, ma amano e difendono la propria individualità) agli “urlettini dei cantanti”, al facile consenso dato ai tormentoni estivi dalla vita effimera, a un cantautorato nostrano incapace di offrire strade culturali alternative o esotiche, quando non addirittura esoteriche. Ha portato, musicalmente parlando, l’Alto alla portata di quasi tutti, senza mai scendere a compromessi con il Basso, con gli istinti un po’ bestiali e i desideri mitici dei suoi stessi fan che sistematicamente – per nostra fortuna – ignorava, con i “livelli inferiori” della condizione umana che aspirano a una facile fruibilità del mezzo. Ha seguito e rispettato i propri interessi culturali e non quelli suggeriti dal mercato, pur avendo venduto milioni di copie. E soprattutto ci ha fatto comprendere che tentare di modificare i massimi sistemi – primi fra tutti quelli politici! – è inutile oltre che pretestuoso, e che è ben più arduo ma spiritualmente soddisfacente (Battiato sarà sempre il nostro “Assessore alle Meccaniche Celesti”!) impegnarsi a cambiare il proprio microcosmo interiore, a rendere migliore ciò che abbiamo a portata di mano in noi stessi. Engagez-vous!

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Edoardo Bennato e il “Peter Pan Rock ’n’ Roll tour”

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post dedicato all’amico Antonio Scarpone,
scomparso maledettamente troppo presto
di notte, mentre ero a questo concerto di Bennato…
Che bello tornare in teatro, ed è ancora più bello se si torna per un concerto. Ieri sera uno strepitoso Edoardo Bennato – per celebrare i 40 anni di “Sono solo canzonette”– ha preso in ostaggio per più di due ore il suo pubblico di Napoli al Teatro Augusteo, meravigliosamente assembrato come in tempi pre-pandemici e nonostante le ffp2 a nascondere le labbra in movimento, mai stanco di canticchiare le storiche canzoni del “rinnegato”. Inizialmente accompagnato dal quartetto d’archi “Flegreo”, l’architetto Bennato è esploso in faccia alla sua gente, in attesa da due anni di ritornare in presenza, con la classica formazione rock (la “On stage Be Band”) che ha reso arduo il restare seduti in un teatro strapieno quando sullo sfondo, alle spalle dei musicisti, è ricomparsa in un’animazione, minacciosa e mai passata di moda, la Torre di Babele che imperterriti continuiamo a costruire. Brani tratti dagli album che lo hanno condotto al successo e da quelli più recenti, passando per la parentesi trasformista di Joe Sarnataro che ancora oggi si chiede “Sotto viale Augusto che ce sta?”, fino a rituffarsi nella musica di quel Peter Pan che si porta dietro da sempre, incapace di diventare adulto perché allergico ai dettami del sistema (primo fra tutti quello discografico)… Un concerto “infinito” tra spiegoni biascicati (Edoardo Bennato è stato sempre più bravo a suonare e cantare che a parlare in maniera lineare: da qui la nostra rassicurante certezza che non si darà mai alla politica come il protagonista del brano “Vutammo pe te'”!) e la voglia di ripercorrersi in compagnia di un pubblico trasversale, dai capelli bianchi della prima ora, al ragazzino “iniziato” dal padre al rock partenopeo: la materia c’è, favole da raccontare e ancora attuali quante ne vogliamo. Bennato ha sottolineato più volte che i personaggi collodiani sono attualissimi, e l’inventore di Pinocchio “chissà cosa avrebbe pensato di quest’epoca” in cui grilli parlanti, gatti e volpi non mancano affatto. Dopo il dolce omaggio all’amico scomparso Tito Stagno con il brano “La luna”, l’apoteosi viene raggiunta quando alla fine del concerto il quartetto d’archi si unisce alla band rock: chitarre elettriche e violini suonati in piedi o pizzicati, come scacciapensieri nei fumosi saloon di un Far West immaginifico.

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“With or without you”: rinnegarsi è bello!

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Dicono che sia stata tradotta malamente l’intervista a Bono Vox degli U2, che abbiamo frainteso tutta la faccenda e che come al solito noi provinciali anglofobi non si è capita una mazza del significato delle sue parole, del Bono-pensiero ambiguo per questioni di marketing, sembra che in realtà non abbia detto ciò che abbiamo voluto capire… Fatto sta che il “casus” mi fornisce l’occasione per (riba)dire quanto sia bello e salutare rinnegare e rinnegarsi, guardarsi con occhi nuovi, trovarsi ridicoli, prendere le distanze da se stessi e dalle proprie cose (anche quelle che in un altro momento ci sono sembrate, e sono sembrate agli altri, care, ben fatte e importanti), addirittura farsi schifo, non riconoscersi in una forma ormai passata del proprio sé… Che meraviglia! Odiare il proprio nome, la propria voce, quella Vox che era diventata cognome d’arte, le canzoni che ci hanno portato al successo. “Allora ridateci i soldi che abbiamo speso per acquistare i vostri album e ascoltarvi!”, staranno gridando forse i fan più intransigenti e puristi. Macché, state buoni! Non lo sapete che le opere (capita con le canzoni ma anche con le poesie e i romanzi) una volta usciti dal “grembo materno” di un cantautore o di una band non appartengono più agli autori ma a chi ascolta (o legge) anche se i “genitori” continueranno a portarle in giro per decenni, campandoci e costruendo su di esse altre opere o alla fine rinnegandole? Non chiedete i soldi indietro, scalmanati che non siete altro! Il brano che a voi continua a piacere, nonostante il dietro-front del cantautore, è già vostro da anni, da quando vi ha detto qualcosa anche se al suo autore oggi non dice più niente. Se avete una personalità vi dovrebbe continuare a piacere con o senza il consenso dell’autore; with or without you…
“La poesia non è di chi la scrive: è di chi gli serve” così veniva bacchettato per finta il poeta cileno Pablo Neruda dal postino innamorato Massimo Troisi.
Non si tratta di essere inutilmente severi con se stessi come quando si è inesperti e acerbi; è la serenità della vecchiaia che giudica “gli altri io” lasciati indietro. Non tutti possono.
“Cosa diresti a te stesso se potessi incontrarti all’età di vent’anni?” leggiamo spesso questi quesiti demenziali sui social. E per fortuna che non possiamo incontrarci perché quel che siamo stati appartiene alla ferrea giustizia dell’attimo irreversibile e non alla sua stupida rivisitazione grazie a una “time machine”. Rivisitare no, ma rinnegarsi sì, è bello: come un’evasione da se stessi, una fuga dall’Alcatraz dell’immagine storica che ci siamo costruiti o che gli altri ci hanno aiutati a costruire. Il rivisitare implica un improbabile poter tornare indietro per rifare e farlo meglio, diversamente (ma sarebbe giusto?); il rinnegare, invece, dinanzi alla dittatura del tempo che non si riavvolge, prevede solo “veli pietosi” per coprire parti di sé; ma quel che è fatto, è fatto.

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“Logiche autunnali”, su Pangea.news

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Il mio articolo “Logiche autunnali” (già pubblicato su “Nigricante”qui, e in seguito ripreso anche su questo blog, qui) è stato riproposto su Pangearivista avventuriera di cultura e idee, “una delle migliori rassegne culturali in Italia”, curata dal giornalista, poeta, scrittore e critico letterario Davide Brullo e che da sempre pubblica articoli interessanti e culturalmente stimolanti.

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Distanziamento culturale

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(La foto è stata scattata prima del Dpcm del 4 marzo 2020. Per la lettura del seguente post da parte di minori si consiglia la presenza di un adulto)

 

Come mantenere le distanze e togliere il giocattolo dell’io dalle mani del mondo.

Dimenticate per un attimo il distanziamento fisico, il metro per misurare la distanza tra i tavoli, le mascherine e i gel disinfettanti; dimenticate i dpcm e le regioni colorate, riappropriatevi di una tipologia di distanziamento che vi sarà utile anche dopo, quando la pandemia sarà finalmente sconfitta e torneremo a circolare liberamente, riapprezzando quello che forse davamo per scontato. Che cos’è il distanziamento culturale? È un mero vantarsi dei libri letti e del loro numero, mostrandone le copertine sui social? È una sorta di snobismo intellettualistico da sfoggiare in un paese in cui la cultura non è tra le priorità della propria classe politica? No, niente di tutto questo: il distanziamento culturale è qualcosa di più scivoloso, di invisibile pur nella concretezza delle scelte che determina, di impalpabile e quindi di non facile classificazione comportamentale. È un distanziamento che si scopre e si coltiva nel quotidiano, tra le sfumature di gesti consueti e le pieghe del solito: è un distanziarsi graduale ma costante, è un dissociarsi non seguito da clamori, è uno sgattaiolare che inizialmente incide solo nella vita di chi compie questa scelta ma pian piano finisce per influenzare anche quella dei vicini di esistenza, il proprio piccolo mondo. Chi si dissocia non pretende mai di avere un seguito, di fare proselitismo; anzi, la massima aspirazione è quella di restare soli insieme a una scelta che fa compagnia nel silenzio, che riscalda mentre fuori piovono fredde ovvietà. Il distanziato culturale aspira all’estinzione solitaria, alla preservazione dell’originalità delle proprie scelte: il dare l’esempio è solo un incidente di cui non si gloria.

Distanziamento culturale è scetticismo; è il non dare il fianco agli schematismi familiari, ai tranelli orditi dalle persone piccole, alle trappole degli associazionismi, ai poteri gerarchici dei volontariati, alle tirannie parrocchiali, agli affaristi della ricerca di senso, ai consiglieri improvvisati, alle presunte novità politiche alla vigilia di elezioni che entusiasmano le masse, alle ipocrisie relazionali, ai facili processi chimici della solidarietà di gruppo, ai doveri dettati da una cronologia biologico-comunitaria e non da un desiderio interiore coltivato in base a una tempistica personale; è riuscire a capire molto tempo prima, grazie anche a un’esperienza accumulata negli anni, quando e come evitare ambienti, personaggi e situazioni in grado di metterci in difficoltà nella difesa del nostro fianco e della nostra dignità che deriva dal rispetto delle scelte fatte. Fare prevenzione, anche se una mossa ingenua può sempre sfuggire: siamo umani e quindi suscettibili di facili distrazioni.

Distanziarsi anche se già immunizzati, perché in agguato potrebbero esserci sempre le “varianti” della stupidità umana, le infinite forme di invadenza adottate da chi non cerca un confronto costruttivo e arricchente ma solo la prevaricazione su un terreno non strutturato ma volgare, instabile, plasmato in base a esigenze primitive, istintuali, non verificate e di fatto non verificabili. Distanziamento culturale è non fornire determinate ghiotte occasioni di manifestazione dell’imbecillità a chi non aspetta altro nella propria vita che avere a disposizione tutto per sé un palcoscenico per potersi esibire; e i direttori di scena sareste voi, anzi, peggio ancora, sareste quelli che aprono e chiudono il sipario: la bassa manovalanza degli imbecilli. Distanziamento è disertare questo spettacolo ciclico, che si ripropone in ogni epoca e in ogni esistenza (come in una sorta di matrix creata per chi non si pone domande e non sa come difendersi); è diventare vuoto, silenzio, assenza pura che vera assenza non è mai. È diventare un’assenza che fa la differenza nel confronto silenzioso e distanziato: una finezza che non tutti i personaggi coglieranno; distanziamento sarà anche non perdere tempo nel tentativo di spiegarla a chi non sarebbe in grado di comprendere.

Il numero degli astensionisti non è pari a zero e fa rumore; distanziarsi culturalmente significa anche non entrare nel calcolo economico dei potenti solo in base al proprio potere d’acquisto. Se la finanza condiziona la politica (e i suoi servizi), gli “assenteisti del marketing”, nel loro piccolo, detteranno l’agenda della logica monetaria: chi non esiste in uno stato di diritto, chi non viene percepito come cittadino, non deve esistere neanche in qualità di consumatore e forse di elettore.

Distanziamento culturale è cancellare un testo dopo averlo scritto, autocensurandosi; è conquistare un certo pudore dopo aver letto i grandi: la lettura è l’anticoncezionale naturale dello scrittore; è tacere quando sarebbe soddisfacente rispondere a tono e in maniera brillante. È essere antidemocratici all’occorrenza e orgogliosamente politically incorrect, ignorando le “corrette” bordate al cinema da parte degli ipocriti e ignoranti politically correct e le incursioni astoriche degli abbattitori di statue. È criticare il mondo senza fare nomi, senza lasciarsi trascinare nelle dinamiche specifiche di battaglie personalizzate, di cause sposate per non annoiarsi. È sottrarsi allo scontro o al flame war, alla golosa occasione di far valere le proprie ragioni anche se gli argomenti per una difesa non mancano e sarebbe fin troppo giusto utilizzarli. È fare economia di sé stessi; risparmiarsi nell’alternanza purgatoriale tra le reazioni ambientali e le nostre scontate controreazioni che offendono prima di tutto la dignità. Evitare “assembramenti” d’opinione; sospendere il giudizio; allontanarsi dalle sentenze di piazza. Prendere le distanze addirittura da sé stessi, dai propri tic d’orgoglio, e da coloro che nel relazionarsi vorrebbero, per comodità, interagire col nostro caro, vecchio, inflazionato, usurato, secondo loro conosciuto, io.

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Happy birthday White Duke

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Muro di capricci politici e divisioni studiate
di famiglie separate nella notte, cemento di stato
padre a est, madre a ovest, speranza senza bussola
una mano tra il filo spinato saluta lontano
non lascia tracce sulla sabbia rastrellata,
muro di fredde guerre
da riscaldare al sole mortale dell’atomo.

Muro contro muro
abbattuti da fallimenti ideologici
e da colori ragazzi
mescolati dai fari assassini
di sentinelle devote,
da traballanti economie
e lunghe file per l’aria.

Un tricolore francese
su vecchie mura nemiche
e un leitmotiv marsigliese
segnano nuovi giorni
di dolore e sangue,
e nuovi mattoni
per moderne paure
a oriente del progresso.

Pensieri ribelli dipinti
e lasciati fiorire sul muro del potere,
da luogo bizzarro della storia
a meta turistica.
Un filo d’umana follia
unisce le diverse forme
dell’assurdo
tra un selfie e un currywurst.

(Berlino, 13 novembre 2015)

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Venerdì sera: karaoke

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Mille e più sono le risposte alla vita
corrotta dai momenti infranti
contro mura d’orecchie stanche
e dal rancore senza uscite,
non dettate dal ferro caldo
come spade roventi nella carne di madre
aspettano le giuste domande della quiete.

Calme acque di sera
riportano tra insoluti incubi
il canto rassegnato del dormiente
che non scende più tra la gente
per mancanza di fede.

In lontananza
si rimpiange tardi
il rumore sensuale della strada
animata di musica e voci di donne,
da vicino latita il coraggio
di viversi liberi e imperfetti.

Ai tempi del nostro colera
non pensavamo alla morte
e al destino già segnato,
ci tenevamo su
con bocconi di pane nel letto
donati a bocche in attesa di toccarsi
simili a uccelli avidi
dentro nidi nascosti al mondo.

– video correlato –

“Prima di cena”, Fabio Concato

Torneremo ancora? Purtroppo sì…!

Volevano farlo passare come il “brano dell’addio” (ma addio da cosa? da chi? dalle scene? dalla vita? ‘quale’ vita? dai “fan”? addio dagli asparagi che danno un certo odore all’urina? addio dai “clamori nel mondo moribondo”? Magari!) e in effetti lo è – un addio – anche se già aveva fatto “Testamento” ma eravamo troppo presi dal saltellare sotto il palco per accorgercene (e accettarlo); anche se il Maestro (odia sentirselo dire, ma tant’è!) Franco Battiato respira ancora e addirittura in alcuni video casalinghi si muove addirittura (con stratagemmi simili a quelli del film “Weekend con il morto”?) e sembrerebbe parlicchiare col vicino (forse sussurrandogli “Lei non ha finezza, non sa sopportare l’ebbrezza…”?). Cosa dica (o meglio ‘pensi’; ma pensa ancora?, qualcuno s’è chiesto. Ma cos’è il pensiero? È organizzarsi per la spesa e i tour da fare o assestarsi su differenti livelli di “presenza” per noi incomprensibili?. Non lo sapremo mai perché “questo” non fiata, non ci guida più, non ci dice come dobbiamo vivere! Non si fa così, Franco!) non ci è dato saperlo da un certo periodo oscuro a questa parte, nonostante i flash mob sotto casa sua per stanarlo tipo “Catch the fox” di Den Harrow.

No tranquilli, non starò qui a stonarvi ulteriormente blaterando di sciacallaggio commerciale, di infime amicizie striscianti, di calzature col rialzo, di angolazioni fotografiche per coprire l’indicibile, di silenzi telefonici (dopo i vergognosi – e inutili come la sua arte – silenzi televisivi di Celentano, vogliamo scandalizzarci per gli autorevolissimi silenzi di Battiato? Suvvia!) o di omissis familiari al limite del sequestro di persona.

Le groupies più accaldate volevano coinvolgere persino la Sciarelli di “Chi l’ha visto”, la quale si è vista costretta a replicare, dopo varie insistenze, dichiarando: “trattiamo solo casi di persone effettivamente scomparse e che non compaiono in video recenti in cui discutono con tecnici del suono o armeggiano con le bozze della copertina dell’album che sono stati ‘costretti’ a pubblicare!”.

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Vorrei solo rovinare un pochino l’atmosfera romantica e giustamente commovente che si è venuta a creare intorno all’inedito “Torneremo ancora”. Come chiese Maurizio Costanzo al mitico Califfo quando uscì l’album “Non escludo il ritorno”: <<… è una minaccia?>>. E sì perché quel “torneremo ancora” non ha – ahimè – il sapore di una speranza discografica o tournistica, di una promessa fatta agli estimatori, ai “fan” con i palloncini a forma di cuore che lo attendevano facendo le fusa a fine concerto, no. Quel “torneremo ancora” è la constatazione definitiva di una “prassi spirituale”, la dichiarazione finale (per chi non l’avesse ancora capito nonostante gli anni passati a seguirlo in ogni dove) intorno a una condanna: la nostra; è la descrizione della misera condizione umana, dell’anima dell’uomo – in quanto specie senziente – costretta a reincarnarsi di corpo in corpo, a saltellare da un corpo a un altro (se vi va bene) simile, oppure in un tubero concimato con la cacca o in una pietra su cui vanno a pisciare i cani! A trasmigrare chissà per quanto tempo “fino a completa guarigione”, canterebbe il Nostro, ovvero fino alla liberazione da una materialità che ci tiene legati a questa – diciamocelo! – stancante ciclicità.

Continua a leggere “Torneremo ancora? Purtroppo sì…!”

“Il professore e il pazzo”, passando per De André…

La parola non può essere imprigionata. Essa appartiene a tutti: all’uomo ordinario, socialmente inquadrato e all’individuo geniale, disadattato e maledetto. Possiamo ricercare in maniera certosina e scientifica le sue origini etimologiche e ripercorrere filologicamente la sua evoluzione storica nei secoli, possiamo setacciare le citazioni letterarie che la contengono come i cercatori cercavano pagliuzze d’oro setacciando la sabbia dei fiumi, ma ritorna ad essere parola viva nel presente, nel nostro quotidiano, solo quando interagisce con la materia pulsante dell’esistenza, con gli elementi concreti a cui è legata per un’antica convenzione, solo quando diventa linguaggio reale per redenzioni, rinascite sentimentali e impensabili perdoni…

È taumaturgica. La parola guarisce, lentamente, come medicina che penetra nell’anima: ogni fonema è una molecola di farmaco che entra nella cellula malata per ristrutturarla e ripensarla. Per renderla di nuovo disponibile all’amore e alla vita. I contenitori di questo farmaco miracoloso sono i libri, ma anche certi fogli inediti imbrattati di pensiero mandati in giro a trasmettere idee o a donare tasselli per un lavoro immane e apparentemente infinito. 

La parola rende liberi, sia gli uomini già liberi ma prigionieri di schemi accademici e di pregiudizi classisti, sia gli uomini realmente prigionieri delle sbarre invalicabili di un manicomio criminale e dei propri fantasmi. La parola non ha pregiudizi, è democratica, non si nega a nessuno: si lascia plasmare, ricombinare e rielaborare da ogni mente degna di compiere nuove acrobazie in nome della bellezza e della libertà interiore. Al punto che, alla fine della storia, diventa difficile capire fino in fondo chi è l’uomo incatenato e chi l’uomo libero di andarsene.

Solo la “pazzia”, termine il cui significato – almeno oggi, grazie alle battaglie di uomini visionari come Franco Basaglia e altri – ha fortunatamente margini labili ed elastici e non più così netti come in passato, può creare dei corto circuiti creativi che in soggetti normali vengono definiti “geniali”: si ripropone ancora una volta l’eterno confine tra genialità e follia. A definire tale confine ci pensano certi schemi mentali e i pregiudizi a essi collegati ed ereditati per convenienza sociale.

Il nozionismo, la preparazione accademica, l’ordine conoscitivo delle cose, l’approccio scientifico al sapere, l’anatomia del significante attraverso il tempo, rappresentano la base, l’humus necessario per dare vita a solide creazioni che sopravvivono agli anni; ma giustamente c’è chi ha paragonato l’atto poetico a una forma di autismo, e certi istinti non si conquistano attraverso titoli accademici. La “pazzia” fa perdere i freni inibitori della lingua (che non significa straparlare ma collegare significati in maniera trasversale), trasforma un’impresa impossibile per menti ordinarie in gioco salvifico, apre canali comunicativi altrimenti inesplorabili (tutto è incomprensibilmente più chiaro e interconnesso, si ha una visione limpida dell’insieme), rende possibile l’unione tra concetti apparentemente inconciliabili creando bellezza. Non tutti sanno riconoscere il bello creato in questo modo, non tutti accettano i processi creativi che si discostano dall’ordinario: si bada più alla forma non sconveniente che all’efficacia finale del contenuto. Meglio, quindi, tenere nascosta la componente folle di un successo, meglio non rendere pubblici un nome e un cognome che potrebbero mettere in imbarazzo l’istituzione e la sua élite. 

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