
Il missionario
Il ritaglio di cielo nero compreso tra i due palazzi che delimitano la strada, è illuminato a giorno dall’ennesimo lampo della serata. Un vento caldo, in questo novembre anomalo, contrasta con le previsioni del tempo che già promettono neve e colonnine irrigidite: “non c’azzeccano mai!” – penso. A sottolineare la mia disapprovazione ecco giungere il tuono con i suoi naturali secondi di ritardo che, a contarli bene, sono sempre meno. “Presto la pioggia mi farà compagnia!”
Non amo ‘lavorare’ con l’acqua: si bagnano i vestiti e gli strumenti.
La notte, invece, non mi disturba affatto. Apprezzo molto quei clienti che mi ‘convocano’ in tarda serata. L’avvolgente anonimato delle tenebre libera dai convenevoli che di giorno, chissà perché, ci sentiamo in obbligo di sostenere con le persone e addirittura con gli oggetti.
Amo la notte: è liberatoria. E poi adoro quella frase d’uso comune negli ambienti medici: “… se supera la notte…!”. ‘Se’: congiunzione con valore ipotetico in salsa atletico-cronologica ed escatologica.
Il caffè all’angolo già ricolmo di premature leccornie natalizie; il bazar delle cose usate; le rosticcerie a conduzione familiare che nascono come funghi in questa società di lavoratori precari; le casalinghe che s’affrettano tra il fruttivendolo e il tabacchino; la piccola cappella di strada dedicata a Santa Lucia con i lumini rossi che brillano sornioni accanto all’icona. La vita scorre frenetica, in questa cittadina di provincia, nella sua monotona prevedibilità e gli esseri umani che alimentano tale vita credono di pilotare il proprio destino facendo acquisti e concentrandosi sulle più futili amenità; in realtà, non controllano proprio un bel niente!
Io, invece, offro certezze.
Mancano ancora tre quarti d’ora all’appuntamento e le prime gocce d’acqua sull’asfalto mi invitano a ripararmi presso la vicina chiesa di S. Maria della Speranza che – lo so benissimo! – resterà aperta per una buona mezz’ora nonostante la messa sia finita da un bel po’.
A volte i ritardatari, quelli che a messa non ci possono andare per motivi di lavoro o per altri impegni, si accontentano di sostare qualche minuto in adorazione, seduti tra i banchi mentre il sacrestano ripone gli ornamenti sacerdotali nei mobili della sacrestia, dopo aver spento luci, candele e microfoni. L’aria nella chiesa è ancora pregna di odori vestiari e d’incenso, ma non voglio sedermi a meditare. Ho sempre creduto in una fede militante e le messe le ascolto in piedi, sugli attenti. Se non c’è messa, leggo. Mi avvicino, come stasera, al libro delle sacre scritture posto su di un leggio a disposizione della gente che entra in chiesa e leggo le letture della giornata: prima, seconda lettura, salmo responsoriale e il brano tratto dal Vangelo. La mia attenzione ricade, però, sulla prima lettura:
“Vi è una sorte unica per tutti,
per il giusto e l’empio,
per il puro e l’impuro,
per chi offre sacrifici e per chi non li offre,
per il buono e per il malvagio,
per chi giura e per chi teme di giurare.
Una medesima sorte tocca a tutti
e anche il cuore degli uomini è pieno di male
e la stoltezza alberga nel loro cuore mentre sono in vita,
poi se ne vanno fra i morti.”[1]
Credo molto nella forza ispiratrice derivante dalla lettura casuale delle sacre scritture e anche stavolta riesco a strappare alla Bibbia le parole che voglio sentirmi dire prima di andare a lavoro.
È vero: vi è una sorte unica per tutti, ma io offro di più; come dicevo: offro certezze.
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