“La generazione Baga – Riflessioni sull’ultimo mezzo secolo del Salone Margherita” di Antonio Vacca

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Per “Dialoghi da bar”, Michele Nigro e Francesco Innella presentano – in compagnia dell’Autore – il libro di Antonio Vacca intitolato “La generazione Baga – Riflessioni sull’ultimo mezzo secolo del Salone Margherita” (Print Art ed. – 2020 – 90 pag.) con prefazione di Gigi Miseferi.

La Generazione Baga è un viaggio “partecipe” attraverso gli Spettacoli della Compagnìa “Il Bagaglino” e, inevitabilmente, fra le pieghe del Salone Margherita romano da circa cinquant’anni a questa parte. Sviluppato con l’empatia dello spettatore affezionato, non ha velleità di retrospezione esaustiva e racconta modi, tempi ed artisti di quel meraviglioso fenomeno teatrale con precipuo intento di arginare la spèndita d’un evo spettacolare che dalle vicende più recenti rischia un parziale sbiadimento nella memoria sociale.

Antonio Vacca, 65 anni, medico nutrizionista in pensione, giornalista pubblicista e già collaboratore di tv locali e nazionali, scrive saggi brevi dal 1985, dedicati al cibo, soprattutto in rapporto ai media; si è occupato a lungo di Dieta Mediterranea. Dalla sua passione per il teatro nasce il libro “La generazione Baga”, uscito nel 2020 e di grande attualità ora che molti riparlano di “Bagaglino”.

Recensioni ad “altre cose”…

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Recensioni ad “altre cose” scritte da Michele Nigro: sillogi inedite, racconti, saggi…

Nota di Franco Innella a “Poesie sospese, silloge seconda”

Nota di Franco Innella a “Poesie sospese”

Alcuni inediti su “Cultura Oltre” (a cura di Maria Rosaria Teni)

“La neolingua della politica” di George Orwell

versione pdf: “La neolingua della politica” di George Orwell

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Dopo aver letto il pamphlet “La politica e la lingua inglese” di George Orwell, nella traduzione per Garzanti di Massimo Birattari e Bianca Bernardi, molti, troppi sarebbero i passaggi da voler citare (rischiando così, nell’enfasi citazionista, di disarticolare la tesi che anima lo scritto), e molte sono di fatto le domande e le riflessioni suscitate dalla lettura di questo breve saggio dell’autore di “1984”. Sintetizzando in maniera brutale: se il pensiero influenza il linguaggio, il linguaggio adottato da un popolo influenza il suo pensiero, e quindi la sua anima, le sue aspirazioni, le sue idee. Un’influenza “circolare” difficile da costruire – il limite temporale immaginato da Orwell per il completamento del “passaggio” era, e forse è ancora, il 2050! – e altrettanto difficile da scardinare, se non attraverso consistenti traumi storici e culturali. Da qui, per invertire il trend negativo, l’esigenza pratica di nutrire il linguaggio, e quindi il pensiero, con letture che arricchiscano il proprio “paniere idiomatico”. Senza dare la colpa alle “condizioni sociali presenti”.

Se nell’appendice a “1984”I principi della neolingua – compare tra i primi obiettivi il conseguimento di una semplificazione del lessico che rasenta l’umorismo (le parole inventate da Orwell per il “Dizionario di neolingua” sono ridicole e fanno ridere perché lontanissime dalle nostre consolidate abitudini linguistiche: sbuono, sessoreato, nutriprolet, sbuio… Integrare un’intera lingua in pochi termini) allo scopo di bloccare sul nascere lo sviluppo del pensiero per mancanza di “materia” con cui elaborarlo e ampliarlo, nel nostro tempo presente con il cosiddetto “politichese” (volendo restare nell’ambito politico-ideologico) si vuole raggiungere lo stesso obiettivo distopico ma con un linguaggio non più “asciugato” dalle direttive di un partito dittatoriale come nel romanzo di Orwell, bensì reso disarticolato da una vacua complessità: in questo caso il pensiero viene letteralmente “affogato” non già dalla mancanza di lessico ma dal suo disordinato eccesso. E Orwell riporta dalla sua epoca, con tanto di riferimenti, ben 5 autorevoli esempi di “cattiva lingua” utilizzata in pubblico e per il pubblico.

La prosa moderna si allontana dalla concretezza: ha eliminato i verbi semplici, abusa di cliché e di formule vuote per “stordire” l’interlocutore. Ma oggi, in paesi liberi come l’Italia, a chi conviene, lì dove sono assenti palesi dittature, mantenere e alimentare un linguaggio che allontana la popolazione dalla realtà delle cose? Oserei dire, anche se non riportato nel pamphlet di Orwell, che conviene alla finanza, alla macchina consumistica in cui siamo coinvolti. Non c’è un chiaro pericolo Socing – come nel romanzo “1984” -: la politica (persino quella dittatoriale, divenuta anacronistica e poco “comoda”) si è ormai da decenni consegnata mani e piedi ai meno evidenti e più proficui meccanismi della finanza mondiale che tutto condiziona e influenza. Perché affannarsi a ottenere il controllo di un popolo con la violenza o addirittura con l’invenzione di una neolingua che ne renda rachitico il pensiero, quando si può ottenere lo stesso risultato confondendo il linguaggio e “anestetizzando” quel popolo con discorsi vacui e insinceri? Perché imporre l’onnipresenza di un Grande Fratello quando siamo noi stessi che – pur conservando intatto il nostro vocabolario – ci consegniamo spontaneamente al controllo del “Grande Fratello Social“?

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La presenza nell’assenza: un anno senza Franco Battiato

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La presenza nell’assenza: un anno senza Franco Battiato

“… Percorreremo assieme le vie che portano all’essenza…”

Ho sempre avuto un approccio da “archivista” nei confronti della morte: di quella di un parente, di un amico… Superato un comprensibile momento iniziale di smarrimento per la dipartita, senza perdermi d’animo, anzi con ancor più lena, ho sempre dato spazio a una conseguente opera di “raccolta e archiviazione” di tutti quegli elementi esistenziali che hanno caratterizzato un vissuto comune, un cammino condiviso: stampare il dialogo di una chat, elencare date cruciali, raggruppare foto, raccogliere materiale… per me rappresentano gesti naturali del post-mortem. Come a voler congelare non il momento della morte in sé, quanto piuttosto il percorso concreto, tangibile, che l’ha preceduto; un appiglio materialistico sull’abisso, un modo per dire a se stessi che nulla, neanche una briciola, andrà perduta di quel che è stato fatto insieme; per non darla vinta alla morte che livella – lei sì, archivista definitiva e inesorabile! -, che chiude a ogni possibilità di proseguimento di un discorso tra viventi che emettono suoni. Allora ci si affida alla stampa dei reperti per averli sottomano nei giorni successivi alla tumulazione, alla tecnologia che conserva negli hard disk pezzi di testimonianze anche frivole di ciò che è stato, alle registrazioni per quando verrà a mancare il ricordo della voce, alle immagini catturate da un vivere quotidiano senza cronaca, almeno per noi “comuni mortali” non famosi. Tutto viene sigillato in scatole, poi seppellite in armadi, in attesa di quei giorni in cui c’è più bisogno di ravvivare memorie, di ricordare fatti ricoperti dalla polvere ma non dimenticati, spostati dalla visuale ma non cancellati. Qualcuno dice che esagero a conservare tutto, che dovrei lasciar andare, che dovrei fare space clearing: ma non c’è ossessione nel mio conservare, c’è solo previdenza, cura museale per vite poco importanti agli occhi della Storia. Si conserva il passato perché il nostro cervello, giustamente, per fare spazio alle urgenze del presente, lascia andare fisiologicamente molti dati considerati “inutili” alla quotidianità.

Quando, però, ad “abbandonare il pianeta” è una persona altrettanto cara e preziosa come Franco Battiato, che non ha bisogno di “archiviazioni” d’urgenza, come nel caso del parente o dell’amico sconosciuti alle cronache, in quanto la sua stessa esistenza artistica è stata produttrice naturale di tracce non solo sonore, si finisce con l’interrogarsi sul reale significato della “presenza nell’assenza” di un personaggio pubblico di tale calibro, che ha avuto e ha un impatto umano, spirituale e artistico, diverso rispetto a quello di altri nomi altrettanto autorevoli del cosiddetto “mondo dello spettacolo”. Nomi di personaggi estinti, cari a un popolo in fila sotto il sole per salutare il feretro, osannati e pianti, certo, ma la cui essenza va ad affievolirsi, oserei dire naturalmente, nel corso del tempo: questi passanti, a maggior ragione, sono bisognosi di archivi e teche Rai da rispolverare.

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Battiato, invece, si fa ricordare con una forza crescente proprio nel silenzio e nella distanza; più si lascia sedimentare l’evento umano della sua morte, più la sua essenza risale attraverso i mesi e le distrazioni come un “rigurgito spirituale”. Battiato non apprezzava gli archivisti; raccomandava sempre di non raccogliere ossessivamente tutto su di lui: interviste, foto, video, bootleg, “rubriche aperte sui peli” di Battiato e “reliquie” varie… Ci preparava, già allora, alla ricerca dell’essenza, al non attaccamento alle cose e ai corpi cantanti. Anche l’Egitto, con le sue piramidi e le sue meraviglie, prima o poi verrà ricoperto nuovamente dalle sabbie, e i musei perderanno i propri reperti custoditi gelosamente: la materia è destinata a dissolversi, come le onde in uno stagno o quelle sonore di una canzone. Ma l’essenza no, quella permane anche senza l’ausilio degli oggetti archiviati: come nel film “Padre” di Giada Colagrande, la presenza dell’estinto (interpretato proprio da Battiato) si fa ancor più viva e significativa – per comodità cinematografiche si identifica questa presenza attraverso la figura ormai folcloristica del classico fantasma – all’indomani della sua dipartita: ed è un esserci discreto, non spaventevole, silenzioso (silenzio a cui Battiato, per questioni private non da tutti rispettate, ci aveva già consegnati molto tempo prima di attraversare “la porta dello spavento supremo”). “Un giorno senza tramonto / le voci si faranno presenze”: è la scoperta dell’essenza nell’assenza, anche dell’assenza in vitam. Una scoperta che può essere fatta solo se si ha il coraggio, a un certo punto, di abbassare l’audio dei vari tour commemorativi, degli affollati e umanamente comprensibili concerti-evento per onorare il grande artista, e di affidarsi seppur dolorosamente alle sole registrazioni discografiche di una voce destinata a non ritornare, mai più, per come eravamo abituati a percepirla, ovvero attraverso i limitati sensi umani: la voce del padrone di un corpo disfatto, che non rivedremo mai più muoversi, cantare, scherzare, suonare, danzare su un palco come negli anni gloriosi e spensierati dei live in giro per il mondo e dei nostri viaggi in vista di concerti estivi, tra piazze e cavee. “Spensierati” fino a un certo punto: la musica di Battiato solo in superficie lasciava spazio a un goliardico citazionismo all’apparenza slegato e al cazzeggio cuccurucucheggiante dei fine concerto sotto i palchi; in realtà i testi e la musica di Battiato, come ben sa chi l’ha musicalmente frequentato, scavavano in profondità, mutavano inesorabilmente l’animo dell’ascoltatore, si prendevano il loro tempo, disseppellivano angolazioni interiori non catalogabili, di quelle che ci invitavano e ancora c’invitano al viaggio in paesi che tanto ci somigliano: territori spirituali ma anche geografici; a volte prima geografici e poi spirituali.

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Viaggiare con Battiato nelle cuffie, colonna sonora di traversate solitarie in territori non per forza mistici, a volte popolari, turistici, affollati come i mercati arabi in paesi stranieri o il “suk palermitano” di Ballarò, perché Battiato rappresentava e rappresenta l’esperimento riuscitissimo di una ricerca superiore fatta con mezzi appartenenti alla cosiddetta “musica di comunicazione”, non per forza di consumo (pur essendo stata anche di consumo), e che diede vita a un inedito, colto e ossimorico “pop elitario”. Così come fanno certi vaccini di ultima generazione, veicolava “frammenti genetici” di insegnamenti sconosciuti e antichissimi attraverso l’involucro “innocuo” del mezzo sonoro: l’obiettivo non dichiarato era quello di creare un’immunità (mai “di gregge” perché Le aquile non volano a stormi, ma amano e difendono la propria individualità) agli “urlettini dei cantanti”, al facile consenso dato ai tormentoni estivi dalla vita effimera, a un cantautorato nostrano incapace di offrire strade culturali alternative o esotiche, quando non addirittura esoteriche. Ha portato, musicalmente parlando, l’Alto alla portata di quasi tutti, senza mai scendere a compromessi con il Basso, con gli istinti un po’ bestiali e i desideri mitici dei suoi stessi fan che sistematicamente – per nostra fortuna – ignorava, con i “livelli inferiori” della condizione umana che aspirano a una facile fruibilità del mezzo. Ha seguito e rispettato i propri interessi culturali e non quelli suggeriti dal mercato, pur avendo venduto milioni di copie. E soprattutto ci ha fatto comprendere che tentare di modificare i massimi sistemi – primi fra tutti quelli politici! – è inutile oltre che pretestuoso, e che è ben più arduo ma spiritualmente soddisfacente (Battiato sarà sempre il nostro “Assessore alle Meccaniche Celesti”!) impegnarsi a cambiare il proprio microcosmo interiore, a rendere migliore ciò che abbiamo a portata di mano in noi stessi. Engagez-vous!

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“Il fantasma dentro la macchina” di A. Koestler diventa audiolibro

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Grazie al lavoro meritorio di Rossana Marino, il saggio di Arthur Koestler “Il fantasma dentro la macchina” è diventato un comodo audiolibro gratuito e consultabile dal pubblico interessato: sul canale YouTube che ospita le letture, ogni capitolo del libro corrisponde a una “puntata” dell’audiolettura. Di seguito si propone il primo capitolo: i successivi, di diversa durata, sono elencati nel canale e facilmente riproducibili.

Nel ringraziare Rossana Marino per questa iniziativa che le fa onore, vi auguro buon ascolto… in attesa di una ri-edizione italiana di questo importantissimo scritto (attualmente ancora fuori catalogo e quindi non disponibile sul mercato editoriale!) che, oltre a essere fonte di complesse e inesauribili riflessioni biologico-filosofiche, è stato e sarà istigatore di altre idee e creazioni artistiche…

“Logiche autunnali”, su Pangea.news

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Il mio articolo “Logiche autunnali” (già pubblicato su “Nigricante”qui, e in seguito ripreso anche su questo blog, qui) è stato riproposto su Pangearivista avventuriera di cultura e idee, “una delle migliori rassegne culturali in Italia”, curata dal giornalista, poeta, scrittore e critico letterario Davide Brullo e che da sempre pubblica articoli interessanti e culturalmente stimolanti.

Per leggere l’articolo: QUI!

L’intervista mancata a Ted Kaczynski alias “Unabomber”

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Più di dieci anni fa tentai di intervistare in carcere, per via epistolare, Unabomber: l’intervista (ne ero consapevole già all’epoca, ancor prima di ricevere il diniego ufficiale da parte delle autorità carcerarie) non si concretizzò a causa di una serie di motivi non dipendenti dall’intervistatore né, credo, dall’intervistato che, almeno in passato, è sempre stato abbastanza “generoso” con altri interlocutori in termini di comunicabilità epistolare con il mondo esterno; motivi “istituzionali” che raccolsi in un post pubblicato sul mio blog dell’epoca: “Nigricante”.

Nel rileggere a distanza di tempo i quesiti che avrebbero dovuto dar vita all’intervista e il “cappello” a questa, non posso ovviamente non notare una generale ingenuità da parte mia (ingenuità che, mi auguro, non abbia intaccato l’urgenza ancora irrisolta di quelle domande e l’importanza socio-culturale legata a esse) e soprattutto è evidente come il fenomeno dei cosiddetti social sia del tutto assente nella formulazione dei miei interrogativi in quanto ancora agli esordi e non incisivo come ai nostri giorni; fenomeno che oggi vedrei bene di includere nei punti dell’intervista riguardanti le ragioni di un certo tipo di influenzabilità sociale.

Segue il testo del post pubblicato nel 2010:

L’intervista mancata a Ted Kaczynski alias “Unabomber”

Alcuni mesi fa, interessandomi di Singolarità Tecnologica e dei “rimedi” proposti da chi vede nel fenomeno una seria minaccia per l’umanità, ebbi l’istintiva e per certi versi incauta idea di scrivere una lettera-intervista al detenuto Theodore John Kaczynski, tristemente noto anche come Unabomber, rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Florence (Colorado – U.S.A.) dove sta scontando l’ergastolo senza alcuna possibilità di sconti di pena o altre agevolazioni riservate a quei prigionieri capaci di avere nel corso degli anni una cosiddetta “buona condotta”.

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Theodore John Kaczynski is flanked by federal agents as he is led to a car from the federal courthouse in Helena, Mont., Thursday, April 4, 1996. Kaczynski, the suspected Unabomber, was charged with one count of possession of bomb components. (AP Photo/John Youngbear)

Lo scopo della mia lettera-intervista (Ted Kaczynski in questi anni di detenzione ne ha ricevute migliaia di lettere, certamente non tutte approdate nella sua cella) era quello di approfondire le tematiche decisamente interessanti, nonostante i metodi illogici e disumani adottati dal nostro ecoterrorista, contenute nel Manifesto di Unabomber (titolo originale: “La Società Industriale e il suo futuro“). Un “saggio” costituito da 232 punti in cui è riassunto, a volte in maniera lucida, geniale e convincente, altre volte scadendo in passaggi ingenuamente farneticanti, l’intero pensiero socio-ecologico, tecno-scettico quando non apertamente luddista, e rivoluzionario dell’ex matematico di Harvard e Berkeley.

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Allegata alla lettera-intervista una copia del mio breve saggio “La bistecca di Matrix”: una specie di piccolo “dono” o, se preferite, uno “scambio di opinioni” su questioni di interesse umanistico affrontate in maniera diametralmente opposta a quella di Kaczynski: boicottare in maniera pacifica… scegliendo! Dopo alcune settimane ecco arrivare la tanto agognata risposta ma non da parte di Kaczynski, bensì da parte dell’istituto penitenziario.

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