“Perfect days” e l’hic et nunc di Wenders

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Quand’è che una vita può essere considerata “perfetta”? Quando soddisfa i parametri valutativi di un sistema videocratico-consumistico basati sull’arrivismo, sul potere dell’influencing e sul successo mediatico o quando rispetta un ecosistema interiore costruito lentamente e con pazienza negli anni? Questo film di Wenders, da più parti e a ragione considerato “poetico”, pone al centro di tutto la contrapposizione tra l’affanno di chi programma la vita futura e il carpe diem di chi sceglie di cogliere l’attimo offerto dal “qui e adesso”, senza preoccuparsi di quel che si dovrà fare domani.

Il protagonista Hirayama (Kōji Yakusho) ha rinunciato a “un altro mondo”, solo accennato nel film, per onorare quotidianamente — nel proprio mondo — la meraviglia dell’esserci, lo stupore per le piccole cose, il primo respiro profondo appena svegli (a svegliarlo non è lo stridore di una sveglia ma il fruscio di una scopa di saggina), attraverso un ritualismo routinario fatto di gesti ripetuti, di abitudini puntuali, di “piccole gioie quotidiane” come innaffiare piantine, sorridere al cielo uscendo di casa, ascoltare musicassette fuori moda, frequentare luoghi pubblici ormai familiari, rifarsi il letto con movimenti collaudati, dedicarsi meticolosamente al proprio lavoro…

Qualcuno potrebbe, con una punta di malizia, ipotizzare che in realtà Wenders si sia reso la vita facile scegliendo una società, una cultura, una tradizione comportamentale come quella giapponese per proporre la sua personale visione di una filosofia esistenziale tendente alla perfezione, dal momento che il modus vivendi del popolo nipponico (al netto delle deviazioni causate dalle influenze occidentali veicolate dalla globalizzazione) è già per sua natura meticoloso, rispettoso del bene comune al limite dell’autolesionismo e affetto da precisione maniacale non solo nei luoghi pubblici e di lavoro ma anche nella vita privata. Tuttavia il protagonista del film aggiunge a queste caratteristiche diffuse un proprio tocco personale: la ricerca della bellezza nelle piccole cose non può essere offuscata dalla routine di un lavoro che da molti potrebbe essere definito “umile” (e umiliante), non all’altezza di chi avrebbe potuto aspirare ad attività più “alte”. Hirayama ci insegna che non esistono lavori umili o non all’altezza di qualcuno, ma solo lavori che nobilitano chi li svolge se eseguiti con dignità e meticolosità, da contrapporre ai lavori fatti per tirare a campare, per sopravvivere e racimolare qualche banconota per uscire con la propria ragazza il sabato sera… Spetta al singolo individuo scegliere se trasformare la propria esistenza in un haiku di equilibrio e di perfezione, capace di congelare l’attimo in tutta la sua bellezza, o vivere una vita in modalità inerziale, senza meraviglia, senza una filigrana che può intravedersi solo in controluce…

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Nostalgia del futuro

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Inizialmente pubblicato come inedito sul sito letterario “La poesia e lo spirito” fondato e curato da Fabrizio Centofanti, e precisamente nella rubrica “La parola ai poeti”, questo “pezzo” nasce, anzi sgorga prepotentemente — perché masticato da tanto, troppo tempo — da una “riflessione di strada” appartenente a un Michele sospeso tra due differenti epoche esistenziali: prima di inviarlo a Lpels, il Michele che lo ha scritto viveva una fase di transizione non pienamente realizzata; il Michele, invece, che lo ripropone oggi sul proprio blog ha un po’ meno nostalgia del futuro e vive con una forza diversa una nuova fase storica personale. È incredibile come uno stesso scritto possa essere letto e interpretato dal suo autore in maniera differente a distanza di pochi giorni. Gli stati d’animo mutano, l’umanità è impermanente, le condizioni virano, le energie si rimescolano; solo la Poesia resta ferma nella sua funzione millenaria di Motore Immobile dell’umana interiorità.

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“… Italiani impauriti e inerti come sonnambuli…”

(dal Rapporto Censis 2023)

Che cos’è la “nostalgia del futuro”? Più facile è descrivere la nostalgia per un passato che non tornerà; più fattibile è il provare nostalgia per ciò che è irreversibile ma che abbiamo comunque toccato, conosciuto, vissuto… Che razza di nostalgia si può mai provare, allora, per qualcosa che ancora deve accadere e che forse non accadrà mai? Sarebbe più corretto parlare di desiderio dell’irrealizzato; tirando in ballo, invece, la nostalgia si presume una quasi certezza per quel che andremo a realizzare a breve e a vivere in prima persona, al punto che possiamo permetterci di trattare il non realizzato come qualcosa che non c’è ancora ma che sicuramente ci sarà e di cui cominciare addirittura ad avere nostalgia. Proiettarsi in una vita che ancora non esiste, ci rende nostalgici di ciò che è potenziale, ovvero ci rende nostalgici di noi stessi perché le potenzialità sono contenute in noi, non giungono dall’esterno, non sono instillate miracolosamente da un’entità metafisica… In quel caso sarebbe più corretto parlare, appunto, di desiderio perché il termine desiderio, etimologicamente, descrive la condizione di chi “vive in assenza di stelle” (“de”, particella privativa, e “sidus, sideris” = stella; plurale “sidera”) ed è in attesa di ricevere qualcosa “dall’alto”, di rivedere comparire nuovamente le stelle che sono assenti, la loro luce che dona speranza. Chi ha nostalgia del futuro, invece, ha solo nostalgia di se stesso (di un altro se stesso), di quel se stesso che è già lì, presente, che non deve discendere dal cielo sotto forma di stella, ma che ancora non brilla in qualità di essere umano pienamente realizzato. Si ha nostalgia del futuro perché avendo pregustato le premesse, sappiamo già o possiamo concretamente prevedere come sarà il seguito della storia. Non si tratta di una storia di fantasia ma di un racconto realizzabile, realistico, di cui già conosciamo l’incipit. Praticando la nostalgia del futuro “amiamo” un noi che sta per arrivare, che è dietro l’angolo e quindi ancora non visibile, ma sappiamo che esiste, c’è. Potrebbe trattarsi di un atto di fede, ma la concretezza della possibilità ci allontana dal mistero, dall’ignoto.

Ci sarebbe anche un’altra teoria intorno al fenomeno della “nostalgia del futuro”: tutti noi sappiamo che parallelamente all’esistenza che viviamo ce ne sono altre decine o centinaia: si tratta delle “vite potenziali”, ovvero di quelle vite che avremmo potuto vivere ma che per una serie infinita di motivazioni, di scelte o di casualità non abbiamo cominciato a vivere. È un po’ la teoria delle “sliding doors”: basta perdere una metro, un aereo, un’amicizia, un’opportunità irripetibile; basta trovarsi nel punto B anziché nel punto A, nell’ora X anziché nell’ora Y, per provocare o condizionare una sequenza a cascata di eventi. La volontà non c’entra niente perché per applicarla c’è bisogno di un piano, di un progetto: quando crediamo di usare la nostra forza di volontà per piegare il destino al nostro piano, in realtà stiamo anche in quel caso assecondando un piano casuale, un piano che era destinato a capitarci sotto il naso. Questo significa che siamo foglie al vento? No di certo, ma dobbiamo accettare il fatto che anche quelle che noi crediamo essere delle nostre scelte illibate e incondizionate, in realtà sono il frutto di una serie di influenze di cui non siamo sempre, anzi quasi mai, consapevoli. Si ha nostalgia quindi di vite parallele che intravediamo dall’altra parte del vetro, come quando siamo fermi in una stazione e vediamo attraverso i vetri del nostro treno, e quelli del treno sul binario parallelo al nostro, altre persone simili a noi ma che viaggiano in direzione opposta oppure nella nostra stessa direzione, solo che a un certo punto i binari inizialmente paralleli divergono portando i due treni in direzioni diverse. Per un attimo ci siamo immedesimati nelle persone dell’altro treno, abbiamo colto qualche loro gesto che ce li ha resi anonimamente simpatici, ma non si tratta di noi riflessi, bensì di altri individui, diversi da noi, diretti in un’altra stazione di arrivo. Si può avere nostalgia di quella vita vissuta da persone che però non siamo noi; saremmo potuti essere noi, ma non lo siamo. Noi restiamo noi, nel bene e nel male.

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Patti

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La provincia è un vestito ristretto, non entra più
dopo sciagurati lavaggi in calmi vortici,
non c’è spazio invidiato che per pochi viscidi ego

muoviti verso l’estinta New York di Patti Smith
lì forse canterai al microfono di chi ti somiglia,
la poetessa del rock è in cerca di parole
nuove ma vissute, è bastato il silenzio di un lutto
[a trovarle

rimandi ancora la partenza per bagagli complicati,
vecchiaia e conti alla rovescia fin dall’embrione
vite concentrate in pochi disperati mesi,

conservi telefoni di chi è già morto prima del gran finale
foto nella scatola che mai più riaprirai,
collezioni rate di fiducia per giorni canuti che non vivrai.

“Poesie sospese”, silloge prima

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Poesie sospese, come i “caffè sospesi” a Napoli, offerte gratuitamente ai poveri in parole ma bisognosi istintivi di significanti, agli indigenti della città dell’anima, ai mendicanti del verbo che è balsamo scritto su carta effimera, ai cercatori inconsci di significato attraverso le poeticherie di altri avventori. Senza alcuna pretesa consolatoria o “farmacologica”, si tratta ancora una volta di poesie minori e pensieri minimi lasciati sul bancone di un “bar internautico” a chi è di passaggio e gradisce sorseggiare miscele inedite, a un lettore sconosciuto che va di fretta o che invece vuole concedersi qualche minuto di pausa per girare con il cucchiaino della riflessione i versi concepiti da altri; poesiole donate a chi non può permettersi di giocare con le parole, di pagarle in prima persona, di viverle sulla propria pelle. La filosofia, solidale e filantropica, dell’economia circolare applicata al poetare: continua l’avventura dei materiali di risulta riciclati in nome di una sostenibilità esistenziale.

Michele Nigro

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Nota a “Scuse senza realtà” di Vincenzo Pietropinto

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“… e quell’aria potrebbe essere / quanto rimane della mia vita”

(E poi basta, pag. 56)

Vincenzo Pietropinto definisce la propria poesia lapidaria; e aggiungo io da lettore, è un “lapidario dialogante” (mai sentenzioso o definitivo) con il vissuto (“… i percorsi remoti…”) – un passato che ritorna sfumato ma ancora vivo -, con i misteri dell’esistere, con quei sentimenti che hanno accompagnato il poeta e tuttora lo tormentano dolcemente. È un dialogo che in alcuni casi diventa resa dei conti, con se stesso, con i personaggi incrociati, con le persone amate fosse anche di sfuggita; un dialogo oscillante tra linguaggio didascalico e quotidiano e una poeticità spesso ermetica, da decifrare, che lascia solo trasparire la vicenda umana alla base dei versi. Domande basilari, quasi fanciullesche alla Peter Handke (“… Perché sono io?”; “E non ti piacerebbe nascere di nuovo…?”) che scavano nell’unicità e irripetibilità della vita ricevuta in dono; domande escatologiche sul cosa resterà dopo o dove si andrà a finire; domande inquiete poste da un cuore che insegue “i fantasmi del passato”; domande filosofiche: “Che significato può avere la mia vita / a paragone con il giro del mondo / che continua da millenni?”; domande che superano il tempo giocando con l’eternità: “Dove sarò fra cento anni? […] e se saranno passati i cento anni / saprò d’essere morto senza essere mai nato”. O per dirla alla Battiato: “Ti sei mai chiesto quale funzione hai?”.

Rimorsi o nostalgie? Forse entrambi, senza far prevalere mai la disperazione, anzi correndo sempre “verso energie / nuove, inesplorate”. Solo chi è inquieto, mentre gli altri attendono sereni il fato, costruisce quotidianamente la propria esistenza come meglio desidera, “per riabbracciare la mia vita / e quel che in noi c’è d’umano”. Che valore ha il perdonare e il perdonarsi? Quale invece l’umiltà? Ma bisogna fare presto perché “Il freddo già minaccia la coltre della mia memoria, / avvolgendola con una nebbia / senza avere nessuna pietà / delle durezze dentro noi.” Perdonarsi anche soffocando “la nostra ingenuità / in sorprendenti risate […] Si trascende così / la profondità dell’essere / e il cielo si fa più vicino!”.

Ma il poeta, a volte, ha “paura di raccontare tutto”, di disperdersi nel vento dell’ascolto e allora torna a chiudersi, a rendersi quasi indecifrabile, inaccessibile, per proteggersi, conservarsi nel mistero di se stesso. La vita che bussa alla sua porta, però, è più forte di qualsiasi lucchetto e fa domande urgenti sulle altre esistenze incontrate: “Cosa unisce i percorsi di vita? […] un ponte unisce i nostri / misteri”; sullo sfondo di questi contatti la consapevolezza della condizione umana che resta genuinamente solitaria: “Si trapassa il quotidiano, / si vive il futuro, / uniti da un ponte / di solitudine”. La solitudine è uno stato interiore che esula dalla quantità di persone che ci circondano (“Io sono solo a questo mondo […] Io e più nessuno”) ed è in grado di suggerire cose inedite a chi scrive: “I canali dei miei pensieri / sono stati contagiati / dalla tua solitudine”.

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Pioggia che non risolve

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Il dolore che ci lega ha una pausa
estiva è la fuga filiale, rapida e sola
disseminata di operose gru
come antenne nel cielo dell’Aquila.

La lunga frescura sotto il grande sasso
e il ritorno a nuove quarantene sudate,
le insoddisfatte madri in attesa di ventagli
colpi di tosse, cannonate senza guerra

è una mancanza di progetti
a lacerare l’afa interiore dell’immobile
quest’assenza di speranza
dopo una pioggia che non risolve.

Pax in tavola

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Sull’annosa diatriba tra efficiente salutismo estetico e intellettualismo passivo,
se sia più nobile e bello rimanere in forma per la guerra, e morire in perfetta
salute fisica, o godersi la vita nell’ombra e gozzovigliando andarsene felici e
malaticci. Ovvero se l’idealismo, la felicità, il coraggio e l’intelligenza siano
sempre incompatibili con l’inestetismo e il non interventismo.

Pax in tavola

a Mario Monicelli e Vittorio Gassman

Sacrificar lo ventre alla beltà
è come sputar fin su lo crocifisso
la vita è bella nella sazietà
non per morir nella battaglia d’Isso.

Entrar dentro la bettola coi compari
senza sporcar di schiuma il grugno
è ‘n po’ come girar per lupanari
senza fornir la potta al terzo pugno.

Abili guerrieri, servi e frati in arme
lasciate in terra spada, scudo e lancia.
Per lo martirio siete già in allarme
e non prestate orecchio al suon di pancia?

Per divenir concime il tempo abbonda
non disdegnate tavola e cantine.
Voglio una barba che di vino gronda
e non sentirmi lesto al fosso affine.

Prodi crociati che v’allenate in piazza
non canzonate il lardo che m’adorna.
Meglio morir col cibo e la sollazza
più tòsto d’esser bardo che non torna.

(tratta dalla raccolta “Nessuno nasce pulito”, ed. nugae 2.0 – 2016)

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Colleghi scordati

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Postcards

Da una scatola risalente a vite archiviate
dimenticata sulla cima del monte armadio
sorridenti saluti rettangolari dal mondo
giovanili e fiduciosi come speranze appena scartate
inondano l’epoca delle immediate parole elettriche.

Forse a quest’ora i colleghi scordati li ho già.

Niente più stormi in volo,
solo fugaci solitari sguardi dall’alto
su silenziosi porti in disuso.

(il verso in corsivo è tratto dal brano Colleghi trascurati di Paolo Conte)

(tratta dalla raccolta “Nessuno nasce pulito”, ed. nugae 2.0 – 2016)

Mal’ore

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Sono le mal’ore notturne
quelle d’inverno cattive e cieche,
strappano virgulti d’anni
alle amicizie sfiorate
con folate di morte
gelate dai rami del futuro

non avvisano dall’uscio
una voce che prepari,
battute lasciate a metà
tra rossi calici ancora pieni
sotto ruderi di cielo

l’età fermata, nel buio cristiano
della pietra inattesa
mentre s’illudono di respiri
e di nuvole impigliate
in finestre di chiesa
come incensi sul mondo

i tristi sopravvissuti
al giorno in più.

(immagine: Alfred Kubin – The Way to Hell, 1904)

Angelo Branduardi – Ballo in Fa# Minore

versione pdf: Mal’ore

“Logiche autunnali”, su Pangea.news

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Il mio articolo “Logiche autunnali” (già pubblicato su “Nigricante”qui, e in seguito ripreso anche su questo blog, qui) è stato riproposto su Pangearivista avventuriera di cultura e idee, “una delle migliori rassegne culturali in Italia”, curata dal giornalista, poeta, scrittore e critico letterario Davide Brullo e che da sempre pubblica articoli interessanti e culturalmente stimolanti.

Per leggere l’articolo: QUI!

Anima legume

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Le donne vanno giù di rosario
dalle finestre della chiesa spiragli
di un infinito un po’ barocco
che tiene compagnia ai vegliardi
prima dell’ora fatale e della sera.

Ed io che vorrei uno scuro baccello
tutto mio quando la vita incalza
e la luce senza chiedere trafigge
gli intenti, solo pensati su carte
trascurate come figli non voluti.

(ph M.Nigro©2021)

“Amore e Morte” di Calcedonio Reina, su Pangea.news

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Il mio articolo “Amore e morte” di Calcedonio Reina (già pubblicato su “Nigricante”qui, e in seguito ripreso anche su questo blog, qui) è stato riproposto su Pangearivista avventuriera di cultura e idee, “una delle migliori rassegne culturali in Italia”, curata dal giornalista, poeta, scrittore e critico letterario Davide Brullo e che da sempre pubblica articoli interessanti e culturalmente stimolanti.

Per leggere l’articolo: QUI!

Commissari, preti e carabinieri in tv… e quell’Italia che non esiste

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Commissari e carabinieri, commissarie e “carabiniere” (o carabinieresse? Chiederò alla Boldrini!), magistrati e magistrate, preti e suore… Mancano all’appello solo, da quel che so, le fiction sulla guardia di finanza, la protezione civile e le piccole sorelle dell’esercito di Gesù, e poi il quadro telenarrativo sull’argomento “eroi in divisa, toga e tonaca” potrebbe considerarsi quasi completo. Nella tv italiana c’è un gran pullulare di racconti televisivi dedicati a figure sociali familiari, a simboli istituzionali immarcescibili che in fin dei conti ci fanno stare bene e ci ricordano la nostra stessa vita: durante le processioni del santo patrono in prima fila ci sono il prete, il sindaco e i carabinieri; e poi viene il popolo. Lo stesso accade in tv.

Ma tutti questi personaggi televisivi oscillanti tra il “sacro” e il laico, hanno un’importante caratteristica che li accomuna: agiscono in un’Italia che non esiste. Loro stessi non esistono, sono quasi impersonali nel loro essere al di sopra del reale; rappresentano spesso l’Italia che vorremmo. Non è un fatto nuovo: anche i personaggi di Giovannino Guareschi agivano, se le davano e si agitavano in un’Italia abbastanza irreale e perfettamente divisa in due blocchi, quello cattolico e quello comunista; sappiamo però che la realtà era molto più complessa e variegata, tragica e poco romantica. I personaggi di questi encomiabili e a volte gradevoli prodotti televisivi nostrani appartengono a un’Italia ideale e idealizzata, o forse sarebbe più corretto dire stilizzata, asciutta, semplificata per ragioni non solo di sceneggiatura (anche se in alcuni casi sarebbe più corretto parlare di scemeggiatura, dal momento che certe stilizzazioni rasentano l’offesa intellettiva dello spettatore). C’è come un bisogno, da parte di registi e produttori, di assicurare al pubblico un prodotto predigerito, di trasporre in maniera teatrale – ma su scenari non teatrali bensì realistici – una narrazione nata già semplificata dalla penna degli autori: la semplificazione della semplificazione. È chiaro che il risultato finale non può che essere un prodotto lineare, pulito, pur nella complessità delle trame e delle indagini che quelle tentano di raccontare alla voracissima casalinga di Voghera che attende le sue fiction in prima serata come un premio di fine giornata.

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Distanziamento culturale

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(La foto è stata scattata prima del Dpcm del 4 marzo 2020. Per la lettura del seguente post da parte di minori si consiglia la presenza di un adulto)

 

Come mantenere le distanze e togliere il giocattolo dell’io dalle mani del mondo.

Dimenticate per un attimo il distanziamento fisico, il metro per misurare la distanza tra i tavoli, le mascherine e i gel disinfettanti; dimenticate i dpcm e le regioni colorate, riappropriatevi di una tipologia di distanziamento che vi sarà utile anche dopo, quando la pandemia sarà finalmente sconfitta e torneremo a circolare liberamente, riapprezzando quello che forse davamo per scontato. Che cos’è il distanziamento culturale? È un mero vantarsi dei libri letti e del loro numero, mostrandone le copertine sui social? È una sorta di snobismo intellettualistico da sfoggiare in un paese in cui la cultura non è tra le priorità della propria classe politica? No, niente di tutto questo: il distanziamento culturale è qualcosa di più scivoloso, di invisibile pur nella concretezza delle scelte che determina, di impalpabile e quindi di non facile classificazione comportamentale. È un distanziamento che si scopre e si coltiva nel quotidiano, tra le sfumature di gesti consueti e le pieghe del solito: è un distanziarsi graduale ma costante, è un dissociarsi non seguito da clamori, è uno sgattaiolare che inizialmente incide solo nella vita di chi compie questa scelta ma pian piano finisce per influenzare anche quella dei vicini di esistenza, il proprio piccolo mondo. Chi si dissocia non pretende mai di avere un seguito, di fare proselitismo; anzi, la massima aspirazione è quella di restare soli insieme a una scelta che fa compagnia nel silenzio, che riscalda mentre fuori piovono fredde ovvietà. Il distanziato culturale aspira all’estinzione solitaria, alla preservazione dell’originalità delle proprie scelte: il dare l’esempio è solo un incidente di cui non si gloria.

Distanziamento culturale è scetticismo; è il non dare il fianco agli schematismi familiari, ai tranelli orditi dalle persone piccole, alle trappole degli associazionismi, ai poteri gerarchici dei volontariati, alle tirannie parrocchiali, agli affaristi della ricerca di senso, ai consiglieri improvvisati, alle presunte novità politiche alla vigilia di elezioni che entusiasmano le masse, alle ipocrisie relazionali, ai facili processi chimici della solidarietà di gruppo, ai doveri dettati da una cronologia biologico-comunitaria e non da un desiderio interiore coltivato in base a una tempistica personale; è riuscire a capire molto tempo prima, grazie anche a un’esperienza accumulata negli anni, quando e come evitare ambienti, personaggi e situazioni in grado di metterci in difficoltà nella difesa del nostro fianco e della nostra dignità che deriva dal rispetto delle scelte fatte. Fare prevenzione, anche se una mossa ingenua può sempre sfuggire: siamo umani e quindi suscettibili di facili distrazioni.

Distanziarsi anche se già immunizzati, perché in agguato potrebbero esserci sempre le “varianti” della stupidità umana, le infinite forme di invadenza adottate da chi non cerca un confronto costruttivo e arricchente ma solo la prevaricazione su un terreno non strutturato ma volgare, instabile, plasmato in base a esigenze primitive, istintuali, non verificate e di fatto non verificabili. Distanziamento culturale è non fornire determinate ghiotte occasioni di manifestazione dell’imbecillità a chi non aspetta altro nella propria vita che avere a disposizione tutto per sé un palcoscenico per potersi esibire; e i direttori di scena sareste voi, anzi, peggio ancora, sareste quelli che aprono e chiudono il sipario: la bassa manovalanza degli imbecilli. Distanziamento è disertare questo spettacolo ciclico, che si ripropone in ogni epoca e in ogni esistenza (come in una sorta di matrix creata per chi non si pone domande e non sa come difendersi); è diventare vuoto, silenzio, assenza pura che vera assenza non è mai. È diventare un’assenza che fa la differenza nel confronto silenzioso e distanziato: una finezza che non tutti i personaggi coglieranno; distanziamento sarà anche non perdere tempo nel tentativo di spiegarla a chi non sarebbe in grado di comprendere.

Il numero degli astensionisti non è pari a zero e fa rumore; distanziarsi culturalmente significa anche non entrare nel calcolo economico dei potenti solo in base al proprio potere d’acquisto. Se la finanza condiziona la politica (e i suoi servizi), gli “assenteisti del marketing”, nel loro piccolo, detteranno l’agenda della logica monetaria: chi non esiste in uno stato di diritto, chi non viene percepito come cittadino, non deve esistere neanche in qualità di consumatore e forse di elettore.

Distanziamento culturale è cancellare un testo dopo averlo scritto, autocensurandosi; è conquistare un certo pudore dopo aver letto i grandi: la lettura è l’anticoncezionale naturale dello scrittore; è tacere quando sarebbe soddisfacente rispondere a tono e in maniera brillante. È essere antidemocratici all’occorrenza e orgogliosamente politically incorrect, ignorando le “corrette” bordate al cinema da parte degli ipocriti e ignoranti politically correct e le incursioni astoriche degli abbattitori di statue. È criticare il mondo senza fare nomi, senza lasciarsi trascinare nelle dinamiche specifiche di battaglie personalizzate, di cause sposate per non annoiarsi. È sottrarsi allo scontro o al flame war, alla golosa occasione di far valere le proprie ragioni anche se gli argomenti per una difesa non mancano e sarebbe fin troppo giusto utilizzarli. È fare economia di sé stessi; risparmiarsi nell’alternanza purgatoriale tra le reazioni ambientali e le nostre scontate controreazioni che offendono prima di tutto la dignità. Evitare “assembramenti” d’opinione; sospendere il giudizio; allontanarsi dalle sentenze di piazza. Prendere le distanze addirittura da sé stessi, dai propri tic d’orgoglio, e da coloro che nel relazionarsi vorrebbero, per comodità, interagire col nostro caro, vecchio, inflazionato, usurato, secondo loro conosciuto, io.

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Un giorno

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Un giorno
quando il distacco
allenato dal tempo
lo permetterà, senza
troppi rimorsi legati
a quelle parole scritte
con un tratto non più mio
riuscirò a leggervi,
e avrete conservato
intatto come inchiostro recente
il potere di una sciabolata
in pieno volto a una sciocca
giovinezza arresa.

Ma non oggi,
non è ancora l’ora
di spalancare pagine
di vite lontane, per finalmente
capire.
Solo sprazzi rubati
con la coda dell’occhio
da seppellite angosce.

(tratta dalla raccolta “Pomeriggi perduti”)

(ph M.Nigro©2021; titolo: “Riesumando diari”)