“ESTERNO NOTTE, parte 1” di Marco Bellocchio

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Marco Bellocchio decide di riprendere il discorso su Moro partendo dalla fine di “Buongiorno, notte”, da un’ucronia tenera e al tempo stesso lacerante, riguardante un ipotetico Moro liberato dalle BR e ricoverato in un ospedale blindatissimo dopo i drammaticamente noti 55 giorni di prigionia: al suo capezzale, angosciati e fintamente sbigottiti per non tradire la preoccupazione per un fastidioso esito non previsto, il trio Zaccagnini, Andreotti, Cossiga. La risposta alla loro presenza sul viso provato di Moro – stavolta redivivo grazie alla straordinaria interpretazione di Fabrizio Gifuni – è una lacrima di forte delusione per quella “fermezza” dietro cui nascondere l’esigenza necessariamente “storica” di sbarazzarsi di uno scomodo segretario di partito: i “compromessi” e le cosiddette “ragion di stato” sono entrambi fatti storici, ma alla fine vince sempre il fatto storico che, al di là dell’idealismo più che dell’ideologia, ha forti ramificazioni negli sporchi e insondabili meccanismi della sopravvivenza politica. Se in “Buongiorno, notte” Roberto Herlitzka interpreta un Moro che sulle proprie gambe – accompagnato dalle note di “Shine on you crazy diamond” dei Pink Floyd – abbandona con una certa baldanza, come in un sogno mai divenuto realtà, il covo delle BR, il Moro di Gifuni è sofferente, reale, possibile; il sogno dell’altro Moro liberato, che avvolto nel suo cappotto gira tra le strade di Roma in cerca della via verso casa, lascia il posto al Moro debilitato ma concreto, avvilito, disincantato e sconfitto dall’interno.

Bellocchio è innamorato di questa ipotesi, e ci ritorna su: cosa sarebbe avvenuto in Italia se…? E continua a fantasticarci sopra, a immaginare scenari politici, umani, personali e nazionali: quasi come a volersi vendicare al posto di Moro, grazie alla fantasia che tutto può, di una storia infame fatta di immobilismo, di una serie di scelte scellerate, di non azioni vigliacche dettate dalla finta linea della non trattativa.

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In “Esterno notte, parte 1” ancora non è possibile gustare le conseguenze immaginate del “ritorno di Moro” perché il racconto devia subito verso i giorni reali precedenti al sequestro in Via Fani, se ne analizzano le temperature sociali e familiari, le atmosfere politiche e religiose, per ribadire il concetto di un “Moro contro tutti”, premessa di un finale nell’aria che considerare “scontato” con il senno di poi sarebbe ingiusto e presuntuoso. Scontato no, ma ipotizzabile e da ipotizzare da chi di dovere, sì! Moro credeva nel “compromesso storico”, a differenza del Papa e del suo stesso partito (o di alcune parti di questo, quelle più intransigenti e manifestamente anticomuniste); Moro fu un domatore di venti durante una tempesta invisibile: i comunisti extraparlamentari non furono più severi delle correnti contrarie al compromesso all’interno della Democrazia Cristiana. Tra realtà e fantasia, il cilicio che nel film Papa Paolo VI vuole indossare subito dopo la notizia del sequestro, rappresenta la penitenza da offrire al Supremo in cambio della liberazione dell’adorato Aldo o la punizione per i cattivi pensieri fatti nei confronti di un segretario di partito che con la scelta politica del compromesso con i comunisti avrebbe confuso le menti e i cuori dei fedeli cristiani sparsi per il mondo? Il film è diviso in capitoli, dedicati a ognuno dei personaggi politici e religiosi protagonisti di una vicenda politica e umana che segnò il passaggio definitivo (già cominciato con le prime stragi) verso l’età del disincanto della “giovane” Repubblica Italiana: come è nello stile del Bellocchio de “L’ora di religione”, la Chiesa e lo stesso Pontefice – nonostante lo sforzo del regista di semplicemente “raccontare” – appaiono surreali, appartenenti a una dimensione spazio-temporale che agli occhi di un ateo sembra assurda nel suo essere invece drammaticamente reale: il cumulo di banconote sul tavolo della stanza papale (“raccolte” per liberare Moro) e ricoperte da un drappo perché considerate “sterco del demonio” e quindi da tenere lontane dalla vista, è la rappresentazione di un mondo secolare, secolarizzato e bipolare che pur relazionandosi col divino “per il bene di tutti”, deve avere a che fare con le cose (sporche) della società in cui operano, anche politicamente, i suoi fedeli. Bellocchio ama calcare la mano sulla rappresentazione grottesca di una Chiesa apparentemente fuori dal mondo ma di fatto immersa nella sporcizia dell’umanità.

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Stesso destino per la classe politica. Il regista ha gioco facile con “quella” politica, di quell’epoca ormai storica; politici che se confrontati con i personaggi inconsistenti della politica odierna (sfornati dai talent show del populismo e dell’approssimazione), sembrano giganti, statisti puri e da rimpiangere, uomini seriamente votati alla causa della “res publica”. Vedere questo film al cinema nei giorni in cui si consuma la prevedibile beatificazione laica di Ciriaco De Mita all’indomani della sua morte, ha un suo profondo e significativo “perché”! Furono politici di razza, possenti, immortali e non solo politicamente, tenaci come piante rampicanti attaccate ai muri del tempo e del decisionismo, aggrappati a poteri forse oggi impensabili, a meccanismi che la fluidità umana e ideologica dei nostri tempi non saprebbe concepire. Tuttavia Cossiga ne esce fortemente ridicolizzato, e non potrebbe essere altrimenti con lo sguardo dissacrante e umanizzante di Bellocchio: è un uomo fallito dal punto di vista familiare (“inesistente” per la moglie), di successo ma costantemente insicuro e impaurito, bisognoso di un conforto (e di un confronto) proveniente da esponenti di servizi segreti stranieri presenti sul territorio italiano come se fossero turisti, disorientato dal punto di vista decisionale come lo fu l’intera classe politica italiana durante quei terribili giorni. Un politico-bambino, che affoga il bisogno impotente di salvare l’amico Aldo (riconosciuto come padre e mentore dal politico sardo) nella passione radioamatoriale per l’esterno, per una voce proveniente da fuori, in grado di sottrarlo al peso insopportabile del suo ministero. Un Cossiga fissato, dissociato, paranoico, ossessionato dal futile, dai particolari insignificanti e dal fantasma ante mortem di Moro.

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Salò

1944-amicizia-RSI-e-nazisti

Vecchi e nuovi teutonici
vagano di notte tra antiche ville
fantasma, chiusi postriboli di false resistenze
inseguono riverberi di ferrei dispacci
onde radio dileguatesi nel tempo

cercano vestigia di sé stessi
e di sconfitte glorie
in mezzo ai lussuosi resti
della Repubblica di Salò.

“Il cuoco di Salò” – Francesco De Gregori

“Noi credevamo” di Anna Banti: romanzo sul disincanto catartico

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In quest’epoca di politica twittata e di appiattimento ideologico, leggere Noi credevamo di Anna Banti è come fare un viaggio salutare alle origini dell’idealismo, per vivisezionarne le cause, i propositi, forse comprenderne i fallimenti. Il Risorgimento è solo un pretesto, uno scenario storico facilmente sostituibile benché caro a ogni italiano degno di essere definito tale e amante della propria storia: la formazione dell’uomo rivoluzionario, tuttavia, resta un mistero; solo verso la fine del romanzo l’autrice avanza ipotesi da ripescare nell’adolescenza di Domenico Lopresti – il protagonista del romanzo –, nelle “favole risorgimentali” ascoltate per bocca dei protagonisti di altre vicende duosiciliane perdute nel tempo, nell’impronunciabile ombra di un padre carbonaro scomparso troppo presto, nella scoperta dell’amore platonico che è il carburante non dichiarato dell’idealismo politico. Il risultato di un coacervo di ideali, puri e non inquinati dall’informazione lenta di un’epoca lontana dalla nostra ma che ne determina gli esiti, destinati a schiantarsi contro le mura inesorabili della Storia decisa da chi è più potente e veloce. Quello che desideriamo, e che giudichiamo giusto per tutti, contro quello che è materialmente necessario per altri, per pochi, per forze in campo capaci di sfruttare gli idealismi.

A cosa sono serviti i sacrifici, le morti, le inimicizie, le lotte clandestine, l’azione eversiva, i rischi corsi, i “maestri” idealizzati, le delusioni causate dai tradimenti di chi consideravamo compagni e fratelli, le sofferenze del carcere borbonico, se alla fine la società ottenuta, partorita da patriottiche unità scritte a tavolino da chi non è realmente interessato a una vera Unità, è deludente forse più di quella che si va a sostituire? Si sostituisce un re con un altro re solo per accorgersi che il problema risiede nella natura (quella sì, difficilmente sostituibile) dell’uomo, nella sua ancestrale immutabilità dinanzi agli eventi storici e ai nobili ideali rivoluzionari, nel suo scoraggiante e rassegnato immobilismo che è terreno fertile per i conquistatori di turno. Allora non resta che riesumare in vecchiaia, scrivendoli su carta, i ricordi di un insieme che non ha prodotto i cambiamenti sperati, di un noi laicamente credente presso cui riscaldarsi come davanti a un fuoco interiore resistente al tempo e al disincanto. Ogni epoca avrebbe bisogno di un “Garibaldi ideale” da attendere, di una nazione migliore da costruire, di un sistema politico che non sia solo la successione del precedente, di una “Città del Sole” di campanelliana memoria sul cui modello costruire la repubblica sognata, idealizzata, desiderata per sé e gli altri: e invece ci si adatta a un’unità malriuscita, a una sgangherata annessione che è ben lontana dall’ideale italico coltivato dalla cultura classica. Il Dante letto e riletto da Lopresti in carcere ne è la traccia letteraria.

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