“Trovando un ferro di cavallo” di Osip Ėmil’evič Mandel’štam (1933)

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Trovando un ferro di cavallo

Guardando il bosco diciamo:
ecco il legno delle navi, degli alberi maestri,
pini rosati
liberi fino in cima dal ruvido fardello,
a loro di gemere nella burrasca
solitarie conifere
nell’imbestialita aria non boschiva:
sotto il salato tallone del vento resiste l’archipendolo fissato alla tolda danzante.

E il navigatore dei mari nella sua smisurata ansia di spazio
trascinando per umidi solchi il fragile strumento del geometra
confronta l’attrazione del grembo terrestre
con lo scabro livello delle acque

e respirando l’odore
di lacrime di resina dal fasciame della nave,
ammirando le tavole
inchiodate, composte in paratie
non dal buon falegname di Betlemme, ma dall’altro
– il padre dei viaggi, l’amico dell’andar per mari –
diciamo:
anche loro stavano sulla terra,
scomoda come la spina dorsale di un asino,
per le cime dimenticando le radici,
dritti sul famoso crinale,
e vociavano sotto l’insipido acquazzone,
proponendo invano al cielo di scambiare con una manciata di sale
il loro carico prezioso.

Da dove cominciare?
Tutto si incrina e oscilla.
l’aria trema di paragoni.
Nessuna parola vale più di un’altra,
la terra romba di metafore,
e bighe leggere
nei vistosi finimenti di uccelli in stormi densi per lo sforzo
finiscono in frantumi
a gara con gli sbuffanti beniamini degli ippodromi.

Tre volte benedetto chi porta un nome al suo canto:
adornata di un nome la canzone
vive più a lungo delle altre,
un nastro sulla fronte la fa eletta fra le compagne
salvandola dall’oblio, profumo troppo forte che stordisce
– foss’anche la prossimità del maschio
o il profumo della pelle di una bestia forte
o anche soltanto la fragranza della santoreggia sgualcita fra le mani.
L’aria sa essere scura come l’acqua, e ogni cosa vivente vi nuota dentro come un pesce
scuotendo con le pinne la sfera,
compatta, elastica, appena riscaldata,
cristallo dove girano ruote e scartano i cavalli,

Umida terra-nera della Neera ogni notte di nuovo disossata
da forche tridenti, zappe, aratri.
L’aria è coinvolta non meno densamente della terra,
non si può uscirne, si fa fatica a entrare.
Il fruscio zampe-verdi corre fra gli alberi:
i bambini giocano agli aliossi con vertebre di animali morti.
Il fragile calendario della nostra era si avvicina alla fine.
Grazie per ciò che è stato:
sono io che ho sbagliato, ho fatto male i conti, ho perso il filo
l’era tintinnava come una sfera d’oro, cava, fusa, nessuno la reggeva,
ogni volta a sfiorarla rispondeva “si” o “no”
come un bambino risponde:
“ti do la mela” o “non ti do la mela”
e il suo viso è il calco preciso della voce che pronuncia le parole.

C’è ancora il suono, ma la causa del suono non c’è più.
Il cavallo giace nella polvere e rantola schiumando,
ma il ripido stacco dell’incollatura
serba ancora il ricordo della corsa con le zampe da ogni parte protese
– quando non erano quattro
ma quante le pietre della strada,
moltiplicate ancora quattro volte
quante ritraeva dal suolo l’ambio lucido di calore.

Così
trovando un ferro di cavallo
si soffia via la polvere,
lo si strofina sulla lana finché brilla,
allora lo si appende sulla soglia
perché riposi
e non gli tocchi più strappare scintille dal selciato.

Labbra umane che più non hanno da dire
conservano la forma dell’ultima parola pronunciata
e la mano sente ancora il peso
anche se la brocca è traboccata a mezzo
nel cammino verso casa.
Quello che dico adesso non sono io a dirlo,
ma si strappa alla terra come grani di grano pietrificato.
Alcuni
sulle monete disegnano un leone,
altri
una testa:
pastiglie d’ogni sorta – di rame, oro, bronzo
stanno sepolte nella terra con gli stessi onori.
Il secolo, a furia di morderle, ci ha lasciato l’impronta dei suoi denti.
Il tempo mi lima come una moneta,
e ormai manco a me stesso.

(traduzione di Serena Vitale)

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George Orwell e la neolingua della politica, su Pangea.news

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Il mio articolo “La neolingua della politica di George Orwell” (già pubblicato su questo blog, qui) è stato riproposto su Pangearivista avventuriera di cultura e idee, “una delle migliori rassegne culturali in Italia”, curata dal giornalista, poeta, scrittore e critico letterario Davide Brullo e che da sempre pubblica articoli interessanti e culturalmente stimolanti.

Per leggere l’articolo: QUI!

“La neolingua della politica” di George Orwell

versione pdf: “La neolingua della politica” di George Orwell

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Dopo aver letto il pamphlet “La politica e la lingua inglese” di George Orwell, nella traduzione per Garzanti di Massimo Birattari e Bianca Bernardi, molti, troppi sarebbero i passaggi da voler citare (rischiando così, nell’enfasi citazionista, di disarticolare la tesi che anima lo scritto), e molte sono di fatto le domande e le riflessioni suscitate dalla lettura di questo breve saggio dell’autore di “1984”. Sintetizzando in maniera brutale: se il pensiero influenza il linguaggio, il linguaggio adottato da un popolo influenza il suo pensiero, e quindi la sua anima, le sue aspirazioni, le sue idee. Un’influenza “circolare” difficile da costruire – il limite temporale immaginato da Orwell per il completamento del “passaggio” era, e forse è ancora, il 2050! – e altrettanto difficile da scardinare, se non attraverso consistenti traumi storici e culturali. Da qui, per invertire il trend negativo, l’esigenza pratica di nutrire il linguaggio, e quindi il pensiero, con letture che arricchiscano il proprio “paniere idiomatico”. Senza dare la colpa alle “condizioni sociali presenti”.

Se nell’appendice a “1984”I principi della neolingua – compare tra i primi obiettivi il conseguimento di una semplificazione del lessico che rasenta l’umorismo (le parole inventate da Orwell per il “Dizionario di neolingua” sono ridicole e fanno ridere perché lontanissime dalle nostre consolidate abitudini linguistiche: sbuono, sessoreato, nutriprolet, sbuio… Integrare un’intera lingua in pochi termini) allo scopo di bloccare sul nascere lo sviluppo del pensiero per mancanza di “materia” con cui elaborarlo e ampliarlo, nel nostro tempo presente con il cosiddetto “politichese” (volendo restare nell’ambito politico-ideologico) si vuole raggiungere lo stesso obiettivo distopico ma con un linguaggio non più “asciugato” dalle direttive di un partito dittatoriale come nel romanzo di Orwell, bensì reso disarticolato da una vacua complessità: in questo caso il pensiero viene letteralmente “affogato” non già dalla mancanza di lessico ma dal suo disordinato eccesso. E Orwell riporta dalla sua epoca, con tanto di riferimenti, ben 5 autorevoli esempi di “cattiva lingua” utilizzata in pubblico e per il pubblico.

La prosa moderna si allontana dalla concretezza: ha eliminato i verbi semplici, abusa di cliché e di formule vuote per “stordire” l’interlocutore. Ma oggi, in paesi liberi come l’Italia, a chi conviene, lì dove sono assenti palesi dittature, mantenere e alimentare un linguaggio che allontana la popolazione dalla realtà delle cose? Oserei dire, anche se non riportato nel pamphlet di Orwell, che conviene alla finanza, alla macchina consumistica in cui siamo coinvolti. Non c’è un chiaro pericolo Socing – come nel romanzo “1984” -: la politica (persino quella dittatoriale, divenuta anacronistica e poco “comoda”) si è ormai da decenni consegnata mani e piedi ai meno evidenti e più proficui meccanismi della finanza mondiale che tutto condiziona e influenza. Perché affannarsi a ottenere il controllo di un popolo con la violenza o addirittura con l’invenzione di una neolingua che ne renda rachitico il pensiero, quando si può ottenere lo stesso risultato confondendo il linguaggio e “anestetizzando” quel popolo con discorsi vacui e insinceri? Perché imporre l’onnipresenza di un Grande Fratello quando siamo noi stessi che – pur conservando intatto il nostro vocabolario – ci consegniamo spontaneamente al controllo del “Grande Fratello Social“?

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2022: i sopravvissuti

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2022: i sopravvissuti 

Alla fine è arrivato anche il 2022, l’anno del “Soylent Green” (titolo originale di un film sci-fi del 1973), dei sopravvissuti in un mondo inquinato e sovrappopolato che mangiano a loro insaputa altri esseri umani morti, trasformati in nutrienti “gallette” e spacciate per un popolare cibo a base di plancton. Finora a noi  ̶  sopravvissuti nella realtà del XXI secolo  ̶  hanno proposto in maniera ufficiale, e senza imposizioni, cavallette, larve essiccate, formiche, grilli e vermi come “esotica alternativa gastronomica” alle proteine tradizionali; forse (forse…!) siamo ancora lontani dalle gallette prodotte con i cadaveri come nel film che in Italia prese il titolo “2022: i sopravvissuti”.

Ma non siamo lontani, purtroppo, da un assillante e per la maggior parte dei casi ingiustificato “non sappiamo cosa c’è dentro!”, tornato in voga con più forza durante questi mesi di campagna vaccinale anti-covid. Il “nonsocosac’èdentrismo” mai applicato in altre centinaia di occasioni in cui forse sarebbe stato lecito applicarlo, e frutto di un’assente cultura scientifica, viene sbandierato proprio ora che c’è più bisogno di utilizzare l’unica arma a disposizione in maniera compatta, senza creare buchi in una ormai utopistica “immunità di gregge”, nel tentativo di formare un muro  ̶  in questo caso utile  ̶  contro la pandemia. Se alla fine del film Charlton Heston grida al mondo: “Il Soylent è fatto con i morti!” (infelice traduzione dall’originale “Soylent Green is the people!”), nella nostra realtà se chiedessimo a uno dei contestatori del vaccino anti-covid quali e quanti ingredienti conosce o ricorda, state pur certi che non ne saprebbe citare neanche uno (nonostante la composizione sia nota perché l’AIFA ha diffuso gli allegati riguardanti il vaccino anti-covid in tempo reale con la sua distribuzione), ma difenderebbe a spada tratta l’ipotesi che c’è ben altro e che questo “ben altro” (aggiunto agli altri ingredienti che non ricorda) ce lo tengono nascosto per fare un dispetto mondiale al genere umano, per ragioni al momento oscure o troppo deboli per essere vere. Psicologie confuse e drammaticamente divertenti!

Il numero 2022, tuttavia, ci suona ora molto, troppo, pericolosamente familiare, soprattutto perché ci siamo entrati ufficialmente dentro con tutte le scarpe: non è più un anno lontano nel tempo, un anno fantascientifico, problema che appartiene agli uomini affamati del futuro, uno di quegli anni “sparati” a caso per creare un “effetto di lontananza temporale” nel lettore e citati in uno dei tanti romanzi di genere. Il futuro è qui, signore e signori! Il 2022 è oggi! Quegli uomini fantascientifici siamo noi, nessuno si senta escluso: parafrasando De Gregori. E la realtà sta superando, ormai da molti anni, una certa letteratura fantascientifica che sarebbe da rivalutare quando non proprio da riscrivere. La realtà, superando la fantasia, in alcuni casi ha reso “sempliciotte” le tesi avanzate nei racconti.

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Salò

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Vecchi e nuovi teutonici
vagano di notte tra antiche ville
fantasma, chiusi postriboli di false resistenze
inseguono riverberi di ferrei dispacci
onde radio dileguatesi nel tempo

cercano vestigia di sé stessi
e di sconfitte glorie
in mezzo ai lussuosi resti
della Repubblica di Salò.

“Il cuoco di Salò” – Francesco De Gregori

Tolkien Reading Day 2021

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… per le guerre di ogni epoca e tipo, e i combattenti d’ogni età…!

Lettera 45: a Michael Tolkien; Oxford, 9 giugno 1941; tratta da “La realtà in trasparenza – Lettere 1914-1973” di J.R.R. Tolkien (ed. Rusconi); a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien. Lettura di Michele Nigro per il #tolkienreadingday2021

(ph M.Nigro©2021)

“Diarismi…” su Suite Italiana

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Il mio “pezzo” Diarismi: da “1984” a “Seven” ripubblicato su “Suite Italiana”, interessante rivista letteraria su web curata da Ilaria Palomba, Giordano Tedoldi, Giusy Del Salvatore e Mattia Tarantino. Dall’Editoriale di Giordano Tedoldi: “… Suite italiana è dunque un piccolo spazio di libertà, anarcoide e sgangherato, disciplinato solo nel senso della qualità e con una curiosità “italiana” (o se preferite “rinascimentale”) per tutto ciò che è gioco artistico, spasso culturale, follia creativa e dunque improvvisazioni, scherzi, meste meditazioni, filosofie mai germanizzate (e dunque niente metafisica per impressionare i finti-colti…”.

Per leggerlo: QUI!

versione pdf: Diarismi da 1984 a Seven – Suite Italiana

La parola è immagine

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In parziale risposta al film “Words and Pictures”.

Tenterò, nel mio piccolo, di sbrogliare la questione cardine contenuta nel lungometraggio di Fred Schepisi affermando laconicamente che non c’è “guerra!” tra parole e immagini, che LA PAROLA È IMMAGINE: facendo svanire apparentemente il problema della parola il cui potere, soprattutto in passato, sarebbe stato superiore a quello dell’immagine, oggi imperante, o al contrario dell’immagine che avrebbe talmente saturato la nostra infosfera da rendere di fatto obsoleti l’importanza e quindi l’uso della parola, soprattutto quella letteraria, quella legata a una funzione più articolata, che va oltre la mera funzione utilitaristica. Apparentemente, perché in effetti il problema resta ed è irrisolto. Dicendo che la parola è immagine andiamo temporaneamente a demolire la classifica esistente tra i due mezzi di comunicazione. O almeno credo.

Dunque l’Ultima Cena di Leonardo da Vinci, opera creata in un’epoca in cui “la parola era ancora importante”, sarebbe un’immagine minore, non prepotente, sarebbe per l’epoca un mezzo inferiore di comunicazione? Niente affatto. Riformuliamo, allora, la questione: il problema attuale è la parcellizzazione dell’immagine, un po’ come sta accadendo con le cosiddette microplastiche. Anni fa scrissi un articolo riguardante le immagini dell’11 settembre a New York in cui ipotizzavo un pericolo per nulla fantasioso ma reale, ovvero che l’immagine inflazionata (e ritrasmessa in loop) degli aerei mentre si schiantano nelle Torri Gemelle, in maniera ipnotica, potesse disattivare il significato delle parole, dei fatti, delle argomentazioni. Può essere?

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C’ero anch’io a Hiroshima

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C’ero anch’io a Hiroshima
quella mattina d’agosto,
la speranza del quotidiano
evaporava tra le dita
insieme a corpi ingenui.
Orgogli imperiali
abbattuti a suon di atomi,
non resta che l’ombra
del tuo respiro amoroso
sulla pelle dell’anima.

(tratta da “Poesie minori. Pensieri minimi” vol.1, ed. nugae 2.0 – 2018)

(immagine: dal film Hiroshima mon amour)

– video correlato –

“Enola Gay”, Orchestral Manoeuvres in the Dark

Vite parallele

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Vite parallele

“Credo nella reincarnazione
in quel lungo percorso
che fa vivere vite in quantità
ma temo sempre l’oblio
la dimenticanza…
E già qui vivo vite parallele.”
da “Vite parallele” – Sgalambro/Battiato

 

Gli anni che precedettero il viaggio a Vienna furono duri.

Certe velleità artistiche possono spingere l’essere umano lontano, molto lontano. E la capitale austriaca rappresentava, agli occhi del giovane disegnatore, la “terra promessa” in cui poter realizzare il sogno da sempre coltivato: diventare un artista di successo.

Oltre alla cartellina contenente i disegni e l’astuccio con i lapis già consumati, il bagaglio del giovane consisteva in una semplice valigia ricolma di rabbia, frustrazione, intolleranza e tanta voglia di cambiare le cose. La miseria e la promiscuità del quartiere che l’ospitava non avrebbero certo migliorato il suo stato d’animo tetro e diffidente. 

Ma i sogni richiedono sacrificio e, tutto sommato, era finalmente giunto a Vienna dove, non importava se tra settimane o mesi, avrebbe avuto i primi contatti con il vero obiettivo del suo viaggio: l’Accademia di Belle Arti.

L’adolescenza costellata di insuccessi e il superbo isolamento in cui si adagiò, avevano sviluppato in lui la solipsistica certezza che il gusto per il bello non poteva e non doveva appartenere a tutti gli esseri umani: solo alcuni sparuti eletti, forgiati nel dolore e nella consapevolezza di dover ricercare una presunta purezza smarrita, potevano avvicinarsi alla comprensione di certe forme anatomiche ideali e all’apprezzamento di quei paesaggi naturali che richiamavano alla memoria la responsabilità e l’onore nell’essere teutonici.

I primi dischi di Wagner sul grammofono di casa e la commozione dinanzi all’impenetrabile barriera verde scuro della Foresta Nera; la dolce armonia delle vette innevate e la calma sorprendente dei laghi di montagna; la gelida agitazione del Mare del Nord e i ricordi infantili nella Selva bavarese; la bellezza della sua gente e l’orgoglio per la storia di un paese che nascondeva le sue nobili origini sotto una coltre di vergogna storica. 

Tutti questi aspetti trasparivano dai tratti nostalgici dei suoi disegni e le scene rappresentate in essi non testimoniavano la Germania del presente, ma sembravano piuttosto i promemoria di chi attende il ritorno di un’epoca arcaica mai vissuta e soltanto letta o sognata.

La bolgia umana che ritrovò a Vienna, rinforzava ancora di più le sue paure nei confronti di una minaccia che presto avrebbe assunto i connotati di un gruppo di responsabili da combattere con veemenza e ossessionante paranoia. E la ricerca di una “fonte pura” da cui attingere l’acqua sacra di un nuovo ordine divenne il subdolo imperativo del giovane artista.

Sicuramente l’arte e la ricerca insita nel processo artistico lo avrebbero aiutato in questa sua missione, ed era per questo che doveva assolutamente essere ammesso all’Accademia. Si trattava di un passaggio fondamentale che avrebbe dato un senso a quella sua vita precaria e raminga, trascorsa nei vicoli notturni del quartiere ebraico, tra birre solitarie e osservazioni sociologiche arrotate su una pietra scintillante d’odio.

O almeno l’ammissione avrebbe, in un certo qual modo, compensato le ingiustizie finora subite.

L’esistenza non è una strada rinchiusa tra due invalicabili muri di pietra: spesso il cammino dell’uomo è interrotto da sottopassaggi, sopraelevate, incroci custoditi, piccole stradine a fondo cieco e bivi. Non ne comprendiamo la funzione, non sappiamo come adoperare queste varianti, fino a quando non ci viene presentata la necessità di cambiare direzione, e quando ciò accade pensiamo ancora di percorrere il tragitto iniziale che noi crediamo di aver deciso di percorrere. Ma non è così.

La presunzione umana si sviluppa contemporaneamente all’inconsapevolezza che ne caratterizza le gesta. Anche l’uomo più determinato nella sua follia, e ideologicamente appassionato, è sottoposto a tale regola; anzi, la pressione evolutiva che accompagna le decisioni di tali uomini è maggiore che in altri, e ha un effetto coadiuvante su quegli storici cambiamenti di rotta che non conosceremo mai nel loro aspetto più intimo.

Perché tali personaggi pensano di essere loro stessi i demiurghi delle variazioni di percorso e non il caso o chissà che. Poveri illusi: vittime della stessa vana gloria di un granello di sabbia che vaga sospinto tra le onde dell’oceano, illudendosi di nuotare.

La mattina del primo colloquio con i docenti dell’Accademia possedeva tutte le caratteristiche dell’animo oscuro e minaccioso del disegnatore: dapprima un cielo plumbeo e in seguito una pioggia incessante, preannunciavano una serata fredda fatta apposta per rintanarsi in una fumosa birreria del centro.

Salendo lungo le scalinate dell’Accademia il pensiero dell’artista andava incessantemente a rivalutare le opere che avrebbe di lì a poco presentato alla commissione: “… andranno bene? … piaceranno?” – chiedeva in modo ossessivo una voce interiore che lo tormentava da anni, costringendolo a oscillare rovinosamente tra le onde vorticose della disistima di sé, sempre in agguato, e i porti sicuri dell’autoerotismo artistico. 

Aveva atteso quel momento per molti mesi e aveva sopportato in silenzio la vicinanza di tanti esseri inutili e abietti nella squallida pensione in cui alloggiava: non poteva tirarsi indietro proprio ora che era a due passi dalla verità. 

Una verità che avrebbe aperto le porte del suo futuro in quella città e non solo.

Era attratto dalle adunanze, dalle accese discussioni ideologiche e dalla vita politica, anche se disprezzava i politici e non poteva certo affermare di possedere degli “amici” in ambito sociale; con l’eccezione di qualche raro estimatore dei suoi disegni e delle sue idee in alcune famiglie abbienti dell’alta borghesia austriaca. Una sorta di condizione schizofrenica lo induceva a un’eterna transumanza tra l’amore viscerale per la propria terra e il rifiuto di ogni coinvolgimento sentimentale nei confronti della gente comune che incontrava tutti i giorni. Allo stesso modo, proprio in virtù di questa contraddizione interiore, sentiva crescere dentro di sé la necessità di dedicare la propria esistenza totalmente all’arte e in modo particolare al disegno, alla pittura.

Sapeva di sicuro che la vita politica appena in parte avrebbe potuto colmare i laceranti vuoti creati dai rancori e dalle sconfitte della sua esistenza, e che solo la rappresentazione artistica sarebbe stata in grado di ricreare nel suo cuore e nella sua mente gli scenari idealistici di un mondo ormai scomparso. La bruttezza, il disordine sociale e l’ingiustizia che incontrava per le strade di Vienna sarebbero state sostituite dal suo personale ideale di bellezza. Ideale a cui – così sperava – si sarebbero ispirate le generazioni successive a quella presente, sempre più stanca, disincantata e avvilita, ma bisognosa di ritrovare volontà, forza e orgoglio per combattere le nuove minacce e quelle antiche, radicate da secoli nel cuore dell’Europa.

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La vera banalità del bene

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Quand’è che la retorica commemorativa rischia di diventare più dannosa del crimine storico che si va a ricordare puntualmente ogni anno?

Strumenti mnemonici importanti ma ormai spuntati, affidati a vecchi testimoni sotto scorta, stanchi o decimati dal tempo, hanno assunto il ruolo stantio di vessilli politici usati a piacimento dai protagonisti istituzionali del momento, coinvolgendo in egual misura maggioranza e opposizione, nessuno escluso: lo stesso è accaduto con gli immigrati, gli appartenenti alle comunità lgbt, ecc. Tutti o quasi tutti vogliono saltare sul carro della commemorazione o di una qualche causa sociale senza però badare alle condizioni delle strade su cui quel carro si trova e si troverà a passare, senza risolvere i problemi che sfidano l’integrità (e la credibilità) delle sue ruote: buche economiche in cui i passanti inciampano, profonde spaccature sociali che mettono a dura prova gli ammortizzatori psicologici dell’individuo, asfalti legislativi scadenti, una dubbia segnaletica ideologica, tombini intasati dalla retorica, crepe culturali in cui può attecchire di tutto, dalle erbacce sovraniste fino a ben più preoccupanti e possenti arbusti razzistici le cui radici, come qualcuno scrisse riferendosi ad altro, “non gelano”. Ancora una volta, parafrasando un vecchio proverbio, quando la Storia indica la luna, la politica stolta guarda il dito; se oltre il dito guardasse anche la mano o addirittura il braccio a cui è collegata, già sarebbe un progresso: si condanna l’accaduto, ci si indigna, ci commuoviamo ascoltando le testimonianze o guardando un film da Oscar, ma non facciamo assolutamente niente per prevenire le cause che puntuali ritornano come in una sorta di ciclo storico quasi periodico. Pur essendo stato “breve”, e avendo quindi a nostra disposizione più strumenti per poterlo “riassumere”, ci stiamo perdendo per strada l’insegnamento del secolo scorso.

Ed è alla luce di questa premessa che il Bene predicato, insegnato, romanzato, predigerito da registi e sceneggiatori di fiction, testimoniato, istituzionalizzato, oserei dire “imposto” (ma mai veramente metabolizzato) dal pensiero unico, diventa inevitabilmente banale e controproducente; un leitmotiv scaduto che garantisce ampi spazi ad assurde manovre negazioniste, a riconsiderazioni nazionalistiche, a sovranismi di pancia in cerca di pieni poteri e a nuovi “cameratismi totalitaristici” in grado di captare e addensare i vari disagi sociali. Se la Storia crudele che si presenta in assenza di memoria (come accadde durante la Seconda Guerra Mondiale) è già di per sé condannabile, come dovremmo considerare oggi chi permette, dal punto di vista politico, il suo ripetersi in presenza di una equivalente dinamica socio-economica ormai nota persino allo studente delle scuole secondarie di primo grado (le “scuole medie” dei miei tempi!) alle prese con un programma di storia di livello medio-basso? Se la Repubblica di Weimar fu un laboratorio a cielo aperto da cui ancora oggi è possibile imparare molto, noi rappresentiamo gli studenti distratti che guardano fuori dalla finestra mentre il docente spiega per l’ennesima volta le cause riproducibili e i noti effetti dell’esperimento.

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Tracce di Sándor Márai a Salerno

Sándor Márai (foto dal web; FONTE)

Incuriosito da alcuni articoli letti in rete e riguardanti la permanenza salernitana – dal 1968 al 1980 – dello scrittore ungherese Sándor Márai, ho voluto anch’io mettermi sulle sue tracce. Con umiltà, senza alcuna “pretesa biografica”, con lo spirito del passeggiatore pomeridiano. Non ho dovuto faticare moltissimo per ritrovare i due punti (non bibliografici) più significativi del suo passaggio a Salerno: nelle fonti che ho consultato prima di mettermi in viaggio da Battipaglia verso il capoluogo di provincia (fonti suggeritemi tempo fa da una cara e fondamentale persona, già lettrice appassionata di Márai) è riportato tutto molto chiaramente.

Prima tappa: Lungomare Cristoforo Colombo (quartiere Mercatello). Già avevo letto dello scempio compiuto nel gennaio del 2009: il busto di Sándor Márai rubato (o meglio, “scardinato”) e mai più restituito, recuperato o sostituito, lascia un vuoto “metafisico”, più che materico, in chi osserva il ‘monumentino’ guardando in direzione del mare di Salerno che da sempre accoglie in un abbraccio liquido tragedie e speranze. Si può benissimo passare dinanzi al piedistallo anonimo che lo sosteneva, senza notarlo, e andare oltre distrattamente, per poi ritornare indietro ed esclamare in un pomeriggio nuvoloso, freddo ma non ancora piovoso di gennaio: “Ah, eccolo!”. Un pezzo di marmo abbandonato, senza più la ragione del suo essere stato fabbricato e collocato proprio lì, in un ormai lontano 2006. 

Voglio pensare che i vandali (senza offendere l’omonima gloriosa popolazione germanica che diede molto da fare all’Impero Romano), riutilizzando o rivendendo il metallo del busto di Márai, siano stati almeno più “intelligenti” e affaristi degli iconoclasti dinamitardi dell’ISIS: ma è un pensiero forzato che non mi consola a lungo. A completare il comprensibile scoramento del passante, si staglia sul bianco del marmo una icastica scritta a pennarello nero, deprimente e fin troppo chiaro segno dei tempi, riportata subito al di sotto del nome “Marai Sandor” inciso all’epoca dall’artista del monumento sul piedistallo sopravvissuto; la scritta, riprodotta sui quattro lati del parallelepipedo, come a non voler perdere di vista i quattro punti cardinali dell’ottusità mentale, dice: “W Salvini”

Alla fine l’autore de “Le braci”, “La donna giusta”, “La recita di Bolzano”…, e della raccolta salernitana “Terra! Terra!… Ricordi”, ha dovuto cedere il passo (almeno nella mente dei più ignoranti!) all’eloquio pseudo-religioso (e soprattutto pseudo-politico) di quello che il giornalista Andrea Scanzi ha definito nel titolo di una sua fortunata pubblicazione “Il cazzaro verde”. Nel già mutilato monumento a Marai, ora ridotto a “Pasquino per leghisti del Sud”, la lampante sintesi di un’epoca.

Nonostante tutto, il moncone continua a guardare verso il mare (lo stesso che, in un punto lontanissimo da qui, accoglie le ceneri dello scrittore): forse c’è speranza, anche se sarebbe stato meglio se a guardare verso il mare fossero stati gli occhi bronzei dell’autore ungherese. Il “monolite”, stavolta bianco a differenza di quello immortalato nel film “2001: Odissea nello spazio”, ci intima – senza emettere suoni assordanti – un cambio di rotta culturale. Forse un giorno tutti, ma proprio tutti, riscopriremo la fortuna di aver ospitato nella nostra città, anche se per un periodo relativamente breve, ma lunghissimo per l’economia temporale di un esiliato, uno scrittore che ha scelto di vivere una parte dei suoi anni in quelli che per noi sono i luoghi di una familiare quotidianità. Forse un giorno sapremo valorizzare lo sforzo di chi ha tentato di omaggiare il passaggio di un’esistenza discreta come fu quella di Sandor Marai a Salerno.

(ph M. Nigro – 20/01/2020)

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“Zelig” e i nuovi anni 20

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Assomigliare agli altri, ai “vincenti” con cui si entra in contatto, agli influencer cliccatissimi e straricchi, al trapper di turno che sbraita di ribellioni basate sul nulla, ai potenti che dominano la scena politica ed economica, alle star del cinema e della televisione, alle belle cantanti di MTV… Avvicinarli almeno, assorbirne il successo per illudersi di riprodurlo in parte nel quotidiano; assumerne le fattezze, gli stili, i gesti, il look, e quindi la gloria.

Adattarsi politicamente, a seconda che si tratti di un governo blu-grigio o blu-viola: essere un po’ grigi oggi e un po’ viola domani, lasciare che le sfumature tra i due colori del momento penetrino fin dentro l’altra parte, diluendo l’eventuale ideologia che sta alla base dell’azione politica. Tutto questo per continuare a piacere, a essere amati, a restare sul pezzo. Per sopravvivere senza problemi.

Mimetizzarsi sui social, cercare di essere un altro, migliore, di successo, brillante, accettato, condiviso, taggato, addirittura amato. Riuscire ad essere un fenomeno in una generazione di sedicenti fenomeni, aizzati dalla pubblicità, da un apparente successo sbandierato dal capitalismo e dal suo braccio consumistico attraverso la sofisticata arma della pubblicità: il vero individualismo è morto da tempo, vuoi per esigenze rivoluzionarie, vuoi per un lento adattamento alla facilità esistenziale prospettata dal consumismo; ha lasciato il posto a un’innumerevole quantità di tanti piccoli falsi individualismi, ignari gli uni dell’esistenza degli altri, simboli egoici di personalità inesistenti; tutti speciali, posti sullo stesso livello del podio, aventi tutti le stesse apparenti possibilità. Sono riusciti a separarci; ci siamo lasciati separare senza battere ciglio. C’è chi si adatta, caso mai inconsapevolmente, assomigliando agli altri, a quelli con cui entra in contatto senza però compiere un reale confronto e un’analisi oggettiva delle differenze; e c’è chi, una volta scoperto il trucco, tenta di distinguersi, ma nel farlo, a volte, finisce addirittura per essere più conformista di chi non pensa affatto di perseguire la via dell’anticonformismo. Paradossi possibili e per niente rari.

Il “camaleontismo” dello Zelig di Woody Allen è il risultato di un ‘tirare a campare’ consigliato in punto di morte dal padre del protagonista; è l’arma di difesa di un “uomo massa” che cerca di evitare le violenze e i dolori del confronto e dello scontro sociale: piacere agli altri per non soffrire e per avere vita facile. Il “piacismo” berlusconiano e il più recente “likesimo” facebookiano ne rappresentano le odierne appendici. Se negli anni ’20 del XX secolo l’uomo è sconcertato e impaurito dalla realtà che lo circonda ed è sempre più disorientato a causa della mancanza di valori caratterizzante l’epoca contemporanea, oggi – al netto di un equivalente sconcerto e di una condizione disvaloriale ancor più marcata – la “reazione camaleontica” è facilitata da una “liquidità comunicativa” che non esisteva in quegli anni ’20 utilizzati dal genio cinematografico di Woody Allen come sfondo per le vicissitudini psichiatriche di Leonard Zelig.

I “ruggenti” anni ’20, i mitici Roaring Twenties, compresi e compressi tra i disastri del passato e quelli ancora da venire: tra le macerie della prima guerra mondiale e la crisi economica del ’29 (la Grande depressione), tra le speranze sociali inoculate dalla Rivoluzione d’Ottobre del 1917 e le premesse geopolitiche che avrebbero dato il via a un secondo disastroso conflitto mondiale. Il tutto condito, a suon di jazz, da nuove mode, un nuovo taglio di capelli per le donne, nuovi balli scatenati, tanto alcol venduto clandestinamente negli speakeasy a causa del proibizionismo e un “fanatismo futurista” per le macchine e le nuove tecnologie che sembravano facilitare la vita a una parte di umanità di quel secolo appena nato. Tutta questa frenesia può disorientare e confondere gli animi sensibili, può schiacciare l’uomo medio che non ha molti mezzi per emergere e per sfruttare le novità dell’epoca.

Oggi, ormai assuefatti e vaccinati, più che un ruggito possiamo concederci tutt’al più un flebile miagolio nella notte del “abbiamo visto già tutto”. Non siamo in grado di assaporare nemmeno più il disorientamento causato dallo stupore del nuovo che avanza perché un vero nuovo non c’è. Scomparsa la frenesia, ci è rimasta la fredda emulazione dell’influencer via social: almeno l’insicuro Zelig per diventare qualcun’altro scendeva in strada, s’intrufolava in ambienti e realtà distanti dalla propria, toccava i suoi nuovi interlocutori, ne assorbiva per “osmosi” fattezze e gestualità.

Oggi viviamo una strisciante crisi economica e la povertà colpisce le classi deboli esattamente come nel ’29; la seconda guerra mondiale è lontana nel tempo ma in compenso ne stiamo vivendo una terza “a puntate”; i nazionalismi stanno riprendendo forza e l’odio per gli ebrei sembra vivere una seconda giovinezza come se la memoria storica fosse stata resettata da un’ondata negazionista di “in fin dei conti io all’epoca non c’ero!” Che differenza c’è tra gli anni ’20 dello scorso secolo e quelli del XXI secolo che ci apprestiamo a vivere? Dal punto di vista dei contenuti sembrerebbe nessuna.

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Da “La bistecca di Matrix”

I libri, il senso d’appartenenza e l’elogio della diversità

Breve saggio semi-filosofico e decostruttivista per scoprire nuove forme di salvezza e il carattere eversivo della propria esistenza.

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(tratto da “La bistecca di Matrix”, ed. nugae 2.0 – 2009)

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