E il giorno della fine non ti servirà la laurea

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E il giorno della fine non ti servirà la laurea 

Tempo fa risposi alle domande di un questionario proposto a più persone da una studentessa (il cui nome per questioni di privacy ovviamente non mi è possibile rivelare) in procinto di preparare una tesi di laurea sul periodo sperimentale del cantautore Franco Battiato e sul mio rapporto con lo stesso in qualità di ascoltatore/estimatore di lungo corso. Il titolo dell’intervista sopra riportato, parafrasi di un verso di un brano di Battiato, è di mia invenzione e non riguarda la tesi di laurea dell’intervistatrice e tesista. 

Esperienza con Franco Battiato

(Intervistatrice/tesista) Da quanto tempo ascolti la musica di Franco Battiato?

(Michele Nigro) Dalla fine degli anni ’70. Ma più consapevolmente dall’inizio degli ’80.

Qual è il tuo album o periodo preferito di Franco Battiato tra quelli che spaziano dall’avanguardia elettronica al pop e alla musica classica? (Se ne hai uno)

Premesso che secondo me ‘tutta’ la produzione artistica di Battiato è stata sperimentale se confrontata con il cantautorato “standard” dell’epoca, e anche dopo, posso affermare che ho amato e amo in particolare il periodo pop ovvero quello durante il quale Battiato veicolò tematiche lontane dalla cultura di massa grazie a una musicalità non più d’avanguardia, di nicchia, ma accessibile a quasi tutti gli ascoltatori.

Come hai vissuto il passaggio di Franco Battiato da un genere all’altro durante la sua carriera? Hai preferenze per uno stile musicale specifico tra quelli sperimentati dall’artista?

Non mi sono mai lasciato influenzare dai cambi di rotta del Maestro: ho ancora oggi difficoltà a collocare i singoli brani nei vari album, anche cronologicamente, perché seguo una lettura trasversale di tipo tematico e non in base al genere o al periodo, pur distinguendone ovviamente le diversità. Torno a ripetere: il pop, anche quello più tendente allo sperimentalismo, ha rappresentato a mio avviso lo stile più vincente dal punto di vista comunicativo.

Qual è la canzone di Franco Battiato che senti rappresenti meglio il suo sperimentalismo musicale? Perché?

Credo che “L’era del cinghiale bianco” (che dà il nome anche all’album che lo contiene) sia il brano da cui tutto è scaturito, il primum movens. Non solo perché segna il passaggio discografico dallo sperimentalismo al pop, ma per gli accostamenti strumentali (ad es. violino con batteria e chitarra elettrica) che caratterizzeranno in seguito una convivenza tra diversità anche su altri livelli…

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Personaggio: FRANCO BATTIATO

Hai mai assistito ad un concerto di Franco Battiato? Se sì puoi elencare quali.

Sì, a molti. Il primissimo fu subito dopo il terremoto dell’80 in Irpinia: venne a suonare in provincia di Potenza, a Ruoti per essere precisi, con la formazione dell’epoca (Pio, Destrieri, ecc.). Ero piccolo: fu una rivelazione che tuttavia “esplose” in seguito, nella maturità. Dopo c’è stato un certo periodo di lontananza: mancai ad alcuni suoi tour, per poi riprendere a seguirlo fino alla fine. Di concerti ne ricordo uno in particolare di piazza – gratuito – ad Anagni per i 700 anni dallo schiaffo di Anagni, il 7 settembre 2003. Fu memorabile… Poi c’è stato (vado in ordine sparso spulciando tra i biglietti conservati) l’Apriti Sesamo Live (Auditorium Conciliazione Roma 2013), a Ercolano nel 2011, all’Arena del mare a Salerno nel 2013, Franco Battiato e Alice nel 2016 a Roma (Auditorium Conciliazione), all’Ippodromo delle Capannelle Roma 2011, Fleurs Tour a Napoli nel 2002… Impossibile ricordarli tutti; molti furono anche concerti di piazza o di fine anno sempre in piazza (uno tra tutti un 31 dicembre a Salerno); sempre tra quelli di piazza ne ricordo uno ad Avellino (non ricordo l’anno) in cui, stando sotto il palco, ammirai un Battiato in piena forma che suonava la sua chitarra elettrica (come poi non avrebbe più fatto rientrando in una veste più classica e sobria: per capirci, il Battiato che cantava seduto tranquillo sul tappeto)… L’ultimo a cui ho assistito, prima di quelli in cui cadde rovinosamente, è stato a Napoli in piazza Plebiscito: era già un Battiato “distratto”, disinteressato a ricordare i testi, direi “etereo”, dalla voce insicura e debole, diretto ormai verso un suo mondo interiore da cui non sarebbe più riemerso.

Hai mai avuto la possibilità di interagire con Franco Battiato? Se sì racconta l’esperienza.

Non l’ho mai inseguito per un selfie, per costringerlo a un dialogo, per esprimergli pensieri profondi, come molti suoi estimatori più coraggiosi e sfacciati di me hanno fatto nel corso degli anni… L’ho avvicinato solo una volta per avere un suo autografo sul libro “Attraversando il bardo” abbinato all’omonimo documentario in dvd. L’occasione si presentò in Cilento (Campania) nel 2015 durante un pubblico dialogo tra lui e Ruggero Cappuccio; ti allego il link all’evento.

Cosa rappresenta per te Franco Battiato? Quali emozioni o pensieri evoca nella tua mente?

Pur essendo stata una presenza virtuale, distante, per i motivi che ho già illustrato nella risposta precedente (non ho mai amato “pedinare” i personaggi famosi, amo di più la casualità degli incontri), Battiato è stato per me una guida spirituale, un Maestro, un “padre”, un ricercatore puro, ma prim’ancora è stato un colto indicatore di percorsi geografici e interiori, un istigatore a ricerche “altre”… In alcuni periodi della mia vita è stato anche un ottimo “antidepressivo” perché mi ha offerto un punto di vista alternativo, sollevandomi da certi “sbalzi d’umore”…

Perché secondo te è importante parlare di Franco Battiato oggi?

Perché, senza preoccuparmi di esagerare, posso dire che Battiato farà parte della “musica classica” del futuro; non è importante parlarne perché scomparso e quindi per tenere accesa la luce sul suo operato: non ha bisogno di questo tipo di agevolazioni perché a volte mi capita di sorprendere giovanissimi ascoltarlo in piena autonomia. Quindi c’è speranza per il domani. Credo sia importante parlare di lui oggi affinché le tematiche culturali, spirituali, veicolate dalla sua musica, restino sempre tra le priorità di chi compie un certo tipo di ricerca su se stesso e sul mondo.

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Nello scenario italiano chi era Battiato per te e per l’opinione pubblica? C’era già una consapevolezza, diffusa o individuale, che si stava assistendo ad una vera e propria avanguardia musicale?

I più attenti musicalmente hanno subito captato il cambio di passo e l’hanno continuato a seguire in quel senso. Lego i suoi primi brani pop a epoche fanciullesche della mia vita, quindi Battiato è entrato a far parte di un substrato culturale di stampo popolare e oggi mi è difficile scindere quell’esordio dal mio vissuto: la consapevolezza su “basi scientifiche”, almeno per me, è giunta forse dopo, leggendo libri su di lui, andando a spulciare sue indicazioni al di là dei motivi musicali ma “analizzando” direttamente i testi. Temo che per altri, invece, questa consapevolezza non sia mai arrivata: Battiato per alcuni resta inaccessibile e indecifrabile, quindi ci si limita a citarlo decontestualizzando alcuni stralci dei suoi testi solo per far vedere di conoscere qualche suo ritornello. Questa consapevolezza è stata ritardata appositamente dallo stesso Battiato, credo, proprio perché scelse di utilizzare un veicolo pop: solo chi si è soffermato sulla sua opera andando al di là dei ritornelli ballabili, è riuscito forse a cogliere l’intento avanguardistico di Battiato anche da un punto di vista filosofico e spirituale.

Adesso prova delle sensazioni diverse quando ascolta i dischi di Battiato rispetto alla prima volta?

No, devo dire che alcuni brani che avrò ascoltato forse migliaia di volte non mi stancano mai e conservano una “freschezza rinnovabile” che non ho saputo riscontrare in altri cantautori. Anzi, il riascolto serve a scoprire nuove angolazioni sonore che erano state trascurate. Se invece vogliamo riferirci al riascolto all’indomani della sua dipartita da questo pianeta, allora tiriamo in ballo sensazioni che non si limitano alla nostalgia e alla malinconia, ma si caricano di una responsabilità maggiore perché si è consapevoli di riascoltare un cantautore che non vedremo mai più dal vivo e che non uscirà mai più con un suo nuovo album di inediti (nonostante l’intelligenza artificiale ci aiuti a sfornare ancora oggi brani dei Beatles raschiati da fondi discografici!)

In riferimento al tema della politicizzazione: com’era considerato Battiato rispetto agli altri cantautori dell’epoca?

La politicizzazione della ricerca musicale di Battiato è stato sempre un fenomeno che mi ha divertito; Battiato è stato “strattonato” dalla destra e dalla sinistra, un po’ come è successo a Tolkien, conteso dai neofascisti dei campi Hobbit e dal panecologismo hippie… Battiato ha sempre volato al di sopra di ogni catalogazione politica e si è occupato di cose alte e altre, nonostante si dica sempre che “tutto è politico!”. Chiaramente alcune prese di posizione, durante certi periodi storico-politici del paese, lo hanno collocato automaticamente in una precisa fascia: basti pensare a brani come “Povera patria” e ad alcune accuse certamente non velate contenute nell’album “Inneres auge”. Se c’è stata politicizzazione, è stata indiretta; a differenza di altri cantautori  ̶  come De Gregori, Venditti, De André, Claudio Lolli, Guccini… ̶  schierati politicamente in maniera più evidente, Battiato ha cercato, prim’ancora di accodarsi a un’ideologia partitica interessata a proporre un sistema politico in grado di cambiare la società, di modificare il proprio mondo, quello individuale, interiore. Battiato non giudicava la politica in sé ma le variegate (e molto spesso discutibili) tipologie umane che vi si affacciavano per coltivare interessi privati. Durante la sua unica esperienza politica presso la Regione Sicilia, qualcuno scherzosamente lo definì “assessore alle meccaniche celesti”: epiteto che a lui piacque moltissimo e che trovò divertente. Non esitò un solo istante a lasciare l’incarico quando si accorse (come forse aveva già previsto) che stava diventando un “gioco” estraneo alle sue corde.

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Quando ti sei reso conto della potenza della musica di Franco Battiato?

Quando sono stato male e ho sentito che la sua musica mi ha risollevato indicandomi percorsi interiori alternativi…

Considerando la lunga carriera del cantautore, considerando la variegatura nei temi e nei modi, come si è evoluto il tuo rapporto con l’artista?

La parte iniziale e centrale della sua carriera è stata, ma non solo per me, sicuramente la più interessante; anche i suoi ultimi lavori sono stati degni di nota ma già rappresentavano un “testamento” (citando il titolo di un suo brano), una exit strategy non solo esistenziale ma anche artistica… Spesso ho criticato l’eccesso di antologie sfornate dai suoi produttori per battere cassa: ho apprezzato di più il Battiato di quando aveva il pieno controllo della sua produzione. Salvo questi particolari ininfluenti posso dire che il mio rapporto con Battiato è stato sempre di forte curiosità e di affetto: ogni uscita di inediti era una sfida, uno studio, un confronto con altri estimatori… L’uscita di un suo album non lo vivevo come un appuntamento discografico e basta: era la voce di un amico che mi raggiungeva con parole nuove, di una guida che mi proponeva nuove vie da percorrere, che mi dava nuovi impliciti consigli di vita…

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“La generazione Baga – Riflessioni sull’ultimo mezzo secolo del Salone Margherita” di Antonio Vacca

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Per “Dialoghi da bar”, Michele Nigro e Francesco Innella presentano – in compagnia dell’Autore – il libro di Antonio Vacca intitolato “La generazione Baga – Riflessioni sull’ultimo mezzo secolo del Salone Margherita” (Print Art ed. – 2020 – 90 pag.) con prefazione di Gigi Miseferi.

La Generazione Baga è un viaggio “partecipe” attraverso gli Spettacoli della Compagnìa “Il Bagaglino” e, inevitabilmente, fra le pieghe del Salone Margherita romano da circa cinquant’anni a questa parte. Sviluppato con l’empatia dello spettatore affezionato, non ha velleità di retrospezione esaustiva e racconta modi, tempi ed artisti di quel meraviglioso fenomeno teatrale con precipuo intento di arginare la spèndita d’un evo spettacolare che dalle vicende più recenti rischia un parziale sbiadimento nella memoria sociale.

Antonio Vacca, 65 anni, medico nutrizionista in pensione, giornalista pubblicista e già collaboratore di tv locali e nazionali, scrive saggi brevi dal 1985, dedicati al cibo, soprattutto in rapporto ai media; si è occupato a lungo di Dieta Mediterranea. Dalla sua passione per il teatro nasce il libro “La generazione Baga”, uscito nel 2020 e di grande attualità ora che molti riparlano di “Bagaglino”.

“Nanni Moretti, tra etica ed estetica” su Pangea.news

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Il mio articolo “Nanni Moretti, tra etica ed estetica” (già pubblicato su questo blog, qui) è stato riproposto su Pangearivista avventuriera di cultura e idee, “una delle migliori rassegne culturali in Italia”, curata dal giornalista, poeta, scrittore e critico letterario Davide Brullo e che da sempre pubblica articoli interessanti e culturalmente stimolanti.

Per leggere l’articolo: QUI!

Nanni Moretti, tra etica ed estetica

versione pdf: Nanni Moretti, tra etica ed estetica

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Che a Nanni Moretti non andassero a genio molte cose dell’epoca in cui vive, l’avevamo intuito da tempo. La critica alla contemporaneità (e l’autocritica) che partendo da Ecce bombo passa per Palombella rossa, Caro diario e Aprile, trova forse una piena maturità nel suo ultimo film intitolato Il sol dell’avvenire. Una critica all’etica politica, artistica, sociale; una critica all’estetica cinematografica, morale, sentimentale. Nanni Moretti, ancora una volta, parla di se stesso, usa se stesso e la sua esperienza privata e professionale per evidenziare, non senza un’immancabile dose di ironia, le parti indigeste dell’esistenza e dei difficili rapporti interpersonali, gli elementi insopportabili delle scelte altrui, le sfumature su cui molti non si soffermano per pigrizia mentale e morale. Al di là delle “larussate” sul 25 aprile, su via Rasella e sulla presunta assenza del termine “antifascismo” (o meglio, del suo significato ideologico) nella Costituzione Italiana, questo film del regista romano rimette in moto la voglia non dico di “fare politica” ma almeno di interessarsi a essa dopo un’epoca di governi multicolori e quindi amorfi, appiattiti dal punto di vista partitico, e trasformati in un “circo” mediatico senza sostanza. Ma il Nulla che tutto semplifica, persiste ancora nelle cose amate dal protagonista Giovanni: persino la violenza, nelle scene di un certo cinema contemporaneo, è stata semplificata, predigerita, de-estetizzata dalle esigenze del marketing “netflixiano”. Nelle trame dei film (anche in quelli concepiti per illustrare la storia politica), l’amore, ovvero l’individualismo, vuole a tutti i costi prevalere sulla politica, scavalcando i copioni e le rigide direttive del regista; c’è bisogno di stupire e non di far pensare: persino gli oggetti del nostro presente invadono prepotentemente la scena storica riprodotta sul set; il ricordo politico di un’epoca è costantemente minacciato dalla modernità.

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Fenomenologia della “poesia facile”

versione pdf: Fenomenologia della “poesia facile”. Dalla neolingua alla neopoesia

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Dalla neolingua alla neopoesia

Ho assistito recentemente a una innovativa e coraggiosa trasposizione teatrale del famoso romanzo “1984” di George Orwell, già immortalato nella memorabile riduzione per il cinema del regista Michael Radford: inevitabilmente uno dei temi nevralgici ripresi anche dalla pièce è stato quello riguardante la cosiddetta neolingua inventata dall’autore di fantascienza britannico per descrivere il lento ma inesorabile processo di semplificazione del linguaggio, attuato dal partito del Grande Fratello, quale premessa per una decostruzione del pensiero critico nei confronti dell’ideologia dominante. Un’ideologia di regime bisognosa di pedine acritiche e non di uomini e donne pensanti. Eliminare quanti più termini è possibile dal vocabolario corrente per impedire sul nascere l’elaborazione di sillogismi e quindi di critiche in grado di mettere in difficoltà la presa diretta del dittatore sulle menti dei cittadini. La semplificazione del linguaggio per realizzare un più efficace controllo del pensiero della popolazione non è purtroppo solo un’invenzione di Orwell ma è stata nel corso della Storia anche una pratica ampiamente applicata; alcuni esempi attualizzabili: gli slogan propagandistici, le frasi a effetto per stupire l’elettore e parlare alla sua pancia, gli annunci lapidari non verificabili riguardanti opere pubbliche che non verranno mai realizzate…

È di questi giorni l’uscita nelle librerie dell’ennesimo best seller di un noto “poeta televisivo” che non fa mistero del proprio successo editoriale attribuendolo principalmente alle sue doti comunicative dirette, sincere, geo-onnipresenti, limpide, intorno a tematiche basilari, primitive, “domestiche” e a un suo stile poetico che potremmo definire “facile”, semplificato, consolatorio, medicamentoso come la panacea delle nonne realizzata con ingredienti casalinghi, non complessi, alla portata di tutti. A ogni pubblicazione di questo autore ne consegue un putiferio mediatico alimentato da critici indignati, da autori che non credono nell’autenticità letteraria di certi successi editoriali pompati dal marketing… A essere messa sotto accusa, ogni volta, è una non poesia che viene spacciata per Poesia e che misteriosamente (poi mica tanto misteriosamente, per motivi che diremo dopo!) riesce a raggiungere molti più lettori di quanto non faccia la “poesia vera”, quella riconosciuta dai manuali di metrica e dalla storia ufficiale della letteratura; quella degli autori che sgobbano su un verso per giorni e giorni, a volte per anni, (mentre il nostro, a dire degli invidiosi — anzi, lo dice lui stesso! —, le sue poesiole le concepirebbe in ascensore, in una sala d’attesa d’ospedale o in viaggio sul treno tra un reading pubblico, una soppressata da affettare e una lectio magistralis via Skype).

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Le ragioni del confino

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Che significato ha l’espressione “spedirsi al confino” nel XXI secolo? In quest’epoca di libertà apparenti e priva di palesi dittature, ai non vedenti di alcune democrature anestetizzanti potrebbe sembrare blasfemo il solo nominare gratuitamente una pratica poliziesca e ideologica utilizzata durante periodi seppelliti, da cert’altri addirittura negati o minimizzati, nei meandri della memoria storica di questo pianeta. Non c’entra del tutto la moda post-pandemica del borgo da riscoprire, del piccolo agglomerato umano presso cui riappropriarsi di una qualità esistenziale ed enogastronomica in via d’estinzione. Non si tratta di una “filosofia localistica” forzata, di un gesto “politico” anticonsumistico e anticapitalistico. Il distanziamento non è qui concepito come “moda sanitaria” bensì come esigenza spirituale in un’epoca abitata da persone fintamente connesse e già di fatto isolate: è un distanziarsi fisico e mentale per riscoprirsi uniti al creato e alla Storia. Isolarsi, prendere le distanze dall’umanità senza essere disumani, per ritornare a far parte del mondo in maniera autentica, purificata, consapevole: la casa del “confinato”, la natura circostante, i personaggi incrociati, sono solo elementi scenici utili alla ricerca interiore. Non è un mero isolamento prigioniero del presente, cieco e irrazionale, ma è un’occasione, vissuta con coraggio e in controtendenza, per viaggiare nel tempo, universale e personale, e in spazi ormai trasformati, se non addirittura estinti.

Andare al “confino volontario”, oggi, significa realizzare un “ritorno” in se stessi, in luoghi dell’anima, in tempi perduti, in dimensioni che non interessa quasi più a nessuno esplorare. Significa prendere nota su un diario dei vari movimenti, esteriori e soprattutto interiori, che caratterizzano questo ritorno non imposto ma naturale e spontaneo. Il confino non è solo un luogo speciale che predispone alla ricerca; è soprattutto un tempo – il proprio e non quello produttivistico della società – appartenente al singolo individuo, che ne sceglie il ritmo, e non condivisibile. È il tempo presente che si riscopre legato a un tempo passato che non ritorna, che non può e forse non deve ritornare, ma che custodisce ricordi, verità e saperi preziosi. Un tempo “lento” non misurabile dagli altri ma solo da noi stessi se lo desideriamo. Una ricerca fatta di riflessioni e pensieri, voluta e non casuale, che oscilla tra prosa e poesia, o tra prosa poetica e poesia prosastica: il confine, anche in questo caso, è indefinibile. Ed è un bene che lo sia.

(Incipit di “Elegia del confino”, titolo provvisorio per un diario tra prosa e poesia di Michele Nigro, di prossima pubblicazione…)

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(ph M.Nigro©2023; titolo: “Ho levato la suoneria del telefono più di vent’anni fa!”)

George Orwell e la neolingua della politica, su Pangea.news

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Il mio articolo “La neolingua della politica di George Orwell” (già pubblicato su questo blog, qui) è stato riproposto su Pangearivista avventuriera di cultura e idee, “una delle migliori rassegne culturali in Italia”, curata dal giornalista, poeta, scrittore e critico letterario Davide Brullo e che da sempre pubblica articoli interessanti e culturalmente stimolanti.

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“La neolingua della politica” di George Orwell

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Dopo aver letto il pamphlet “La politica e la lingua inglese” di George Orwell, nella traduzione per Garzanti di Massimo Birattari e Bianca Bernardi, molti, troppi sarebbero i passaggi da voler citare (rischiando così, nell’enfasi citazionista, di disarticolare la tesi che anima lo scritto), e molte sono di fatto le domande e le riflessioni suscitate dalla lettura di questo breve saggio dell’autore di “1984”. Sintetizzando in maniera brutale: se il pensiero influenza il linguaggio, il linguaggio adottato da un popolo influenza il suo pensiero, e quindi la sua anima, le sue aspirazioni, le sue idee. Un’influenza “circolare” difficile da costruire – il limite temporale immaginato da Orwell per il completamento del “passaggio” era, e forse è ancora, il 2050! – e altrettanto difficile da scardinare, se non attraverso consistenti traumi storici e culturali. Da qui, per invertire il trend negativo, l’esigenza pratica di nutrire il linguaggio, e quindi il pensiero, con letture che arricchiscano il proprio “paniere idiomatico”. Senza dare la colpa alle “condizioni sociali presenti”.

Se nell’appendice a “1984”I principi della neolingua – compare tra i primi obiettivi il conseguimento di una semplificazione del lessico che rasenta l’umorismo (le parole inventate da Orwell per il “Dizionario di neolingua” sono ridicole e fanno ridere perché lontanissime dalle nostre consolidate abitudini linguistiche: sbuono, sessoreato, nutriprolet, sbuio… Integrare un’intera lingua in pochi termini) allo scopo di bloccare sul nascere lo sviluppo del pensiero per mancanza di “materia” con cui elaborarlo e ampliarlo, nel nostro tempo presente con il cosiddetto “politichese” (volendo restare nell’ambito politico-ideologico) si vuole raggiungere lo stesso obiettivo distopico ma con un linguaggio non più “asciugato” dalle direttive di un partito dittatoriale come nel romanzo di Orwell, bensì reso disarticolato da una vacua complessità: in questo caso il pensiero viene letteralmente “affogato” non già dalla mancanza di lessico ma dal suo disordinato eccesso. E Orwell riporta dalla sua epoca, con tanto di riferimenti, ben 5 autorevoli esempi di “cattiva lingua” utilizzata in pubblico e per il pubblico.

La prosa moderna si allontana dalla concretezza: ha eliminato i verbi semplici, abusa di cliché e di formule vuote per “stordire” l’interlocutore. Ma oggi, in paesi liberi come l’Italia, a chi conviene, lì dove sono assenti palesi dittature, mantenere e alimentare un linguaggio che allontana la popolazione dalla realtà delle cose? Oserei dire, anche se non riportato nel pamphlet di Orwell, che conviene alla finanza, alla macchina consumistica in cui siamo coinvolti. Non c’è un chiaro pericolo Socing – come nel romanzo “1984” -: la politica (persino quella dittatoriale, divenuta anacronistica e poco “comoda”) si è ormai da decenni consegnata mani e piedi ai meno evidenti e più proficui meccanismi della finanza mondiale che tutto condiziona e influenza. Perché affannarsi a ottenere il controllo di un popolo con la violenza o addirittura con l’invenzione di una neolingua che ne renda rachitico il pensiero, quando si può ottenere lo stesso risultato confondendo il linguaggio e “anestetizzando” quel popolo con discorsi vacui e insinceri? Perché imporre l’onnipresenza di un Grande Fratello quando siamo noi stessi che – pur conservando intatto il nostro vocabolario – ci consegniamo spontaneamente al controllo del “Grande Fratello Social“?

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La guerra è moda; la moda della guerra

O bianco, o nero! Dentro o fuori!  ̶  è il maccartismo da talk show
quando il dubbio indica col dito la scomoda verità di ieri
lo stolto dipinge la luna di sangue bambino, e chiude la mente sull’oggi.
Amo la scala dei grigi, il né né, il distinguo che lascia sospesi e la memoria
la complessità osteggiata dal regime di pensiero, il vietato controcanto
la trattativa maltrattata, l’iniziativa dell’individualista, la stizza per i missili a Cuba
lo sguardo obliquo del poeta che non sceglie.
Vi lascio i banchieri striscianti sui prati di case bianche schizzate di rosso, le pacifiche armi
i concerti in metro e le magliette verdi, le comparsate a Kiev e l’ipocrita caccia all’oligarca
i pogrom a suon di swift e i roghi con libri di lingue avverse, le singolar tenzoni tra Papi e Pope
gli spauracchi atomici, la mano di Zio Sam sulla spalla e l’ultimo atto della pièce imperialista.

(endecaverso già pubblicato nell’antologia “Chiamata contro le armi”, a cura di Nadia Cavalera)

“ESTERNO NOTTE, parte 1” di Marco Bellocchio

versione pdf: “ESTERNO NOTTE, parte 1” di Marco Bellocchio

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Marco Bellocchio decide di riprendere il discorso su Moro partendo dalla fine di “Buongiorno, notte”, da un’ucronia tenera e al tempo stesso lacerante, riguardante un ipotetico Moro liberato dalle BR e ricoverato in un ospedale blindatissimo dopo i drammaticamente noti 55 giorni di prigionia: al suo capezzale, angosciati e fintamente sbigottiti per non tradire la preoccupazione per un fastidioso esito non previsto, il trio Zaccagnini, Andreotti, Cossiga. La risposta alla loro presenza sul viso provato di Moro – stavolta redivivo grazie alla straordinaria interpretazione di Fabrizio Gifuni – è una lacrima di forte delusione per quella “fermezza” dietro cui nascondere l’esigenza necessariamente “storica” di sbarazzarsi di uno scomodo segretario di partito: i “compromessi” e le cosiddette “ragion di stato” sono entrambi fatti storici, ma alla fine vince sempre il fatto storico che, al di là dell’idealismo più che dell’ideologia, ha forti ramificazioni negli sporchi e insondabili meccanismi della sopravvivenza politica. Se in “Buongiorno, notte” Roberto Herlitzka interpreta un Moro che sulle proprie gambe – accompagnato dalle note di “Shine on you crazy diamond” dei Pink Floyd – abbandona con una certa baldanza, come in un sogno mai divenuto realtà, il covo delle BR, il Moro di Gifuni è sofferente, reale, possibile; il sogno dell’altro Moro liberato, che avvolto nel suo cappotto gira tra le strade di Roma in cerca della via verso casa, lascia il posto al Moro debilitato ma concreto, avvilito, disincantato e sconfitto dall’interno.

Bellocchio è innamorato di questa ipotesi, e ci ritorna su: cosa sarebbe avvenuto in Italia se…? E continua a fantasticarci sopra, a immaginare scenari politici, umani, personali e nazionali: quasi come a volersi vendicare al posto di Moro, grazie alla fantasia che tutto può, di una storia infame fatta di immobilismo, di una serie di scelte scellerate, di non azioni vigliacche dettate dalla finta linea della non trattativa.

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In “Esterno notte, parte 1” ancora non è possibile gustare le conseguenze immaginate del “ritorno di Moro” perché il racconto devia subito verso i giorni reali precedenti al sequestro in Via Fani, se ne analizzano le temperature sociali e familiari, le atmosfere politiche e religiose, per ribadire il concetto di un “Moro contro tutti”, premessa di un finale nell’aria che considerare “scontato” con il senno di poi sarebbe ingiusto e presuntuoso. Scontato no, ma ipotizzabile e da ipotizzare da chi di dovere, sì! Moro credeva nel “compromesso storico”, a differenza del Papa e del suo stesso partito (o di alcune parti di questo, quelle più intransigenti e manifestamente anticomuniste); Moro fu un domatore di venti durante una tempesta invisibile: i comunisti extraparlamentari non furono più severi delle correnti contrarie al compromesso all’interno della Democrazia Cristiana. Tra realtà e fantasia, il cilicio che nel film Papa Paolo VI vuole indossare subito dopo la notizia del sequestro, rappresenta la penitenza da offrire al Supremo in cambio della liberazione dell’adorato Aldo o la punizione per i cattivi pensieri fatti nei confronti di un segretario di partito che con la scelta politica del compromesso con i comunisti avrebbe confuso le menti e i cuori dei fedeli cristiani sparsi per il mondo? Il film è diviso in capitoli, dedicati a ognuno dei personaggi politici e religiosi protagonisti di una vicenda politica e umana che segnò il passaggio definitivo (già cominciato con le prime stragi) verso l’età del disincanto della “giovane” Repubblica Italiana: come è nello stile del Bellocchio de “L’ora di religione”, la Chiesa e lo stesso Pontefice – nonostante lo sforzo del regista di semplicemente “raccontare” – appaiono surreali, appartenenti a una dimensione spazio-temporale che agli occhi di un ateo sembra assurda nel suo essere invece drammaticamente reale: il cumulo di banconote sul tavolo della stanza papale (“raccolte” per liberare Moro) e ricoperte da un drappo perché considerate “sterco del demonio” e quindi da tenere lontane dalla vista, è la rappresentazione di un mondo secolare, secolarizzato e bipolare che pur relazionandosi col divino “per il bene di tutti”, deve avere a che fare con le cose (sporche) della società in cui operano, anche politicamente, i suoi fedeli. Bellocchio ama calcare la mano sulla rappresentazione grottesca di una Chiesa apparentemente fuori dal mondo ma di fatto immersa nella sporcizia dell’umanità.

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Stesso destino per la classe politica. Il regista ha gioco facile con “quella” politica, di quell’epoca ormai storica; politici che se confrontati con i personaggi inconsistenti della politica odierna (sfornati dai talent show del populismo e dell’approssimazione), sembrano giganti, statisti puri e da rimpiangere, uomini seriamente votati alla causa della “res publica”. Vedere questo film al cinema nei giorni in cui si consuma la prevedibile beatificazione laica di Ciriaco De Mita all’indomani della sua morte, ha un suo profondo e significativo “perché”! Furono politici di razza, possenti, immortali e non solo politicamente, tenaci come piante rampicanti attaccate ai muri del tempo e del decisionismo, aggrappati a poteri forse oggi impensabili, a meccanismi che la fluidità umana e ideologica dei nostri tempi non saprebbe concepire. Tuttavia Cossiga ne esce fortemente ridicolizzato, e non potrebbe essere altrimenti con lo sguardo dissacrante e umanizzante di Bellocchio: è un uomo fallito dal punto di vista familiare (“inesistente” per la moglie), di successo ma costantemente insicuro e impaurito, bisognoso di un conforto (e di un confronto) proveniente da esponenti di servizi segreti stranieri presenti sul territorio italiano come se fossero turisti, disorientato dal punto di vista decisionale come lo fu l’intera classe politica italiana durante quei terribili giorni. Un politico-bambino, che affoga il bisogno impotente di salvare l’amico Aldo (riconosciuto come padre e mentore dal politico sardo) nella passione radioamatoriale per l’esterno, per una voce proveniente da fuori, in grado di sottrarlo al peso insopportabile del suo ministero. Un Cossiga fissato, dissociato, paranoico, ossessionato dal futile, dai particolari insignificanti e dal fantasma ante mortem di Moro.

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La presenza nell’assenza: un anno senza Franco Battiato

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La presenza nell’assenza: un anno senza Franco Battiato

“… Percorreremo assieme le vie che portano all’essenza…”

Ho sempre avuto un approccio da “archivista” nei confronti della morte: di quella di un parente, di un amico… Superato un comprensibile momento iniziale di smarrimento per la dipartita, senza perdermi d’animo, anzi con ancor più lena, ho sempre dato spazio a una conseguente opera di “raccolta e archiviazione” di tutti quegli elementi esistenziali che hanno caratterizzato un vissuto comune, un cammino condiviso: stampare il dialogo di una chat, elencare date cruciali, raggruppare foto, raccogliere materiale… per me rappresentano gesti naturali del post-mortem. Come a voler congelare non il momento della morte in sé, quanto piuttosto il percorso concreto, tangibile, che l’ha preceduto; un appiglio materialistico sull’abisso, un modo per dire a se stessi che nulla, neanche una briciola, andrà perduta di quel che è stato fatto insieme; per non darla vinta alla morte che livella – lei sì, archivista definitiva e inesorabile! -, che chiude a ogni possibilità di proseguimento di un discorso tra viventi che emettono suoni. Allora ci si affida alla stampa dei reperti per averli sottomano nei giorni successivi alla tumulazione, alla tecnologia che conserva negli hard disk pezzi di testimonianze anche frivole di ciò che è stato, alle registrazioni per quando verrà a mancare il ricordo della voce, alle immagini catturate da un vivere quotidiano senza cronaca, almeno per noi “comuni mortali” non famosi. Tutto viene sigillato in scatole, poi seppellite in armadi, in attesa di quei giorni in cui c’è più bisogno di ravvivare memorie, di ricordare fatti ricoperti dalla polvere ma non dimenticati, spostati dalla visuale ma non cancellati. Qualcuno dice che esagero a conservare tutto, che dovrei lasciar andare, che dovrei fare space clearing: ma non c’è ossessione nel mio conservare, c’è solo previdenza, cura museale per vite poco importanti agli occhi della Storia. Si conserva il passato perché il nostro cervello, giustamente, per fare spazio alle urgenze del presente, lascia andare fisiologicamente molti dati considerati “inutili” alla quotidianità.

Quando, però, ad “abbandonare il pianeta” è una persona altrettanto cara e preziosa come Franco Battiato, che non ha bisogno di “archiviazioni” d’urgenza, come nel caso del parente o dell’amico sconosciuti alle cronache, in quanto la sua stessa esistenza artistica è stata produttrice naturale di tracce non solo sonore, si finisce con l’interrogarsi sul reale significato della “presenza nell’assenza” di un personaggio pubblico di tale calibro, che ha avuto e ha un impatto umano, spirituale e artistico, diverso rispetto a quello di altri nomi altrettanto autorevoli del cosiddetto “mondo dello spettacolo”. Nomi di personaggi estinti, cari a un popolo in fila sotto il sole per salutare il feretro, osannati e pianti, certo, ma la cui essenza va ad affievolirsi, oserei dire naturalmente, nel corso del tempo: questi passanti, a maggior ragione, sono bisognosi di archivi e teche Rai da rispolverare.

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Battiato, invece, si fa ricordare con una forza crescente proprio nel silenzio e nella distanza; più si lascia sedimentare l’evento umano della sua morte, più la sua essenza risale attraverso i mesi e le distrazioni come un “rigurgito spirituale”. Battiato non apprezzava gli archivisti; raccomandava sempre di non raccogliere ossessivamente tutto su di lui: interviste, foto, video, bootleg, “rubriche aperte sui peli” di Battiato e “reliquie” varie… Ci preparava, già allora, alla ricerca dell’essenza, al non attaccamento alle cose e ai corpi cantanti. Anche l’Egitto, con le sue piramidi e le sue meraviglie, prima o poi verrà ricoperto nuovamente dalle sabbie, e i musei perderanno i propri reperti custoditi gelosamente: la materia è destinata a dissolversi, come le onde in uno stagno o quelle sonore di una canzone. Ma l’essenza no, quella permane anche senza l’ausilio degli oggetti archiviati: come nel film “Padre” di Giada Colagrande, la presenza dell’estinto (interpretato proprio da Battiato) si fa ancor più viva e significativa – per comodità cinematografiche si identifica questa presenza attraverso la figura ormai folcloristica del classico fantasma – all’indomani della sua dipartita: ed è un esserci discreto, non spaventevole, silenzioso (silenzio a cui Battiato, per questioni private non da tutti rispettate, ci aveva già consegnati molto tempo prima di attraversare “la porta dello spavento supremo”). “Un giorno senza tramonto / le voci si faranno presenze”: è la scoperta dell’essenza nell’assenza, anche dell’assenza in vitam. Una scoperta che può essere fatta solo se si ha il coraggio, a un certo punto, di abbassare l’audio dei vari tour commemorativi, degli affollati e umanamente comprensibili concerti-evento per onorare il grande artista, e di affidarsi seppur dolorosamente alle sole registrazioni discografiche di una voce destinata a non ritornare, mai più, per come eravamo abituati a percepirla, ovvero attraverso i limitati sensi umani: la voce del padrone di un corpo disfatto, che non rivedremo mai più muoversi, cantare, scherzare, suonare, danzare su un palco come negli anni gloriosi e spensierati dei live in giro per il mondo e dei nostri viaggi in vista di concerti estivi, tra piazze e cavee. “Spensierati” fino a un certo punto: la musica di Battiato solo in superficie lasciava spazio a un goliardico citazionismo all’apparenza slegato e al cazzeggio cuccurucucheggiante dei fine concerto sotto i palchi; in realtà i testi e la musica di Battiato, come ben sa chi l’ha musicalmente frequentato, scavavano in profondità, mutavano inesorabilmente l’animo dell’ascoltatore, si prendevano il loro tempo, disseppellivano angolazioni interiori non catalogabili, di quelle che ci invitavano e ancora c’invitano al viaggio in paesi che tanto ci somigliano: territori spirituali ma anche geografici; a volte prima geografici e poi spirituali.

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Viaggiare con Battiato nelle cuffie, colonna sonora di traversate solitarie in territori non per forza mistici, a volte popolari, turistici, affollati come i mercati arabi in paesi stranieri o il “suk palermitano” di Ballarò, perché Battiato rappresentava e rappresenta l’esperimento riuscitissimo di una ricerca superiore fatta con mezzi appartenenti alla cosiddetta “musica di comunicazione”, non per forza di consumo (pur essendo stata anche di consumo), e che diede vita a un inedito, colto e ossimorico “pop elitario”. Così come fanno certi vaccini di ultima generazione, veicolava “frammenti genetici” di insegnamenti sconosciuti e antichissimi attraverso l’involucro “innocuo” del mezzo sonoro: l’obiettivo non dichiarato era quello di creare un’immunità (mai “di gregge” perché Le aquile non volano a stormi, ma amano e difendono la propria individualità) agli “urlettini dei cantanti”, al facile consenso dato ai tormentoni estivi dalla vita effimera, a un cantautorato nostrano incapace di offrire strade culturali alternative o esotiche, quando non addirittura esoteriche. Ha portato, musicalmente parlando, l’Alto alla portata di quasi tutti, senza mai scendere a compromessi con il Basso, con gli istinti un po’ bestiali e i desideri mitici dei suoi stessi fan che sistematicamente – per nostra fortuna – ignorava, con i “livelli inferiori” della condizione umana che aspirano a una facile fruibilità del mezzo. Ha seguito e rispettato i propri interessi culturali e non quelli suggeriti dal mercato, pur avendo venduto milioni di copie. E soprattutto ci ha fatto comprendere che tentare di modificare i massimi sistemi – primi fra tutti quelli politici! – è inutile oltre che pretestuoso, e che è ben più arduo ma spiritualmente soddisfacente (Battiato sarà sempre il nostro “Assessore alle Meccaniche Celesti”!) impegnarsi a cambiare il proprio microcosmo interiore, a rendere migliore ciò che abbiamo a portata di mano in noi stessi. Engagez-vous!

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“L’uomo che cammina” per la Pace!

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Scrive Christian Bobin, riferendosi alla resurrezione del Cristo senza peraltro mai nominarlo, in L’uomo che cammina: <<L’uomo che cammina è quel folle che pensa che si possa assaporare una vita così abbondante da inghiottire perfino la morte. Coloro che ne seguono le orme e credono che si possa restare eternamente vivi nella trasparenza di una parola d’amore, senza mai smarrire il respiro, costoro, nella misura in cui sentono quel che dicono, sono forzatamente considerati matti. Quello che sostengono è inaccettabile.>> Cosa c’entra il Gesù camminante di Bobin con la 60ª edizione della Marcia per la Pace Perugia-Assisi  ̶  organizzata per la prima volta nel 1961 da Aldo Capitini  ̶  svoltasi lo scorso 10 ottobre? Apparentemente nulla, dal momento che si tratta di una marcia laica, aconfessionale, inclusiva, apartitica, anche se mai apolitica perché tutto è “politico”, nel senso nobile del termine: anche i granelli di sabbia sollevati dai piedi dei marciatori sono politici. La vera politica è azione senza colore ma di valori, è scelta di movimento, di fede folle, di cammino verso un obiettivo ideale ma concretizzabile passo dopo passo, pacificamente, senza assaltare sedi di sindacati o di partiti. C’entra perché i matti, credendo, avendo fede nella realizzazione di un mondo migliore, non attendono immobili l’arrivo del cambiamento ma si fanno movimento, camminano, pur nella limitatezza dello spostamento (“solo” 24 km per i partecipanti alla Marcia). Ancora Bobin: <<Il movimento è dare tutto se stesso>>; il marciatore per la pace consegna simbolicamente per poche ore il proprio corpo, non solo i propri ideali e il proprio tempo, nel tragitto tra Perugia e Assisi (città in guerra tra loro nel medioevo), alla causa. Una consegna che non si esaurisce con il raggiungimento del traguardo sportivo perché <<dio è un uomo che cammina ben oltre il tramonto del giorno>>; la marcia interiore continua ritornando a casa, all’indomani della confortante e colorata marea umana, nei propri luoghi d’esistenza, tra le pieghe di abitudini da scardinare in nome di un’autentica evoluzione dell’umanità ma a partire da se stessi e non pretendendola solo dagli altri: l’“I Care” milaniano  ̶  tema di questa storica edizione  ̶  è un prendersi cura, un interessarsi in prima persona e non più delegato, una responsabilità diretta dell’individuo a partire dal microecosistema del vissuto quotidiano.

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Marciare per la Pace, sulla rivista “Essere” di Arezzo…

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Capita proprio a fagiolo, in questi freddi e preoccupanti giorni di guerra in Ucraina non solo sbandierata ma purtroppo anche molto probabile, l’uscita sulla rivista “Essere” (periodico del centro di solidarietà di Arezzo, n.3 – anno XXXIII, diretto da Vittorio Gepponi) di un mio articolo sulla “Marcia per la Pace Perugia-Assisi” del 2021 (60ª edizione) a cui ho avuto il piacere di partecipare in qualità di “libero camminatore”.

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Doppia presenza per me (e quindi doppio onore) in questo numero: nella rubrica “Profili d’autore” è stata pubblicata la bella recensione alla mia raccolta “Pomeriggi perduti” (già apparsa su questo blog, qui!) a firma della poetessa Carla Malerba (redattrice della rivista “Essere”) che ringrazio anche per avermi invitato a scrivere il “pezzo” sulla Marcia…

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Edoardo Bennato e il “Peter Pan Rock ’n’ Roll tour”

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post dedicato all’amico Antonio Scarpone,
scomparso maledettamente troppo presto
di notte, mentre ero a questo concerto di Bennato…
Che bello tornare in teatro, ed è ancora più bello se si torna per un concerto. Ieri sera uno strepitoso Edoardo Bennato – per celebrare i 40 anni di “Sono solo canzonette”– ha preso in ostaggio per più di due ore il suo pubblico di Napoli al Teatro Augusteo, meravigliosamente assembrato come in tempi pre-pandemici e nonostante le ffp2 a nascondere le labbra in movimento, mai stanco di canticchiare le storiche canzoni del “rinnegato”. Inizialmente accompagnato dal quartetto d’archi “Flegreo”, l’architetto Bennato è esploso in faccia alla sua gente, in attesa da due anni di ritornare in presenza, con la classica formazione rock (la “On stage Be Band”) che ha reso arduo il restare seduti in un teatro strapieno quando sullo sfondo, alle spalle dei musicisti, è ricomparsa in un’animazione, minacciosa e mai passata di moda, la Torre di Babele che imperterriti continuiamo a costruire. Brani tratti dagli album che lo hanno condotto al successo e da quelli più recenti, passando per la parentesi trasformista di Joe Sarnataro che ancora oggi si chiede “Sotto viale Augusto che ce sta?”, fino a rituffarsi nella musica di quel Peter Pan che si porta dietro da sempre, incapace di diventare adulto perché allergico ai dettami del sistema (primo fra tutti quello discografico)… Un concerto “infinito” tra spiegoni biascicati (Edoardo Bennato è stato sempre più bravo a suonare e cantare che a parlare in maniera lineare: da qui la nostra rassicurante certezza che non si darà mai alla politica come il protagonista del brano “Vutammo pe te'”!) e la voglia di ripercorrersi in compagnia di un pubblico trasversale, dai capelli bianchi della prima ora, al ragazzino “iniziato” dal padre al rock partenopeo: la materia c’è, favole da raccontare e ancora attuali quante ne vogliamo. Bennato ha sottolineato più volte che i personaggi collodiani sono attualissimi, e l’inventore di Pinocchio “chissà cosa avrebbe pensato di quest’epoca” in cui grilli parlanti, gatti e volpi non mancano affatto. Dopo il dolce omaggio all’amico scomparso Tito Stagno con il brano “La luna”, l’apoteosi viene raggiunta quando alla fine del concerto il quartetto d’archi si unisce alla band rock: chitarre elettriche e violini suonati in piedi o pizzicati, come scacciapensieri nei fumosi saloon di un Far West immaginifico.

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