“… Alle scuole medie
disegnavo rifugi
antiatomici colorati e minuziosi
con tutto quel piombo
che dava speranza…”
(Tratta da “Pomeriggi perduti”, 2019)
“… Alle scuole medie
disegnavo rifugi
antiatomici colorati e minuziosi
con tutto quel piombo
che dava speranza…”
(Tratta da “Pomeriggi perduti”, 2019)
Al cinema, i film
raccontano la genesi
l’inizio di altri inizi,
la storia cita sé stessa
i libri parlano di libri
del modo in cui nacque l’idea
il principio di epopee di carta
un romanzo sul romanzo.
È un mondo rimestato
incartato sul dettaglio
vittima di un selfie planetario
celebra la stasi delle idee
si specchia il Narciso morente
in stagni d’acqua putrida, senza moto
senza più ossigeno ai viventi,
come un uroboro
inghiotte la sua coda, il finale
di un’epoca gloriosa.
♦
versione pdf: Scegliete il silenzio!
Scegliete il silenzio!
Libero remake del monologo di Mark Renton dal film “Trainspotting”
“Scegliete la discussione accesa con un novax sui social sprecando il vostro tempo nel tentativo di convincerlo, oppure scegliete di farvi convincere da un novax; scegliete concorsi letterari i cui vincitori sono già stati decisi a tavolino dalle case editrici, scegliete la Giornata Mondiale dell’Albero (o dell’Infanzia, tanto è lo stesso) mentre i governi continuano a disboscare nonostante le riunioni planetarie di facciata, scegliete di stupirvi per i tornado nel Mediterraneo e le puntuali “bombe d’acqua”, scegliete il bla bla bla e i venerdì sul clima per fare sega a scuola, scegliete di celebrare la Giornata Mondiale delle Giornate Mondiali, scegliete le notizie insulse e “attira like” di giornaletti on line per cerebrolesi, scegliete un decoder HD del cazzo per assecondare i capricci tecnologici dei grandi comunicatori, scegliete la moneta unica senza fiatare e le imposte di bollo sui vostri risparmi, scegliete l’alta definizione del nulla e la storia spiegata nei libri di Bruno Vespa, scegliete Sanremo, Domenica in, RaiPlay e Netflix, i programmi pomeridiani snobbati persino dalla casalinga di Voghera e quelli serali con cui sentirvi intelligenti, scegliete di scannarvi per il cashback, scegliete un tv comprato con l’elemosina del bonus statale e il cd natalizio di un duo cantautorale mummificato ma ancora in voga tra i romantici attempati, scegliete di sciropparvi mezz’ora di pubblicità prima di ogni film al cinema. Scegliete di andare in pensione a 97 anni, scegliete la palestra e i pannoloni di Stato. Scegliete le vacanze local per ridurre gli spostamenti e favorire l’economia di zona, e subito dopo scegliete di ordinare un posacenere dal Giappone. Scegliete una religione quando più vi fa comodo. Scegliete l’astensionismo, per poi lamentarvi dei politici. Scegliete di protestare contro presunte “dittature sanitarie” e tralasciate i restanti 9999 veri motivi per cui da anni dovremmo alzare barricate ogni giorno. Scegliete di prendere posizione su tutto, anche sulle questioni più irrilevanti offerte dal panorama pseudo-informativo imperante sul web; scegliete l’antiabortismo dei reality show, e scegliete la “pillola del giorno dopo” come se fosse una caramella Zigulì; scegliete di farvi mettere in punizione dall’algoritmo più stupido del social networking che non distingue una tetta da un budino, e scegliete di pregare che la sospensione finisca presto sennò vi sentite persi e disoccupati senza il vostro profilo. Scegliete il metaverso e gli alimenti bio per lavarvi la coscienza, scegliete la bolla social che vi rassicura e il green pass da mostrare agli amici – tatuandovelo sul braccio – come se fosse un Rolex. Scegliete i libri che vi suggerisce l’inserto culturale del vostro giornale, a sua volta foraggiato dalle case editrici più ricche. Scegliete il selfie con un personaggio famoso, assecondando la teoria dei 15 minuti di Warhol. Scegliete di credere che il prossimo sarà l’anno decisivo, quello buono per la svolta; scegliete l’“anche a te e famiglia” e i messaggi animati riciclati da inviare a persone di cui non vi frega un cazzo; scegliete le pubblicità natalizie che cominciano a settembre mentre la gente va ancora al mare; scegliete di socializzare a tutti i costi con i nuovi vicini di casa che vi ignorano, scegliete di usare la parola boomer per sentirvi giovani e competitivi, scegliete di trascinarvi dietro come cadaveri pseudo-amicizie dalle scuole elementari solo per abitudine. Scegliete di commuovervi ascoltando Bocelli (l’unico a cui i tanti soldi non hanno fatto tornare la vista!). Scegliete il capodanno in piazza e la diretta sulla Rai per fare il countdown da casa insieme a baldracche infreddolite e conduttori di plastica. Scegliete di credere alla finta umiltà della popstar e al suo amore per la “famigghia”. Scegliete le botteghe e le scuole di poesia, scegliete di far parte di antologie letterarie con altri duecento autori per sentirvi “scrittori” e l’editoria a pagamento che vi trascura subito dopo aver saldato il conto; scegliete l’associazionismo per sentirvi meno soli, scegliete le webinar per aggravare la vostra demofobia, scegliete di criticare la munnezza che c’è nelle altre città dimenticando il marcio esistente nella vostra “Danimarca”. Scegliete Le Figaro che sputtana la città in cui vivete e scegliete di dargli ragione perché siete sofisticati, autocritici, anti-italiani e non provinciali. Scegliete l’odio sui social (specialmente quello contro novax, nomask, nogreenpass, nosupergreenpass, notav, notap, noqualcosa…) e i gattini da condividere per addolcirvi, scegliete i talent show per staccare dalle notizie martellanti sul Covid e i programmi di approfondimento politico del cazzo, scegliete la radio per sentirvi più originali e antichi, e chiedetevi chi cacchio siete mentre acquistate i quotidiani la domenica mattina perché il vomito della tv non vi basta e volete tutto scritto nero su bianco. Scegliete di seguire il poeta che vende, perché se vende un motivo ci sarà, e le riunioni condominiali con gente che odiate da sempre, scegliete i reading per compensare la vostra sociopatia e i “gruppi mamme scuola” su Whatsapp da cui farvi escludere. Scegliete di scrivere un post come questo illudendovi di essere rivoluzionari.
Il mio articolo “Zelig e i nuovi anni 20” (già pubblicato su questo blog, qui) è stato riproposto su Pangea, rivista avventuriera di cultura e idee, “una delle migliori rassegne culturali in Italia”, curata dal giornalista, poeta, scrittore e critico letterario Davide Brullo e che da sempre pubblica articoli interessanti e culturalmente stimolanti.
Per leggere l’articolo: QUI!
♦
“POPOPOPOPOPOPO… POPOPOPOPOPOPOPOPO!”
(attenzione: post antiretorico altamente retorico!)
Quand’è che ci si accorge dell’avvenuta morte di una nazione? In base ai dati economici? Al numero di opere costruite o rifacendoci alle statistiche demografiche? Al tipo di burocrazia che la strangola? Sì, anche… Ma è soprattutto in base al grado di retorica caratterizzante alcuni dei suoi principali mezzi di comunicazione che ci accorgiamo dell’entrata di un paese in una fase di coma farmacologico precedente il definitivo trapasso. Se la televisione è uno dei tanti strumenti di registrazione di questo andamento, allora basterà accenderla e farsi un giro tra i “canali istituzionali” per verificare come la retorica, non quella nobile esercitata nell’antichità classica ma la sua odierna versione banale ad uso e consumo di un ridicolo messaggio di stato che aspirerebbe ad alimentare false speranze in una popolazione disincantata, abbia già da molti anni prevalso sulla comunicazione di una novità che in effetti non c’è, manca all’appello, perché una spinta all’evoluzione non esiste in questa nazione peninsulare baciata esclusivamente dal sole e dai soldi del Recovery Plan.
Pessimista? No, realista che analizza la tv generalista.
La retorica pertiniana mandata in onda in loop e corroborata da un’iconografia resistenziale propinata a un paese che non ha più i mezzi per resistere se questi non gli vengono forniti dall’esterno (non userò in questo post quella parola abusata che inizia con R e finisce con ‘ilienza’): Mattarella, realisticamente, si sta dimostrando – non me ne vogliamo i socialisti ancora in vita e quelli riciclati – un presidente molto più “importante” del buon vecchio partigiano con la pipa che ai mondiali sentenziò “Ormai non ci prendono più!”. In realtà, come c’insegna la storia dell’ultimo venti-trentennio, c’hanno preso (e ripreso) e come, sì, ci hanno doppiato più volte e c’hanno aspettato al varco per ricordarcelo. C’hanno preso, e armati di un bastone a forma di euro ce le hanno date di santa ragione a ritmo di spread, agenzie di rating e bacchettate di varia natura.
E che dire della retorica del triplo “Campioni del mondo!” di martelliniana memoria, con cui campiamo di rendita dall’82 (al netto delle successive vittorie meno storicamente romantiche e ancora troppo fresche per risultare nostalgiche), come se una nazione potesse ricevere il necessario carburante morale e organizzativo, la spinta propulsiva per evolvere in maniera costruttiva, solo dall’entusiasmo derivante da una finale vinta. L’Italia, anche per tradizione cattolica oltre che per un fatalismo genetico, è un paese che crede molto nei miracoli (definiti “all’italiana” per il loro carattere di unicità), e non parlo solo del culo dimostrato ai rigori! Ci vuole culo anche a passare su ponti che forse crolleranno mentre passano “gli altri”, basta che vada bene a noi! Per la giustizia terrena c’è tempo (molto tempo) e ci penserà la magistratura che con lentezza tutto risolve.
Art.1: “L’Italia è una repubblica fondata su Techetechetè!”; hanno preso la massima “non c’è futuro senza passato” e l’hanno cronicizzata, l’hanno instupidita, perché non hanno altro da offrirci, perché le idee sono finite (a monte) e non sanno cosa metterci nel piatto televisivo, che è il primo in cui andiamo a ficcare il naso quando abbiamo fame. La soubrette morta diventa occasione succulenta per un revival nazional-popolare a suon di Padre Pio, fila sotto il sole per omaggiare il feretro e vecchi filmati in cui comici toscani parlano di ‘pucchiacca’; la nostalgia guarisce tutto e un paese come l’Italia che già prima della pandemia si trovava nella terapia intensiva delle idee, ora è come la sposa cadavere di Tim Burton: sembra viva, le danno un belletto fatto di Next Generation EU, ma di tanto in tanto le casca fuori dall’orbita un occhio, una funivia, una strada, un ponte, una montagna che frana dopo un po’ di pioggia…
Dove sono le doloranti fila in posa
davanti ai feretri del gramo poeta
e dei filosofi noiosi le camere
ardenti di idee non morte
in libri ignorati da masse
bisognose di carezze kitsch
e paillettes tra piatti da lavare e sogni
infranti come lampadine sotto stivali,
– catodico è il facile consenso
già masticato da trucco e parrucco,
predigerito è questo nostro amore
che batte il tempo
alla canzone del momento –
dove il cordoglio fatto marea di fiori
per le non principesse sfortunate
e i non re di imperi a buon mercato.
Quando la veglia funebre
per l’impopolare signor ics
e lo stonato portinaio dei nostri averi,
– ore e ore sotto il sole ignorante
per un selfie col morto,
lo chiamano omaggio (ma a sé stessi!),
lo scrittore mondano va in tv
perché ha capito il congegno
e vuol essere amato come una soubrette –
nella chiesa dei non artisti
a quando l’affollata messa
per chi del proprio giorno ormai finito
ne ha fatto un’arte di sopravvivenza?
♦
versione pdf: Lamentazione per il Signor Ics
Se non ci fossero più i caldi metalli rotanti
e il nostro andare con passo incerto, senza un progetto
l’asfalto splenderebbe senz’ombre al tramonto
nell’abbraccio silenzioso di un sole morente
e l’universo che da sempre ignora
le piccole beghe tra gli uomini
cadrebbe felice ai piedi di un’assenza.
Sogno città non più dolenti
e le vuote dolcezze della fine,
un dio stupito godrebbe finalmente
delle fila di formiche indaffarate
indisturbate e regnanti
nel ritirarsi ordinato
della sera.
♦
“L’imbrunire” – Giovanni Lindo Ferretti
♦
Chi non vorrebbe vivere una vita come quella di Indiana Jones? Avventurosa, culturalmente interessante, sessualmente soddisfacente e al tempo stesso indipendente, geograficamente movimentata, appagante dal punto di vista professionale e universitario? Lo so, è un archeologo immaginario, un parto della mente di quel genio prolifico che risponde al nome di George Lucas (e della regia altrettanto geniale di Steven Spielberg), e come ho avuto modo di ribadire per quanto riguarda i supereroi, nel post dedicato a Joker, e alla loro improbabile esistenza nel mondo reale, la stessa cosa dirò riferendomi al nostro archeologo giramondo: è molto improbabile che tutte queste virtù – “immortalità”, capacità di sopravvivere a situazioni intricate, sapienza da bibliotecario mista a un atletismo che rasenta l’autodistruzione adolescenziale, fortuna con le donne, tempismo sfacciato, ecc. – si materializzino in un’unica persona. Eppure dietro l’ovvia irrealtà del personaggio si cela una certa “americanità” che invece è realissima e storicamente documentata. Il modo in cui Indiana Jones approccia alla risoluzione dei problemi che incontra nel corso delle sue avventure è tipicamente americano, anzi sarebbe più corretto dire “statunitense”. Indiana Jones parte dal presupposto che per uno statunitense il mondo sia come la tavola di un immenso gioco di ruolo privo di regole in cui muoversi senza chiedere il permesso a nessuno, senza tenere conto delle leggi locali… Tutto sembra facile e aperto nel mondo di Jones, nonostante le fatiche delle sue gesta. L’importante è raggiungere il proprio obiettivo, agguantare l’oggetto prezioso che ha innescato l’impegnativa quest, in nome di un bene comune internazionale. In questo gli statunitensi sono bravi: far passare per battaglia universalmente necessaria, un qualcosa che interessa solo l’America, la sua gloria o quella di un suo singolo cittadino, la sua ricchezza museale, come in questo caso.
Indiana Jones apre porte, si cala con delle funi in meandri, sfonda pareti, s’arrampica in proprietà private, ammazza e insegue (o si fa inseguire da) i cattivi usando – rubandoli – tutti i mezzi (terrestri, acquatici e aerei) che trova a portata di mano, profana catacombe e città sepolte, usa femori di scheletri per fabbricare torce, danneggia pavimenti a martellate, deturpa monumenti in paesi stranieri (Italia compresa: vedi Venezia), agguanta, rubacchia, scippa, incendia per sbaglio, depreda, così come fanno i suoi avversari, però a fin di bene, sgraffigna, rimuove, dissacra, gratta via, sfregia se necessario, causa crolli, altera l’equilibrio di luoghi delicati che erano rimasti in santa pace fino al suo arrivo…
Continua a leggere “Indiana Jones e l’”approccio americano” dalla geopolitica all’archeologia”
Commissari e carabinieri, commissarie e “carabiniere” (o carabinieresse? Chiederò alla Boldrini!), magistrati e magistrate, preti e suore… Mancano all’appello solo, da quel che so, le fiction sulla guardia di finanza, la protezione civile e le piccole sorelle dell’esercito di Gesù, e poi il quadro telenarrativo sull’argomento “eroi in divisa, toga e tonaca” potrebbe considerarsi quasi completo. Nella tv italiana c’è un gran pullulare di racconti televisivi dedicati a figure sociali familiari, a simboli istituzionali immarcescibili che in fin dei conti ci fanno stare bene e ci ricordano la nostra stessa vita: durante le processioni del santo patrono in prima fila ci sono il prete, il sindaco e i carabinieri; e poi viene il popolo. Lo stesso accade in tv.
Ma tutti questi personaggi televisivi oscillanti tra il “sacro” e il laico, hanno un’importante caratteristica che li accomuna: agiscono in un’Italia che non esiste. Loro stessi non esistono, sono quasi impersonali nel loro essere al di sopra del reale; rappresentano spesso l’Italia che vorremmo. Non è un fatto nuovo: anche i personaggi di Giovannino Guareschi agivano, se le davano e si agitavano in un’Italia abbastanza irreale e perfettamente divisa in due blocchi, quello cattolico e quello comunista; sappiamo però che la realtà era molto più complessa e variegata, tragica e poco romantica. I personaggi di questi encomiabili e a volte gradevoli prodotti televisivi nostrani appartengono a un’Italia ideale e idealizzata, o forse sarebbe più corretto dire stilizzata, asciutta, semplificata per ragioni non solo di sceneggiatura (anche se in alcuni casi sarebbe più corretto parlare di scemeggiatura, dal momento che certe stilizzazioni rasentano l’offesa intellettiva dello spettatore). C’è come un bisogno, da parte di registi e produttori, di assicurare al pubblico un prodotto predigerito, di trasporre in maniera teatrale – ma su scenari non teatrali bensì realistici – una narrazione nata già semplificata dalla penna degli autori: la semplificazione della semplificazione. È chiaro che il risultato finale non può che essere un prodotto lineare, pulito, pur nella complessità delle trame e delle indagini che quelle tentano di raccontare alla voracissima casalinga di Voghera che attende le sue fiction in prima serata come un premio di fine giornata.
Continua a leggere “Commissari, preti e carabinieri in tv… e quell’Italia che non esiste”
(La foto è stata scattata prima del Dpcm del 4 marzo 2020. Per la lettura del seguente post da parte di minori si consiglia la presenza di un adulto)
Come mantenere le distanze e togliere il giocattolo dell’io dalle mani del mondo.
Dimenticate per un attimo il distanziamento fisico, il metro per misurare la distanza tra i tavoli, le mascherine e i gel disinfettanti; dimenticate i dpcm e le regioni colorate, riappropriatevi di una tipologia di distanziamento che vi sarà utile anche dopo, quando la pandemia sarà finalmente sconfitta e torneremo a circolare liberamente, riapprezzando quello che forse davamo per scontato. Che cos’è il distanziamento culturale? È un mero vantarsi dei libri letti e del loro numero, mostrandone le copertine sui social? È una sorta di snobismo intellettualistico da sfoggiare in un paese in cui la cultura non è tra le priorità della propria classe politica? No, niente di tutto questo: il distanziamento culturale è qualcosa di più scivoloso, di invisibile pur nella concretezza delle scelte che determina, di impalpabile e quindi di non facile classificazione comportamentale. È un distanziamento che si scopre e si coltiva nel quotidiano, tra le sfumature di gesti consueti e le pieghe del solito: è un distanziarsi graduale ma costante, è un dissociarsi non seguito da clamori, è uno sgattaiolare che inizialmente incide solo nella vita di chi compie questa scelta ma pian piano finisce per influenzare anche quella dei vicini di esistenza, il proprio piccolo mondo. Chi si dissocia non pretende mai di avere un seguito, di fare proselitismo; anzi, la massima aspirazione è quella di restare soli insieme a una scelta che fa compagnia nel silenzio, che riscalda mentre fuori piovono fredde ovvietà. Il distanziato culturale aspira all’estinzione solitaria, alla preservazione dell’originalità delle proprie scelte: il dare l’esempio è solo un incidente di cui non si gloria.
Distanziamento culturale è scetticismo; è il non dare il fianco agli schematismi familiari, ai tranelli orditi dalle persone piccole, alle trappole degli associazionismi, ai poteri gerarchici dei volontariati, alle tirannie parrocchiali, agli affaristi della ricerca di senso, ai consiglieri improvvisati, alle presunte novità politiche alla vigilia di elezioni che entusiasmano le masse, alle ipocrisie relazionali, ai facili processi chimici della solidarietà di gruppo, ai doveri dettati da una cronologia biologico-comunitaria e non da un desiderio interiore coltivato in base a una tempistica personale; è riuscire a capire molto tempo prima, grazie anche a un’esperienza accumulata negli anni, quando e come evitare ambienti, personaggi e situazioni in grado di metterci in difficoltà nella difesa del nostro fianco e della nostra dignità che deriva dal rispetto delle scelte fatte. Fare prevenzione, anche se una mossa ingenua può sempre sfuggire: siamo umani e quindi suscettibili di facili distrazioni.
Distanziarsi anche se già immunizzati, perché in agguato potrebbero esserci sempre le “varianti” della stupidità umana, le infinite forme di invadenza adottate da chi non cerca un confronto costruttivo e arricchente ma solo la prevaricazione su un terreno non strutturato ma volgare, instabile, plasmato in base a esigenze primitive, istintuali, non verificate e di fatto non verificabili. Distanziamento culturale è non fornire determinate ghiotte occasioni di manifestazione dell’imbecillità a chi non aspetta altro nella propria vita che avere a disposizione tutto per sé un palcoscenico per potersi esibire; e i direttori di scena sareste voi, anzi, peggio ancora, sareste quelli che aprono e chiudono il sipario: la bassa manovalanza degli imbecilli. Distanziamento è disertare questo spettacolo ciclico, che si ripropone in ogni epoca e in ogni esistenza (come in una sorta di matrix creata per chi non si pone domande e non sa come difendersi); è diventare vuoto, silenzio, assenza pura che vera assenza non è mai. È diventare un’assenza che fa la differenza nel confronto silenzioso e distanziato: una finezza che non tutti i personaggi coglieranno; distanziamento sarà anche non perdere tempo nel tentativo di spiegarla a chi non sarebbe in grado di comprendere.
Il numero degli astensionisti non è pari a zero e fa rumore; distanziarsi culturalmente significa anche non entrare nel calcolo economico dei potenti solo in base al proprio potere d’acquisto. Se la finanza condiziona la politica (e i suoi servizi), gli “assenteisti del marketing”, nel loro piccolo, detteranno l’agenda della logica monetaria: chi non esiste in uno stato di diritto, chi non viene percepito come cittadino, non deve esistere neanche in qualità di consumatore e forse di elettore.
Distanziamento culturale è cancellare un testo dopo averlo scritto, autocensurandosi; è conquistare un certo pudore dopo aver letto i grandi: la lettura è l’anticoncezionale naturale dello scrittore; è tacere quando sarebbe soddisfacente rispondere a tono e in maniera brillante. È essere antidemocratici all’occorrenza e orgogliosamente politically incorrect, ignorando le “corrette” bordate al cinema da parte degli ipocriti e ignoranti politically correct e le incursioni astoriche degli abbattitori di statue. È criticare il mondo senza fare nomi, senza lasciarsi trascinare nelle dinamiche specifiche di battaglie personalizzate, di cause sposate per non annoiarsi. È sottrarsi allo scontro o al flame war, alla golosa occasione di far valere le proprie ragioni anche se gli argomenti per una difesa non mancano e sarebbe fin troppo giusto utilizzarli. È fare economia di sé stessi; risparmiarsi nell’alternanza purgatoriale tra le reazioni ambientali e le nostre scontate controreazioni che offendono prima di tutto la dignità. Evitare “assembramenti” d’opinione; sospendere il giudizio; allontanarsi dalle sentenze di piazza. Prendere le distanze addirittura da sé stessi, dai propri tic d’orgoglio, e da coloro che nel relazionarsi vorrebbero, per comodità, interagire col nostro caro, vecchio, inflazionato, usurato, secondo loro conosciuto, io.
Gentili messaggi sottocutanei
da elettrodomestici parlanti
informano la massa umana
su trame indesiderate.
Portatori sani di metadati
ricompongono sorridenti e ignoranti
l’impercettibile puzzle del sistema.
Anche il frammento è potente.
La molecola linguistica
agisce sull’azione di un uomo
nato schiavo.
Spegnere tutto sarà inutile.
♦
(tratta dalla raccolta “Nessuno nasce pulito” – ed. nugae 2.0, 2016)
L'uomo abita l'ombra delle parole, la giostra dell'ombra delle parole. Un "animale metafisico" lo ha definito Albert Caraco: un ente che dà luce al mondo attraverso le parole. Tra la parola e la luce cade l'ombra che le permette di splendere. Il Logos, infatti, è la struttura fondamentale, la lente di ingrandimento con la quale l'uomo legge l'universo.
Rivista culturale on line
occhi aperti
Una libreria per immagini
"Mi lasciai dove avrei avuto tempo per pensare e attesi il fiato grosso del maestrale"
Quando scrivo dimentico che esisto, ma ricordo chi sono.
International Poetry Journal
Rivista Del Possibile
Poesia, scrittura, musica e arte digitale di Sonia Caporossi
"La pittura è una poesia muta, e la poesia è una pittura cieca"
Poesie, racconti, verità, fantasie, ma soprattutto l'amore.
"Voi, seduti nei comodi uffici abbuffati di tasse e di grasse imposte, diventerete un giorno cibo per i vermi e nessuno s'accorgerà della vostra mancanza. Scarti dell'Universo" cit. I.T.Kostka "Trittico sul cibo" (Quadernetti poetici 2017)
la bellezza non è che una promessa di felicità
Scusateci per il disagio, stiamo sognando per voi
Poesie, disegni, fotografie, racconti, pensieri ed altre amenità di Carlo Becattini. Tutti i diritti sono riservati.
Solo pensieri scomodi. Accomodatevi.
scrittore in Milano, Mondo
analyst and writer
E la luna - in un cielo di poco più scuro - lo guardava dall’alto. Come dimenticare? Egli disse. Altro non esiste che un passo di polvere nella fame del vento. E dopo gridò come un falco e negli occhi l’alveo delle nuvole dove scorre tutto il tempo e nelle mani la sua natura umana, immoderata.
Scrittura e altro