non è più tempo di maiuscole

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un’imprevista coesistenza tra istinti e disciplina
smorza gli entusiasmi dello spettacolo
e maturo ti inchini ad atroci richieste,
avanzando a colpi di machete
nella giungla crudele dell’esistere.

non è mai stata giusta
e ai suoi figli toglie di bocca, senza pietà
parole e speranze sognate nel buio.
la vita, questo dono bastardo
nato da geni casuali come
passeggeri seduti vicini per sbaglio
su autobus diretti verso il solito buco morente.

eppure fedeli ingoiamo strani veleni
non previsti dalla gloria
muovendo passi fiduciosi e sciocchi.
un’inerzia morale illude le disincantate menti
collegate a cuori stanchi di spingere invano
quel liquido portatore di sensuali eternità.

hai intenzione di crederci ancora, ritornando sulla strada?
sai che il movimento dà risposte inattese alla disperazione
rimescola un dolore riproposto ogni volta sotto altre forme.

illuso e testardo giocatore di dadi
abbozzi un’effimera pazienza da finto saggio,
da buon diplomatico sovrastrutturato
convivi con la più cocente sconfitta
soffri perché non intravedi ancora la sua nascosta saggezza
il velato messaggio di bellezza dietro i silenzi,
mentre ogni notte sogni, vergognandoti
mani sudice colme di premi
rubati in fretta
ossessionato dalla paura di non avere fortuna.

presto sulle delusioni si formeranno croste,
ci sentiremo guariti e vincenti, di nuovo in gara
impareremo a volare basso
sfiorando la terra che attende i nostri costosi cappotti di legno.
intanto sommiamo piccole morti invisibili,
s’avvicina l’ora della spugna non gettata
ma lasciata cadere da una meritata
mancanza di voglia.

non è più il tempo delle facili maiuscole,
solo impercettibili minuscoli passi sull’asfalto
per raggiungere nell’oscurità
il campanello d’allarme
di un’inutile salvezza.

(tratta da “Nessuno nasce pulito”, ed. nugae 2.0 – 2016)

– video correlato –

“Comfortably Numb”, Pink Floyd

Il vuoto e la città, da “Nessuno nasce pulito”

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Il vuoto e la città

Dal balcone del confino
osservo in strada la benefica assenza
di persone e mezzi.
Traffico zero illuminato
dai lampioni di una notte calma.
Natura immobile e oscura
interrotta dai finestrini veloci di un treno
sotto il cielo sereno e stellato
dell’autunno che concede grazie
agli esuli sulla via del ritorno.
Sento gli echi ammalianti
di finte opportunità perdute
provenire dai grandi centri
dell’umanità inscatolata e sveglia
“lì dove tutto accade
ed è un peccato perderselo!”
Tra neon e anatomie eleganti in metrò
motori diretti nel caos che conta
e piazze gremite di eventi,
un nulla sapiente mi richiama all’ordine
verso la verità e i suoi silenzi parlanti.

Quello che per voi è il centro del mondo
per me sarà la periferia della ricerca.

Il vuoto è l’origine del vero,
dove la mente che non immagina si dispera
nel punto in cui l’aria ferma della notte
rasserena gli animi dei non pentiti.
Un paese come lingua di lava vibra nel buio
sulla collina nera del suo vedere infinito,
sembra galleggiare nel cielo notturno
appeso alle stelle e ai pensieri di chi non dorme.

L’essere al centro non vi salverà
dagli incubi della vita che manca.
Seguire il momento
andare e venire
tra il vuoto e la città
come in un pendolo esistenziale
oscillare
cercando bolle semplici d’inesplorata felicità,
imprigionata nelle contrade dell’altrove.

(ph Alex Scott)

(tratta da “Nessuno nasce pulito” – ed. nugae 2.0 – 2016)

Gettare il cuore oltre lo Stato

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L’anarco-individualismo ai tempi del Covid-19

… Sbuffo pensando a serate tipo
Del tipo “Che facciamo?”
Io ho una Tipo di seconda mano
Che mi fa da pub, da disco e da divano,
sono qua, come un allodola questo è il mio ramo.
Io, immune al pattume della tv di costume,
In volo senza piume
In un volume di fumetti sotto il lume…

(dal brano “Fuori dal tunnel”, Caparezza)

Tutto è cominciato quando hanno annunciato che ci avrebbero connessi – così dicevano -, attraverso internet, unendoci in qualità di dati ma di fatto separandoci fisicamente, politicamente e spiritualmente (un tecnologico divide et impera), condensando la monade che è in noi, esponendola all’aria aperta, facendola vedere a tutti, ma da dietro un vetro spesso; i famosi sei gradi di separazione sono diventati dicerie, la distanza oggi consigliata per motivi epidemiologici è già stata realizzata a livello mentale molti anni fa, e non ce ne siamo accorti; oppure ce ne siamo accorti ma non ce n’è importato più di tanto. Ora la separazione è stata ufficializzata, è tangibile, resa necessaria da precauzioni sanitarie.

L’individualismo, quello deleterio e che crolla alla prima occasione, ha conquistato il potere. Ma su cosa? Sul nulla direi; ci è stata fornita l’illusione di un potere, come in una Matrix commerciale e pubblicitaria: il potere d’acquisto sulle cose che non è vero potere ma è inganno legalizzato e da tutti accettato; basta un’epidemia per troncare di netto questa rete di domanda e offerta, di apparente libertà. Tutto si ferma, tutto è congelato a data da destinarsi: anche l’unico brandello di potere in nostro possesso è costretto ad andare in stand by e ad attendere la riapertura dei negozi e dei luoghi di aggregazione che in realtà disgregano. Grazie a questa condizione di isolamento consigliato, tuttavia, riusciamo a vedere chi siamo diventati veramente, le cose che potremmo riscoprire, fare, inventare, rivalutare, costruire o smontare. Ma è una finestra che presto si chiuderà nuovamente e tutto ritornerà a una presunta normalità. Eravamo già soli, ma per mezzo di un’entità invisibile ad occhio nudo che ci costringe in casa e altera le nostre abitudini, riusciamo a toccarla questa solitudine, a verificarla perché sono stati strappati i veli illusori dietro i quali si nascondeva la verità sulla nostra reale condizione interiore e sociale.

Abbracciamola questa solitudine, facciamo in modo che diventi una regola non imposta dai Ministeri ma integrata nella nostra esistenza, accettata, compresa, sfruttata, vissuta con intelligenza; che diventi stile di vita in grado di interrompere il segnale proveniente dalla direzione commerciale anche quando tutto va bene e si torna con una docilità ovina alla consueta serenità quotidiana. C’è infatti un individualismo sano, necessario, costruttivo, non isolante ma paradossalmente unificante: un anarco-individualismo che decostruendo il messaggio proveniente dal Potere, quello che scavalca addirittura le decisioni effimere e di facciata dei nostri governanti confusi e spaventati quanto noi, ci rende di fatto liberi, senza adoperare la violenza, senza portare a rivoltose devastazioni di strada che al contrario rinforzano i potenti, saldandoli alle loro poltrone. Ecco perché l’anarco-individualista non nota alcuna differenza tra il prima, il durante e il dopo l’interruzione (per gli altri) della cosiddetta normalità. Per lui è sempre pandemia! Lui non sarà mai solidale con chi si taglia le vene perché durante “i beati giorni del castigo” – parafrasando Fleur Jaeggy – ha dovuto rinunciare al suo stupido apericena.

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Dieta social

“Mangia. Mangia piccolo Michel, mangia.

Se non mangi non puoi morire.”

(dal film “La grande abbuffata” di Marco Ferreri)

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Brevi considerazioni quasi evangeliche su due tipi di diete

Dalla seconda lettera (la prima s’è persa)

di San Michele Apocrifo ai webeti

Fratelli e, perché no,… Sorelle!

Che relazione intercorre tra la dieta da cibo e la dieta da ‘social’? Apparentemente nessuna, almeno dal punto di vista formale: in entrambi i casi, però, ci si priva di qualcosa che desideriamo o pensiamo di desiderare. Viviamo in una società che ci ha convinti – tutti, nessuno escluso – di aver bisogno del surplus come se fosse una cosa normale: surplus di informazioni, o meglio, vedi i social, di presunte informazioni; nella maggior parte dei casi, tranne rari esempi e in presenza di utilizzi pensati del mezzo, sono di più i dati rilasciati in giro dai nostri movimenti virtuali e riutilizzati dai Signori del Social Networking per motivi politico-commerciali, che le informazioni per noi realmente utili nella vita pratica: andando a stringere, togliendo i selfie, le notizie su noi stessi non richieste, come i piatti mangiati o i luoghi visitati, le considerazioni sui cantanti dell’ultimo Sanremo, le cosiddette informazioni di ritorno utili per le attività che amiamo o per la nostra stessa “sopravvivenza” sociale, sono veramente poche, anzi pochissime. Quindi, in soldoni, sui social diamo più di quel che riceviamo. Ma era cosa nota.

Surplus di alimenti. In questo caso accade esattamente il contrario: riceviamo di più di quello che in seguito riusciremo realmente a trasformare in energia per vivere; dove per vivere s’intende sia l’attività fisiologica di base, quella che ci permette di non morire, sia l’attività di lusso, le azioni che riguardano il nostro essere intellettuale e quindi culturale, relazionale, dinamico, insomma il nostro essere Homo sapiens sapiens sul pianeta Terra: il doppio ‘sapiens’ serve a sottolineare che l’Uomo non solo è capace di procurarsi il materiale e le conoscenze tecniche grazie alle quali costruirà la propria abitazione o il proprio mezzo di trasporto, ma dopo si autoelogerà, o addirittura si autoesalterà, cantandone o scrivendone (grida Marinetti nel Manifesto del Futurismo: <<Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova; la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo… un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia.>>) Mentre invece un picchio resta sostanzialmente umile dinanzi al buco praticato a suon di becco nel tronco di un albero: da qualche parte dentro di sé, sa che deve farlo per crearsi un riparo e nidificare; possiede una coscienza limitata del perché, pur essendo presente a se stesso mentre lo fa. Non produce una poetica del buco: a quella ci penserà il poeta (discendente, a volte, non sempre, del sapiens sapiens) che passeggiando nei boschi ammirerà il creato e le meravigliose gesta innate dei suoi abitanti. Ognuno, in questo mondo, interpreta il ruolo che più si confà alla propria natura e quindi alle proprie caratteristiche: c’è chi fa e chi ne canta. I più in gamba fanno e ne cantano.

Quindi la poesia è un prodotto del surplus? Non di quello alimentare (o forse un po’ anche sì: provate a comporre versi a stomaco vuoto! E vedrete che “poema disperato e ululante” ne verrà fuori…) ma certamente di un surplus di coscienza determinato dall’evoluzione.

I due tipi di diete hanno però in comune una cosa: la rabbia. Nel caso di una dieta da cibo, la mancata introduzione nell’organismo di sostanze confortanti e gratificanti, rende il soggetto irascibile, smanioso, cattivo in quanto famelico, perché il corpo è convinto di non ricevere ciò che l’abitudine ha meccanicamente reinterpretato, ai tempi del surplus, come necessario. Ma bastano poche ore o pochi giorni e l’organismo tenderà, obtorto collo, ad adattarsi: si “accorgerà” di avere a disposizione riserve che ignorava o che fingeva di ignorare stando lontano da specchi e bilance. Riserve a cui mettere mano, come i lingotti d’oro custoditi presso la Banca d’Italia e da utilizzare solo nel caso di una reale emergenza economica e finanziaria. Superata la rabbia, e constatata l’avvenuta sopravvivenza, a dispetto dell’allarme infondato scatenato dallo stravolgimento di certe abitudini meccaniche, si torna ad utilizzare l’essenziale. Gurdjieff sottolineava la differenza tra personalità ed essenza: nel nostro specifico caso “alimentare” la personalità è data dalle convinzioni provenienti dall’esterno e fatte proprie in materia di false necessità caloriche; l’essenza è il prodotto della lotta tra questa personalità e la coscienza che in un certo qual modo si risveglia e dal di fuori comincia a osservare il corpo e la quantità di energie in esso imbrigliate e non utilizzate. E soprattutto osserva inorridita la quantità di energia che quel corpo continua a ricevere sotto forma di cibo nonostante non ne abbia realmente bisogno, al netto dell’importanza del gusto dal punto di vista psicologico e della cultura enogastronomica, identitaria di un popolo, da salvaguardare.

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La vera banalità del bene

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Quand’è che la retorica commemorativa rischia di diventare più dannosa del crimine storico che si va a ricordare puntualmente ogni anno?

Strumenti mnemonici importanti ma ormai spuntati, affidati a vecchi testimoni sotto scorta, stanchi o decimati dal tempo, hanno assunto il ruolo stantio di vessilli politici usati a piacimento dai protagonisti istituzionali del momento, coinvolgendo in egual misura maggioranza e opposizione, nessuno escluso: lo stesso è accaduto con gli immigrati, gli appartenenti alle comunità lgbt, ecc. Tutti o quasi tutti vogliono saltare sul carro della commemorazione o di una qualche causa sociale senza però badare alle condizioni delle strade su cui quel carro si trova e si troverà a passare, senza risolvere i problemi che sfidano l’integrità (e la credibilità) delle sue ruote: buche economiche in cui i passanti inciampano, profonde spaccature sociali che mettono a dura prova gli ammortizzatori psicologici dell’individuo, asfalti legislativi scadenti, una dubbia segnaletica ideologica, tombini intasati dalla retorica, crepe culturali in cui può attecchire di tutto, dalle erbacce sovraniste fino a ben più preoccupanti e possenti arbusti razzistici le cui radici, come qualcuno scrisse riferendosi ad altro, “non gelano”. Ancora una volta, parafrasando un vecchio proverbio, quando la Storia indica la luna, la politica stolta guarda il dito; se oltre il dito guardasse anche la mano o addirittura il braccio a cui è collegata, già sarebbe un progresso: si condanna l’accaduto, ci si indigna, ci commuoviamo ascoltando le testimonianze o guardando un film da Oscar, ma non facciamo assolutamente niente per prevenire le cause che puntuali ritornano come in una sorta di ciclo storico quasi periodico. Pur essendo stato “breve”, e avendo quindi a nostra disposizione più strumenti per poterlo “riassumere”, ci stiamo perdendo per strada l’insegnamento del secolo scorso.

Ed è alla luce di questa premessa che il Bene predicato, insegnato, romanzato, predigerito da registi e sceneggiatori di fiction, testimoniato, istituzionalizzato, oserei dire “imposto” (ma mai veramente metabolizzato) dal pensiero unico, diventa inevitabilmente banale e controproducente; un leitmotiv scaduto che garantisce ampi spazi ad assurde manovre negazioniste, a riconsiderazioni nazionalistiche, a sovranismi di pancia in cerca di pieni poteri e a nuovi “cameratismi totalitaristici” in grado di captare e addensare i vari disagi sociali. Se la Storia crudele che si presenta in assenza di memoria (come accadde durante la Seconda Guerra Mondiale) è già di per sé condannabile, come dovremmo considerare oggi chi permette, dal punto di vista politico, il suo ripetersi in presenza di una equivalente dinamica socio-economica ormai nota persino allo studente delle scuole secondarie di primo grado (le “scuole medie” dei miei tempi!) alle prese con un programma di storia di livello medio-basso? Se la Repubblica di Weimar fu un laboratorio a cielo aperto da cui ancora oggi è possibile imparare molto, noi rappresentiamo gli studenti distratti che guardano fuori dalla finestra mentre il docente spiega per l’ennesima volta le cause riproducibili e i noti effetti dell’esperimento.

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Reflusso

È uno iato che non trova pace
si apre e si chiude, incurante
questa speranza affacciata
alla ringhiera della solitudine,
è una luce intermittente
sulla parte più vera dell’omesso
un gioco di dadi in ritardo
lanciati contro le amate pareti del silenzio.

Ma c’erano già l’umana sorte
e la morte ingannata
a dividere i destini
a rendere illusoria
sull’orizzonte conosciuto
quella nostra parvenza
di ridicola onnipotenza.

Speakers’ Corner

Quelli che non si raccontano
ai quattro angoli dell’umanità
come navi fraintese
sotto cieli sinceri
salpano ostentando la muta fede
dei condannati al marchio di fuoco.

Non proveranno a spiegare
quel che la mancanza di fantasia
nega ai moribondi della mente,
conservano parole e immagini
per futuri occhi da punire
nati già velati per eredità.
Si mettono da parte
senza odiare, negli angoli calmi
della corrente sbronza
che illustra pagine al buio

vincenti a loro insaputa,
aspettando l’ora giusta
per dimenticare.

– video correlato –

“Don’t Speak”, No Doubt

Il ritorno del re

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Agogno il ritorno del re
che in solitudine tutto decreta,
sulla lama della sua spada
cadranno gli ipocriti tra ghigni sociali
e periranno le confuse democrazie.
Un pensiero unito, fuso nel tempo
come ferro saldato dall’ira
raccolta negli anni sbagliati,
fuggito da pollai televisivi
già si staglia su sfumati destini.
Le opinioni, simili a vaporose vesti
risalgono al cielo pesante dell’ingiusto
sospinte da ritrovate lance roventi.

È tempo di mettere a tacere
le troppe voci che non ascoltano,
il richiamo di un passato nascosto
e delle sue gelate radici
sovrasterà le povere idee raminghe.
Il re guarirà questa stanchezza
e le umilianti ferite,
risanerà le ossa spezzate
dalla cecità degli uomini corretti,
donerà una nuova dignità
a chi della verità rifiuta il dolore.

– video correlato –

“La volpe”, Ivano Fossati

Le donne guardano

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Le donne guardano,
con la coda di promesse
dismesse come panni
usati da mani maritali,
guardano una fantasia sulfurea
a volte una salvezza.

Guardano con la dolce malizia
di chi tradisce senza toccare
o lasciarsi espugnare da ignari
candidati all’alternativa del talamo.
Confrontano il passante
con chi dimora al loro fianco,
lampi di sguardi radiografici
catturati da carrozze in fuga,
nessuno conosce il verdetto
se apprezzato o sbeffeggiato,
nascondono verità profonde
dietro le quinte dell’ovvio.

Le donne ti guardano morire,
scelgono un attimo prima
dell’ultimo respiro
se dirti tutto oppure niente.

Bar Epoché

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Essere soli tra la folla
seduti, in silenzio
pazienti come cacciatori
di verità umane su volti passanti,
sospendere il giudizio
o criticare con leggerezza.
Assorbire esistenze, registrarle
su taccuini di vetro scuro,
sentirsi parte del flusso urbano
e levigata pietra immobile
ai margini della corrente.

Quante facce nuove, perlate di affanni
alcune ripassano, simili a déjà vu,
sport estivi, osservazioni da bar
cercare senza risolvere
una poetica della città.
Attendere l’occasione giusta
per capire cose non scritte nei libri,
imparare per caso
saperi sospesi tra la gente.

“V for Vendetta” vs “Trainspotting”: monologhi a confronto

I cittadini che V vorrebbe “risvegliare” hanno affidato la propria libertà a un potere antidemocratico perché spaventati dai tanti problemi: “Io so perché l’avete fatto: so che avevate paura, e chi non ne avrebbe avuta? Guerre, terrore, malattie: c’era una quantità enorme di problemi, una macchinazione diabolica atta a corrompere la vostra ragione e a privarvi del vostro buon senso. La paura si è impadronita di voi, e il caos mentale ha fatto sì che vi rivolgeste all’attuale Alto Cancelliere: Adam Sutler. Vi ha promesso ordine e pace in cambio del vostro silenzioso obbediente consenso.”

N I G R I C A N T E

versione pdf: “V for Vendetta” vs “Trainspotting”: monologhi a confronto

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Nel post che vi apprestate a leggere (spero fino alla fine), cercherò di mettere a confronto due monologhicult della più o meno recente produzione cinematografica internazionale: quello di V nel film “V per Vendetta” e quello di Mark Renton (soprannominato Rent) all’inizio del film “Trainspotting”. Qualcuno si starà chiedendo cosa abbiano in comune questi due monologhi; domanda legittima: infatti appartengono a due generi, due realtà differenti (l’una fantastica ambientata in un Regno Unito distopico, l’altra ha come sfondo una Edimburgo storicamente verificabile, descritta nell’omonimo romanzo di Irvine Welsh; come nel caso anche del romanzo “Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino” di Christiane F.) e i personaggi che li pronunciano sono a dir poco antitetici. Eppure, discostandomi dai rispettivi contesti senza mai perderli di vista, concentrandomi solo ed esclusivamente sui testi, ho…

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(Riconoscersi, l’epilogo)

Non archiviate con rancore

non voltate la pagina

strappandola,

perché non tutto

è dato sapere

alla parola quotidiana

dell’uomo che parte.

Antenne

Siamo mute antenne

in attesa di celesti verità

terrene

che si stagliano rugginose

contro cieli all’imbrunire

di perduti pomeriggi.

(ph M. Nigro)