Il mondo è una sirena ululante

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Il mondo è una sirena ululante
che da balconi nebbiosi e distanti
squarcia la notte legnosa sui mari,

naviganti a vista in strani autunni
fatti di primavera e zanzare ebbre

dentro di noi le foglie cadevano già
da tempi immemorabili, senza appello
silenti come lievi inganni sull’acqua dell’eterno,

ma è forte la vita sorpresa dall’inciampo
si riscopre cocciuta sulla linea dei traguardi.

(ph M.Nigro©2022)

“Trovando un ferro di cavallo” di Osip Ėmil’evič Mandel’štam (1933)

email - sacchi -

Trovando un ferro di cavallo

Guardando il bosco diciamo:
ecco il legno delle navi, degli alberi maestri,
pini rosati
liberi fino in cima dal ruvido fardello,
a loro di gemere nella burrasca
solitarie conifere
nell’imbestialita aria non boschiva:
sotto il salato tallone del vento resiste l’archipendolo fissato alla tolda danzante.

E il navigatore dei mari nella sua smisurata ansia di spazio
trascinando per umidi solchi il fragile strumento del geometra
confronta l’attrazione del grembo terrestre
con lo scabro livello delle acque

e respirando l’odore
di lacrime di resina dal fasciame della nave,
ammirando le tavole
inchiodate, composte in paratie
non dal buon falegname di Betlemme, ma dall’altro
– il padre dei viaggi, l’amico dell’andar per mari –
diciamo:
anche loro stavano sulla terra,
scomoda come la spina dorsale di un asino,
per le cime dimenticando le radici,
dritti sul famoso crinale,
e vociavano sotto l’insipido acquazzone,
proponendo invano al cielo di scambiare con una manciata di sale
il loro carico prezioso.

Da dove cominciare?
Tutto si incrina e oscilla.
l’aria trema di paragoni.
Nessuna parola vale più di un’altra,
la terra romba di metafore,
e bighe leggere
nei vistosi finimenti di uccelli in stormi densi per lo sforzo
finiscono in frantumi
a gara con gli sbuffanti beniamini degli ippodromi.

Tre volte benedetto chi porta un nome al suo canto:
adornata di un nome la canzone
vive più a lungo delle altre,
un nastro sulla fronte la fa eletta fra le compagne
salvandola dall’oblio, profumo troppo forte che stordisce
– foss’anche la prossimità del maschio
o il profumo della pelle di una bestia forte
o anche soltanto la fragranza della santoreggia sgualcita fra le mani.
L’aria sa essere scura come l’acqua, e ogni cosa vivente vi nuota dentro come un pesce
scuotendo con le pinne la sfera,
compatta, elastica, appena riscaldata,
cristallo dove girano ruote e scartano i cavalli,

Umida terra-nera della Neera ogni notte di nuovo disossata
da forche tridenti, zappe, aratri.
L’aria è coinvolta non meno densamente della terra,
non si può uscirne, si fa fatica a entrare.
Il fruscio zampe-verdi corre fra gli alberi:
i bambini giocano agli aliossi con vertebre di animali morti.
Il fragile calendario della nostra era si avvicina alla fine.
Grazie per ciò che è stato:
sono io che ho sbagliato, ho fatto male i conti, ho perso il filo
l’era tintinnava come una sfera d’oro, cava, fusa, nessuno la reggeva,
ogni volta a sfiorarla rispondeva “si” o “no”
come un bambino risponde:
“ti do la mela” o “non ti do la mela”
e il suo viso è il calco preciso della voce che pronuncia le parole.

C’è ancora il suono, ma la causa del suono non c’è più.
Il cavallo giace nella polvere e rantola schiumando,
ma il ripido stacco dell’incollatura
serba ancora il ricordo della corsa con le zampe da ogni parte protese
– quando non erano quattro
ma quante le pietre della strada,
moltiplicate ancora quattro volte
quante ritraeva dal suolo l’ambio lucido di calore.

Così
trovando un ferro di cavallo
si soffia via la polvere,
lo si strofina sulla lana finché brilla,
allora lo si appende sulla soglia
perché riposi
e non gli tocchi più strappare scintille dal selciato.

Labbra umane che più non hanno da dire
conservano la forma dell’ultima parola pronunciata
e la mano sente ancora il peso
anche se la brocca è traboccata a mezzo
nel cammino verso casa.
Quello che dico adesso non sono io a dirlo,
ma si strappa alla terra come grani di grano pietrificato.
Alcuni
sulle monete disegnano un leone,
altri
una testa:
pastiglie d’ogni sorta – di rame, oro, bronzo
stanno sepolte nella terra con gli stessi onori.
Il secolo, a furia di morderle, ci ha lasciato l’impronta dei suoi denti.
Il tempo mi lima come una moneta,
e ormai manco a me stesso.

(traduzione di Serena Vitale)

Continua a leggere ““Trovando un ferro di cavallo” di Osip Ėmil’evič Mandel’štam (1933)”

“Pomeriggi perduti” su Il Mangiaparole

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L’interessante recensione di Francesca Innocenzi alla raccolta “Pomeriggi perduti”, già pubblicata su questo blog, è stata riproposta sul cartaceo della rivista “Il Mangiaparole”, trimestrale di poesia, critica e contemporaneistica diretto da Matteo Picconi e Marco Limiti (Edizioni Progetto Cultura), e giunto al suo quinto anno di pubblicazione.

Appendo liquidi a chiodi inediti

painting by Alex Russell Flint

La felicità serale si nutre
di rare conquiste ridicole,
appendo liquidi a chiodi inediti
di crocifissi che non funzionano.

Ma non moriranno
le parole del ricordo
i viaggi folli della lotta
la storia raccolta all’ultimo istante.

(immagine: painting by Alex Russell Flint)

Ogni giorno strappato

da “Poesie minori, pensieri minimi – materiali di risulta” (volume terzo) – 2021

Ogni giorno strappato
è una rivalsa materna
sulle morti della prima ora,

ma non puoi sapere
che forma avrà tra un secondo
la nuvola di storni sulla città.

Non chiedo più aiuto per un niente
all’informatico del secondo piano,
trovo risposte da me nel silenzio
dei viaggiatori solitari.

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Nota a “Preghiera in Gennaio” di Rosaria Di Donato

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Non leggete questa raccolta se almeno una volta nella vita non vi siete abbandonati al flusso di coscienza della preghiera spontanea e non ufficiale, non leggetela se almeno una volta non avete assaporato le possibilità speranzose dei Salmi veterotestamentari. Caratterizzata da un ritmo poetico non costante e non omogeneo (nonostante l’indubbia delicatezza dei versi e l’evidente genuinità della ricerca spirituale intrapresa), l’incipit della silloge dedicato alle sciagure pandemiche (lockdown) va a inficiare il successivo slancio, in parte riuscito, verso il cielo, verso l’oggetto delle attenzioni di chi ha fede. Ed è uno slancio colloquiale, che utilizza un linguaggio semplice, quotidiano, confidenziale. A tratti si avverte la vera preghiera, la preghiera-non-preghiera, quella sorgiva, che cerca (senza mai riuscirci del tutto perché l’Autrice non intende farlo) di svincolarsi da riferimenti agiografici e rimaneggiamenti evangelici troppo marcati in molti altri punti.

Resta un mistero cosa spinga un poeta a scrivere poesie-preghiere dal momento che già la poesia è religione del non detto, del non visibile, ponte con il “laico divino” che è nell’umano, pur senza nominarlo o legarlo a figure bibliche già immortalate nei testi sacri. Forse il bisogno di invocazione che proviene dal difficile vivere quotidiano (oggi ancor più difficile a causa di pandemie e guerre a seguire…), di ripercorrere con parole non ufficialmente sacre il mistero di un cammino verso l’alto, di offrire al lettore un’omelia poetica non richiesta ma donata con gentilezza. Al di là dell’essere credenti o meno, in Preghiera in Gennaio di Rosaria Di Donato (Collana “Quaderni di Macabor”, edizioni Macabor – 2021) gli oggetti poetici coltivati – Dio, il suo mortale figlio Gesù Cristo, lo Spirito Santo, la Madonna, i Santi… ecc. – sono troppo presenti (come è giusto che sia nel sottogenere poesia religiosa) e di conseguenza troppo ingombranti agli occhi di chi alla poesia ha delegato percorsi più anonimi, terreni ma non per questo meno divini.

ruth

da velo nero di precoce vedovanza
avvolto il corpo custodisce pensieri
germogli di spighe nuove al sole
ondeggianti lungo corsi d’acqua

in questo deserto che fare senza
più legami sola nell’oblio dei giorni
muti scanditi da silenzio assordante
cerbiatta inchiodata al vuoto esistere

un vortice un’idea di grazia m’inebria
ecco già l’orizzonte compare altrove
in terra straniera coltiva il futuro
lontano da qui nel paese di abramo

che patria non è dove nasciamo l’approdo
piuttosto a un vivere giusto naomi verrò
con te la legge del tuo popolo sarà la mia
il dio dei patriarchi provvederà

leggi anche:

Recensisco

Scambiamoci i libri!

Dodecalogo del recensore (di poesia)

L’uomo del vetro

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Sono l’uomo del vetro al mattino
nel silenzio d’alba fracasso sogni reali
e incubi di buio, esami da non fare
ancora oggi mi svegliano sudato.

È un dolce ricordo la mano sfregiata,
ora pezzi di bottiglie feriscono la città
minacce d’atomo sull’autunno amato
giorni neri e senza sangue dalle prime luci

darsi una spinta con i piedi non è sport
toccando il fondo conosciuto di ieri,
è disperata salvezza in risalita
verso riflessi colorati sul pelo d’acqua.

(immagine: opera di Simon Berger)

“Pezzi di vetro” – Francesco De Gregori

Asciugare il gesto

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Asciugare il gesto,
separare la pula dell’inutile
dall’azione che resta
nella storia non studiata
nell’impronta del rivisto

dannato è il tempo passato
dello sciabolare al vento
della vana lotta con armi alla moda
del ridicolo tagliarsi le mani
con vetri di rabbia sembrata giusta

beato nell’oblio del non riflettersi
cercarsi nel solo eterno presente
che tutto perdona e archivia,
condannato a non ripetersi
è il destino del saggio,
la rivolta che non incide
carcame su cui scivola.

(immagine: Movimenti e danze sacre di Georges Ivanovič Gurdjieff,

fotografia su danza, 5° esercizio obbligatorio; FONTE)

La mummia di Lenin

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Dinanzi alla porta
dello spavento supremo
immemori dei dischi incisi
delle carte stampate
del successo ai firmacopie
si cerca l’essenza del tutto
e tutto in una volta, in tempo
per la terra e l’oblio che avvolge.

La scrittura scava, arriva alla carne
ma non tutte le scritture scavano
e nel puntuale trapasso
grande è la disperazione.

Diliberto all’Italia avvertiva:
“La mummia di Lenin datela a noi!”,
sfilano feretri regali a Whitehall
ignari dell’essenza che vaga altrove
nelle scritture non lasciate, forse
negli istinti non espressi
nell’ombra delle cose importanti.

(immagine: David Bowie nel video di “Lazarus”)

Quando la benzina finirà, non ci resterà che un tocco umano…

versione pdf: Quando la benzina finirà, non ci resterà che un tocco umano…

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A te, giovane donna ingabbiata!
prigioniera nel caldo abbraccio
lussuoso metallo suvizzato
di un sultano ricco e veloce

accogliente vagina del potente
che osservi superba e distante
il mondo metropolitano di sotto
proteggi con un vetro i sensi
da fatiche, fetori urbani e precariati

sacerdotessa della velocità
voli verso i divertimentifici
di società in eterna crisi,
custode del focolare su gomma
difendi con sguardo sospettoso
il benessere luccicante al neon

emulatrice di maschi alfa
provi compassione dell’intorno
scrutando il girovago nulla,
non decostruisci, nauseata dei lenti
l’arrogante cilindrata dell’ego.

A te, dico:
scendi con me, andiamo in giro
a piedi, straniati e sovversivi
scapestrati e rivoluzionari
verso i dimenticati percorsi
della città psicogeografica d’autunno,

riconquista le strade buie e vere
le terre incognite ai margini
i vicoli inconsueti dell’anima
che esorcizzi di gas accelerando.

Continua a leggere “Quando la benzina finirà, non ci resterà che un tocco umano…”

Libri usati

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Il poeta quando rimesta antiche ferite
tra spaghi rileganti di parole nuove
deve fare piano, muto alle musiche in voga
per non disturbare la felicità del mondo

solo un giallastro, stanco libro usato
ha memoria, preso da rigattieri virtuali
comprende la smania nelle sue mani,

somigliano a quelle dell’altro padrone
ossute, tremanti, ora seppellite coi ricordi
che la felicità del suo mondo ieri ignorava.

(ph M.Nigro©2022)

“Pomeriggi perduti” di Michele Nigro… su Alessandria Today

Grazie a “Alessandria Today” e a Maria Teresa Infante…

Alessandria today Magazine - Pier Carlo Lava

Pomeriggi perduti, Kolibris edizioni, 2019

// Era bella, sì / era bella la mia poesia / e non la ricordo. / (da Onirica, pag. 75)

La ricercata poetica di Michele Nigro esula da una qualunque omologazione, uguale solo a sé stessa è inscritta nella latitanza dell’ovvio – svincolata dalle gabbie modaiole o artificiose – in cui i dettagli diventano espanso interiore di solida grammatura intellettuale sorretta da un’interiorità potente e insieme disarmante, sofferente ma pronta a resistere, graffiante a tratti, significante di un’anamnesi esistenziale che passa dalle strade del quotidiano fino ad “ascendere per discendere” nell’animo umano.

Tra le centootto pagine del volume vi è la commistione degli elementi esperienziali umani e la mimesi elettiva, rigenerante, indispensabile al poeta che ne ha assorbito il carico e avverte il gemito fratturale del bacino emotivo:

Ora che so di questa
eredità di parole sparse
più dolce m’appare
all’orizzonte la morte
che…

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Gli insonni

Morning. by Guillermo Lorca.

Gli insonni vivono silenti
fasce privilegiate di tempo,
s’incontrano carbonari
lungo i margini del giorno a venire

affilano lancette crudeli
aspettando albe e caffè.

(immagine: “Morning”, by Guillermo Lorca)