“I 100 e più epigrammi” di Gaetano Ricco, per il 150° anniversario della morte di Alessandro Manzoni

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L’epigramma, per la sua vocazione alla brevità (non per la metrica), ricorda una sorta di haiku occidentale; per il resto non è certamente caratterizzato dall’impersonalità di quella particolare forma poetica orientale, anzi la sua sintetica efficacia tende a fissare i fatti personali, a sottolineare le vicende dei personaggi a cui è dedicato, a celebrare la persona e i passaggi cardinali della sua esistenza.

L’autore Gaetano Ricco, di Albanella (Sa) — professore, filosofo, storico, poeta, promotore culturale e territoriale… — con la raccolta “I 100 e più epigrammi” (edizioni Magna Graecia, 2023), sceglie un modo decisamente originale per celebrare i 150 anni della morte del grande Alessandro Manzoni (7/3/1785 – 22/5/1873); originale e volutamente in controtendenza: infatti alla lunghezza dei capitoli di cui — come ricordato anche nella prefazione di questa pubblicazione celebrativa — è composta l’opera principale del Manzoni, ovvero “I Promessi Sposi”, Ricco contrappone la brevità dell’epigramma che, come raccomandato all’inizio della raccolta dal poeta Cirillo dell’Antologia Palatina, “non deve superare i tre versi” (meglio ancora se un distico!), altrimenti si esonda nel poema e non si scrive più un epigramma.

Una sorta di “risarcimento post-scolastico” che forse risolve l’annosa diatriba tra insegnanti di lettere e studenti annoiati, tra conservatori e progressisti, tra difensori del romanzo storico e poeti ribelli, fautori di forme poetiche agili e fulminee. Un omaggio in vista della data fatidica del prossimo 22 maggio e “un viaggio attraverso i personaggi de I Promessi Sposi, ma parallelamente un modo per ripercorrere anche le tappe esistenziali, storiche e letterarie del celebre autore milanese: dalla nascita (“… in Milano nascevi e non furono le stelle ma / Dio ad illuminare il tuo cammino!…”) fino agli epitaffi (“… Trascorsi cento più cinquant’anni dalla sua morte / l’alma sua Madre Italia / Pose…”), passando per la “rappresentazione epigrammatica” dei personaggi che hanno animato la sua vita culturale, familiare (“… Ti divertirono i tuoi figli e tutti ad uno ad uno insieme / in fila, in filastrocca, ti piaceva di cantarli!”), patriottica (suggestivo, soprattutto alla luce degli esiti storici, l’epigramma per la poesia Marzo 1821: “E ti prese “piacer sì forte” che tutta l’Italia in sorte in / coorte la stringesti alla tua ode!”) e dei protagonisti del romanzo che lo ha reso famoso in tutto il mondo (uno tra i tanti, l’epigramma dedicato a Fra Cristoforo: “Guerrier col saio al secolo, peccator senza peccato, alzasti / l’indice e fu allo scellerato monito solenne il tuo / : “verrà un giorno”!”). Questa commistione tra personaggi reali e personaggi creati per fini narrativi, sottolinea ancora una volta l’importanza dell’influenza biografica di un autore nella sua opera, l’imprescindibilità del vissuto dall’invenzione romanzata.

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Rivista Cultura Oltre – ottobre 2022–numero 10

In questo numero, mie poesie inedite da pag.28 a pag.30… Grazie alla Redazione di “Cultura Oltre” e alla fondatrice Maria Rosaria Teni.

Cultura Oltre

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Presentiamo il numero di ottobre che, oltre a contenere le rubriche fisse, curate da Maria Rosaria Teni, fondatrice e responsabile della rivista, da Maria Antonietta Valzano, vice responsabile, da Cipriano Gentilino, Apostolos Apostolou e Maria Rosaria Perrone, collaboratori della rivista, offre proposte letterarie interessanti curate da scrittori e poeti che, quotidianamente, inviano i loro contributi alla redazione e la arricchiscono di contenuti di alto pregio. Non mancano le Poesie d’Autore, per celebrare la nostra monumentale tradizione letteraria.

10 RIVISTA CULTURA OLTRE OTTOBRE 2022 10 RIVISTA CULTURA OLTRE OTTOBRE 2022-qrNon mi resta dunque che augurarvi Buona lettura e ringraziare tutti i collaboratori e gli ospiti presenti in questo numero.
È scaricabile gratuitamente e si può leggere online al link sottostante:

Rivista Cultura Oltre –ottobre 2022 – 10° numero

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“Vite parallele”: puntata dedicata a “Pomeriggi perduti”

 

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Come preannunciavo tempo fa qui, è andata in onda su Radio Giano il 2 dicembre la 16ª puntata del programma “Vite Parallele”, dedicata alla raccolta “Pomeriggi perduti” e alla mia poetica in generale, realizzata in compagnia della simpatica e competente conduttrice Catia Simone e dell’amico istrionico Vincenzo Pietropinto.

Per ri-ascoltare la puntata in podcast: clicca QUI!

Buon ascolto!

“Ottobre è… poesia”: presentazione della raccolta “Pomeriggi perduti”…

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Una bella serata, una presentazione soddisfacente, un bel pubblico (nonostante le partite di calcio in tv) e dei “supporter” di prima scelta. Un grazie particolare va al Prof. Vincenzo Pietropinto per avermi affiancato e condotto nella presentazione della mia raccolta “Pomeriggi perduti” (uscita nel 2019 e andata subito a sbattere contro il muro del “lockdown” e delle successive restrizioni sociali), al vulcanico promotore culturale Gregorio Fiscina per tutto l’aiuto di questi mesi (e quindi alle testate giornalistiche, alle radio e alle tv da lui contattate che hanno diffuso la notizia dell’evento), al “padrone di casa” Franco Crispino, organizzatore da ben 15 anni della Rassegna Letteraria “Settembre Culturale al Castello” (quest’anno contrassegnata da una inedita “diramazione” poetica fino a un estivo mese di ottobre, intitolata proprio “Ottobre è… poesia”), che mi ha aperto le porte dell’Aula Consiliare “A. Di Filippo” del Comune di Agropoli

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“Spazio Lib(e)ro” a Eboli…

“Spazio Lib(e)ro”, rassegna letteraria in Eboli.

Sarò tra i lettori della presentazione del 30 ottobre…

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Tra gli ideatori e realizzatori dell’iniziativa, Vincenzo Pietropinto: nato a Eboli nel ’48 dove risiede. Laureato in Scienze Naturali e appassionato da sempre di cultura. Scrive poesie e racconti brevi e si occupa di teatro e canto. Ama la natura e la fotografia, coltiva molte passioni. Collabora con “Radio Francesco Web” (La voce della comunità di Santa Maria del Carmine e Oratorio di San Francesco in Eboli) conducendo il programma settimanale “I segreti dell’anima” dedicato a scrittori emergenti e artisti. Organizza il salotto culturale “Raffaele Pepe” in cui ospita vari personaggi, dalla letteratura alla scienza, fino alle attività sportive. Dal 2022 è coordinatore della rassegna “Spazio Lib(e)ro” in cui intervengono autori locali e regionali intervistati in varie location della città di Eboli. È in giuria e presidente di giuria in vari concorsi di poesia e narrativa.

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“Trovando un ferro di cavallo” di Osip Ėmil’evič Mandel’štam (1933)

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Trovando un ferro di cavallo

Guardando il bosco diciamo:
ecco il legno delle navi, degli alberi maestri,
pini rosati
liberi fino in cima dal ruvido fardello,
a loro di gemere nella burrasca
solitarie conifere
nell’imbestialita aria non boschiva:
sotto il salato tallone del vento resiste l’archipendolo fissato alla tolda danzante.

E il navigatore dei mari nella sua smisurata ansia di spazio
trascinando per umidi solchi il fragile strumento del geometra
confronta l’attrazione del grembo terrestre
con lo scabro livello delle acque

e respirando l’odore
di lacrime di resina dal fasciame della nave,
ammirando le tavole
inchiodate, composte in paratie
non dal buon falegname di Betlemme, ma dall’altro
– il padre dei viaggi, l’amico dell’andar per mari –
diciamo:
anche loro stavano sulla terra,
scomoda come la spina dorsale di un asino,
per le cime dimenticando le radici,
dritti sul famoso crinale,
e vociavano sotto l’insipido acquazzone,
proponendo invano al cielo di scambiare con una manciata di sale
il loro carico prezioso.

Da dove cominciare?
Tutto si incrina e oscilla.
l’aria trema di paragoni.
Nessuna parola vale più di un’altra,
la terra romba di metafore,
e bighe leggere
nei vistosi finimenti di uccelli in stormi densi per lo sforzo
finiscono in frantumi
a gara con gli sbuffanti beniamini degli ippodromi.

Tre volte benedetto chi porta un nome al suo canto:
adornata di un nome la canzone
vive più a lungo delle altre,
un nastro sulla fronte la fa eletta fra le compagne
salvandola dall’oblio, profumo troppo forte che stordisce
– foss’anche la prossimità del maschio
o il profumo della pelle di una bestia forte
o anche soltanto la fragranza della santoreggia sgualcita fra le mani.
L’aria sa essere scura come l’acqua, e ogni cosa vivente vi nuota dentro come un pesce
scuotendo con le pinne la sfera,
compatta, elastica, appena riscaldata,
cristallo dove girano ruote e scartano i cavalli,

Umida terra-nera della Neera ogni notte di nuovo disossata
da forche tridenti, zappe, aratri.
L’aria è coinvolta non meno densamente della terra,
non si può uscirne, si fa fatica a entrare.
Il fruscio zampe-verdi corre fra gli alberi:
i bambini giocano agli aliossi con vertebre di animali morti.
Il fragile calendario della nostra era si avvicina alla fine.
Grazie per ciò che è stato:
sono io che ho sbagliato, ho fatto male i conti, ho perso il filo
l’era tintinnava come una sfera d’oro, cava, fusa, nessuno la reggeva,
ogni volta a sfiorarla rispondeva “si” o “no”
come un bambino risponde:
“ti do la mela” o “non ti do la mela”
e il suo viso è il calco preciso della voce che pronuncia le parole.

C’è ancora il suono, ma la causa del suono non c’è più.
Il cavallo giace nella polvere e rantola schiumando,
ma il ripido stacco dell’incollatura
serba ancora il ricordo della corsa con le zampe da ogni parte protese
– quando non erano quattro
ma quante le pietre della strada,
moltiplicate ancora quattro volte
quante ritraeva dal suolo l’ambio lucido di calore.

Così
trovando un ferro di cavallo
si soffia via la polvere,
lo si strofina sulla lana finché brilla,
allora lo si appende sulla soglia
perché riposi
e non gli tocchi più strappare scintille dal selciato.

Labbra umane che più non hanno da dire
conservano la forma dell’ultima parola pronunciata
e la mano sente ancora il peso
anche se la brocca è traboccata a mezzo
nel cammino verso casa.
Quello che dico adesso non sono io a dirlo,
ma si strappa alla terra come grani di grano pietrificato.
Alcuni
sulle monete disegnano un leone,
altri
una testa:
pastiglie d’ogni sorta – di rame, oro, bronzo
stanno sepolte nella terra con gli stessi onori.
Il secolo, a furia di morderle, ci ha lasciato l’impronta dei suoi denti.
Il tempo mi lima come una moneta,
e ormai manco a me stesso.

(traduzione di Serena Vitale)

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“Pomeriggi perduti” su Il Mangiaparole

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L’interessante recensione di Francesca Innocenzi alla raccolta “Pomeriggi perduti”, già pubblicata su questo blog, è stata riproposta sul cartaceo della rivista “Il Mangiaparole”, trimestrale di poesia, critica e contemporaneistica diretto da Matteo Picconi e Marco Limiti (Edizioni Progetto Cultura), e giunto al suo quinto anno di pubblicazione.

“Pomeriggi perduti”, presentazione ad Agropoli…

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Il prossimo 29 ottobre, alle 17:30, presenterò la mia raccolta “Pomeriggi perduti” ad Agropoli (Aula Consiliare “A. Di Filippo”), nell’ambito della XV rassegna letteraria “Settembre culturale al castello” curata e coordinata dal consigliere del Comune di Agropoli e delegato alla cultura Francesco Crispino

“La Fortezza Bastiani…” su Pangea.news

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Il mio articolo La Fortezza Bastiani e la “filosofia” del confino (già pubblicato su questo blog, qui) è stato riproposto su Pangearivista avventuriera di cultura e idee, “una delle migliori rassegne culturali in Italia”, curata dal giornalista, poeta, scrittore e critico letterario Davide Brullo e che da sempre pubblica articoli interessanti e culturalmente stimolanti.

Per leggere l’articolo: QUI!

Scrivere è… scrivere

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La prima stesura la devi buttare giù, col cuore…

e poi la riscrivi, con la testa.

Il concetto chiave dello scrivere è… scrivere,

non è pensare.”

(William Forrester, dal film “Scoprendo Forrester)

Aveva ben presente  ̶  l’aveva già vissuto  ̶  quel momento romantico in cui si contempla per la prima volta il prodotto (finito?) dei propri lombi scritturali, con tenerezza, certo, ma non senza una giusta dose di severità e attenzione con cui correggere nel tempo le cose da raddrizzare, e che solo un buon padre riesce a vedere nei suoi preziosi eredi fatti di parole. Non aveva ancora trovato un editore disposto a pubblicarlo e già non gli importava nulla di ciò che avrebbero pensato o detto gli altri, i lettori, i “critici” (di quale critica?), gli stessi editori che avrebbe consultato senza ricevere risposta nella maggior parte dei casi, i probabili editor  ̶  entità appartenenti a una moderna mitologia, un ibrido sulfureo tra ragionieri d’azienda e cuochi in cerca di ricette adatte a tutti i palati del mainstream  ̶ , le sgallettate intellettualoidi che tra un bicchiere di vino e un rossetto sgargiante si spacciavano per recensitrici del New Yorker ma in realtà buone solo a tenere compagnia in lupanari o a fare video-letture con generose bocche a culo di gallina mostrando tette da usare come comodi leggii per libri inconsistenti e bisognosi di attrattiva; e poi i cacciatori di difetti a cottimo, i detrattori professionisti iscritti all’albo dei suprematisti alfabetizzati, i vecchi e falliti poeti di provincia ed ex archivisti di stato in cerca di gloria prima di morire, i presenzialisti incapaci di stare da soli e tutta quell’altra varia umanità che gravitava come un nugolo di mosche agitate intorno agli escrementi della cultura di massa. E i poeti pop in giro per l’Italia a vendere mediocrità e troppo impegnati a spiluccarsi l’ombelico pubblico per badare alle pubblicazioni di perfetti sconosciuti assetati di codici isbn.

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“L’infinito”, Giacomo Leopardi

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«Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.»

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“Avrai tempo per finirlo!” mi dicevi

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“Avrai tempo per finirlo!” mi dicevi
prima che l’ora di mezzo prendesse corsa
sui libri già letti in barba alla morte.
Ma ne erano sempre troppi, gli amati
facevano capolino dallo scaffale rotto
sotto il peso di presunte eternità

e la finta censura sugli acquisti
la gara per l’ultima pagina in ritardo
le occasioni perdute come titoli intonsi
le lancette inclementi, che di sera affilate
fanno più male delle frecce di San Sebastiano.
“Portarseli tutti dietro!” anche all’inferno
si godrebbe una vista migliore sui gironi,
e quelli pessimi per ravvivare i fuochi
all’ospite demonio.

La Fortezza Bastiani e la “filosofia” del confino

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Il confino è come la Fortezza Bastiani de Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati. Inizialmente spaventa, respinge, predispone l’animo a un rapido e risolutivo allontanamento per fare ritorno a quella – così definita dal senso comune – “vita civile” e colorata che solo la città saprebbe offrire. In un secondo fatale momento il confino comincia a legare a sé i suoi frequentatori, li affascina, insidia il loro passo cittadino con nostalgie semplici, con richiami mai espliciti o invadenti, facendo leva su elementi naturali, primordiali, che parlano alla parte ancestrale del visitatore. Ogni confinato ha la sua Fortezza Bastiani (luogo geografico indefinito) che droga la volontà lentamente, nel corso degli anni del bisogno più urgente, a piccole dosi, fino a renderlo dipendente; dolcemente, inesorabilmente, in alcuni momenti ossessivamente dipendente dalle sue forme, dai suoi colori e odori, dalle visioni notturne, dai suoni che non avverte in altri luoghi, un misto tra rumori casalinghi, familiari e musiche naturali ricche di silenzio, lì dove la natura ancora abbraccia le costruzioni umane, sul valico di un delicato compromesso. Il passaggio è graduale, avvertito dal profondo delle ossa; il trascorrere del tempo è lieve ma senza inganni, senza disillusioni; i gesti ordinari, impossibili da coltivare in altri contesti caotici, diventano azioni sacre, confortanti, geometriche, rituali, senza mai risultare insensate. L’ordine che regna al confino è di tipo monastico-militaresco ma è necessario per giungere a un’origine pura e cristallina del pensiero, per salvarlo dalla confusione annebbiante dei restanti giorni, quelli lontani vissuti in città. Anche per il confinato in tempo di pace, come per il Giovanni Drogo della Fortezza Bastiani di Buzzati, l’orizzonte è gravido di avvenimenti, di novità mai definite ma auspicate, che la pace campestre – così come il deserto – ignora perché già realizzate in se stessa; di guerre culturali nell’altrove, ma che vengono a prendere forza e a procurarsi armamenti interiori nella quiete bucolica di un paesaggio elementare, esempio particellare di più ampi, complessi e rumorosi schemi metropolitani. Il dubbio se il tempo speso al confino sia un tempo sprecato, e che fugga in quanto è un tempo dolce, appagante un ordine interiore, resta fino alla fine dei giorni; ma è un tormento addomesticato dalla benevolenza dei traguardi raggiunti dall’anima, da ciò che si riporta in città sotto forma di nuova energia. Ci si innamora del confino come della Fortezza Bastiani che tutto sorveglia e in teoria protegge nella semplice e rassicurante ripetizione di una regola non scritta, ma naturale, spontanea, primitiva, non riproducibile altrove. Quando si ritorna in città, niente è come prima della partenza perché il confino Bastiani ha già modificato il DNA del confinato, ha alterato nel profondo la classifica delle priorità, quelle “false”, che non sapevamo essere false prima di abbandonarci fiduciosi alle dolcezze dell’autoesilio. Perché è dai deserti – ma questo lo si apprende in seguito, dopo anni di esercitazioni – che arrivano le migliori speranze, le glorie attese, i finali che fanno storia (“Avete tutti la smania della città, e non capite che è proprio nei presidi lontani che si impara a fare i soldati”). Dalle città luminose e ricche di vetrine che mostrano occasioni sentimentali a buon prezzo, non giungono che saldi per l’anima, effimeri sconti esistenziali. All’inizio l’assuefazione culturale è potente e la città richiama all’ordine i suoi figli dispersi su confini anonimi, in cerca di verità trasversali che inizialmente essi stessi ignorano e perché estranei a una solitudine non ancora richiesta o cercata. Scrive Buzzati: “… una forza sconosciuta lavorava contro il suo ritorno in città, forse scaturiva dalla sua stessa anima, senza ch’egli se ne accorgesse.”

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