Pubblicata tre anni fa sul sito L’Ottavo.it con il titolo “The Village e le paure dell’America di oggi”, questa breve recensione filmica potrebbe offrirsi a una rilettura in chiave “post-covid”, passando dal simbolismo trumpiano di un nemico costruito per motivi geopolitici, economici e di conseguenza elettorali interni, a un’esigenza reale, attualissima, scientifica e culturale al contempo; alla realizzazione di quello che abbiamo imparato a definire in questi mesi “distanziamento sociale”. Non più visti come disvalori, punizioni corporali, torture psichiche ma addirittura – moderatamente, senza esagerare! – come opportunità per una preziosa riscoperta di visuali alternative finora trascurate, il distanziamento sociale di tipo nazionale, l’autoisolamento turistico, la quarantena dalle abitudini consumistiche e dalla moda comportamentale, potrebbero rappresentare interessanti punti di partenza non per un arroccamento misantropico tendente al sociopatico o per scadere in un provincialismo esasperante e miope di stampo sovranista o in una quaccherizzazione della socialità, bensì per una salutare ricerca inedita nelle terre interne dell’inconsueto, per una valorizzazione di quei territori culturalmente sottovalutati, delle snobbate distanze brevi, per una risalita delle correnti fino alla fonte di ciò che pensiamo di conoscere e che invece abbiamo rimosso dai nostri itinerari interiori ed esteriori.
Saggio è in questi giorni l’invito, politico e culturale, a una riscoperta del nostro paese; non si tratta di “patriottismo” economico, di una sollecitazione fascistissima a un “consumismo interno”; c’è di più: è un invito a volersi bene non come mero atto buonista, a proteggersi l’un l’altro, a coltivare un senso d’appartenenza stavolta non deleterio, non uniformante, a riscoprire il “villaggio Italia” perché in questo periodo d’emergenza abbiamo capito che, nonostante la globalizzazione, nonostante le difficoltà interne e le bassezze di certi nostri connazionali, non ci si salva che da soli, da dentro in qualità di nazione, dall’interno del bosco, o meglio, passando al bosco (non per forza in termini addirittura jungheriani), lì dove vivono gli altri membri della nostra comunità, senza attendere aiuti esterni o interventi romantici e idealistici da parte di comunità immaginarie, all’atto pratico inesistenti o ritardatarie (vedi quella europea).
È bello stare al caldo, affidarsi a riti sicuri e regole salde, accolti dal morbido abbraccio di una coperta comunitaria in cui tutto sembra riproporsi come nuovo, spinti dall’onda emotiva di una inflazionata ripartenza; anche se conosciamo la corruttibilità dell’animo umano, anche se per un po’ torneremo a riscoprirci senza coltivare illusioni a lunga percorrenza. Presto questi riabilitati gesti conservativi verranno nuovamente messi da parte: prima o poi, tra una fase e l’altra, ritorneranno di moda l’audacia e l’esotismo. E con essi forse, anzi sicuramente, anche una buona dose di stupida normalità.
“The Village”
(2004)
regia di M. Night Shyamalan
Dividerei la trama di questo interessante thriller psicologico in due momenti principali: quello dell’incanto e quello di un necessario e imprevisto disincanto. La storia si svolge a Convigton, un villaggio nella Pennsylvania del XIX secolo, la cui popolazione vive in serenità, protetta da regole nate insieme al villaggio, circondata da un bosco in cui è vietato inoltrarsi: un antico accordo di reciproca “non invadenza” ha confermato negli anni una pacifica convivenza con le creature misteriose che lo abitano. L’incanto consiste proprio nel credere in questo accordo e nella paura su cui è fondato, nelle regole stabilite dagli anziani della comunità che assicurano a tutti un’esistenza in equilibrio con la natura, con la tradizione che non offre spiacevoli sorprese. Ma il male, la gelosia, la curiosità, sono caratteristiche insite nell’essere umano, anche nel più puro, in quello coltivato sotto la serra dell’innocenza.
Lucius, uno dei giovani del villaggio, introverso e ribelle, è innamorato di una ragazza non vedente, Ivy, figlia di uno dei più autorevoli e influenti anziani fondatori del villaggio. Anche Noah, giovane affetto da turbe mentali, si è invaghito di Ivy e in preda alla gelosia accoltella Lucius. Ed è da questo preciso istante che inizia la fase del disincanto: per salvare la vita di Lucius occorrono farmaci che è possibile trovare solo in una fantomatica città al di là del bosco, fino a quel momento irraggiungibile – e di fatto mai raggiunta da nessuno degli abitanti – a causa dei divieti che circondano Convigton.
Ivy, pur essendo cieca, si offre per andare in città: il padre, infrangendo la regola cardine che assicura tranquillità al villaggio, svela a Ivy che le creature innominabili abitanti il bosco proibito sono in realtà un’invenzione degli anziani per tenere lontani gli altri covillici dalla cosiddetta civiltà. Forte di questa rivelazione sconvolgente, Ivy raggiunge la fine del bosco e finalmente entra in contatto con un primo abitante della città: la sua cecità non le permetterà di accorgersi che quel cittadino incontrato per caso è un ranger del XX secolo e che il suo villaggio sorge all’interno di una foresta protetta, consentendole di restare “vergine” dopo l’incontro col mondo.
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