Maggio

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Ho sciolto per sempre l’antico voto
sugli anni da accudire e sul tempo guardiano,
un metallico tlac! tlac! tlac! dalla strada
appuntamento vespertino di stampella vegliarda
mi ricorda puntuale la perenne assenza
la mancante origine che lascia incustoditi
il tuo non ritorno dall’altrove.

Ho una montagna di scarpe quasi nuove
per il cammino non fatto in questa vita
una scatola di foto senza nome per distratti eredi
foreste colorate di vestiti inanimati,

un rosso di sera scolpito in cieli testardi
mi consegna speranze in cui non credo più.

Prefazione a “I riflessi delle cose”, di Stefano Olmastroni

versione pdf: Prefazione a “I riflessi delle cose”, di Stefano Olmastroni

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Prefazione a I riflessi delle cose, di Stefano Olmastroni (ed. Kolibris)

L’etimologia della parola riflesso, luce che viene rinviata da una superficie brillante o diffondente, dipana l’antico dubbio tra la poesia creata da una forza ispiratrice, quasi prepotente, che scava nel profondo, e la poesia che raccoglie con semplicità, preleva dalla superficie delle cose gli echi di vite vissute. Che differenza c’è tra riflesso e ricordo? I ricordi sono prove archiviate di un’esistenza appartenente alla storia di tutti, di molti o di un singolo individuo; i riflessi rappresentano i segni ricercati nel presente, o ritrovati per caso, di un “eterno ritorno”, di un qualcosa che non è passato, messo da parte, ma è, “persiste accanto” e a volte fa paura, anche se si prova “a non fissare / i riflessi delle cose”. Tutto sarebbe più facile “se i morti ti potessero parlare”, se ci fosse un contatto diretto con il mistero della vita. Quanto è difficile arrivare al cuore delle cose, diventare estranei a se stessi per mezzo della poesia, gestire i postumi dell’amore e lo stupore sempreverde per l’“allora siamo davvero esistiti, l’uno per l’altra” o per il “se tu sia veramente esistita”, domare i riverberi di una vita passata che non ci lascia, le tracce dei protagonisti sulle cose toccate, animate nel quotidiano viversi. Sprazzi all’apparenza inconsistenti, futili, diventano materia solida, buona per costruire strutture di versi.

È un continuare a sfiorarsi e a sorprendersi nell’amare l’altro, come tra il bianco e il nero nell’Hiroshima mon amour di Alain Resnais, incontro tra diversità, vivendo “due presenti separati”, lasciando gli anelli (propri o di altre unioni) in città per essere anonimi e liberi, coltivando “visioni / che già non ci appartengono”, osservando “onde ormai passate / cancellate dal paesaggio”. C’è una geografia testimone dei vari momenti di un rapporto; l’inizio, il culmine dell’amore, il suo dispiegarsi al mondo, il diluirsi nel tempo, la sua fine: i luoghi e gli elementi naturali registrano tutto e marcano per sempre con le loro sembianze il carattere degli istanti vissuti, rispondendo “alla chiamata del tramonto”, lasciando impronte di sé come “un racconto calpestato / sulla sabbia”. E in ogni spazio terraqueo c’è un confine che separa l’asciutto dal bagnato; gli anni trascorsi a bagnarsi, a viversi, dall’asciutto da cui si osservano gli amori passati, finiti sulla riva come le onde di un lago; il sogno dalla vita reale.

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Intervista a Francesco Innella sulla raccolta “Kimera – Poesie dell’Io”

versione pdf: Intervista a Francesco Innella sulla raccolta “Kimera – Poesie dell’Io”

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Intervista a Francesco Innella sulla raccolta “Kimera – Poesie dell’Io”

a cura di Michele Nigro

 

Michele Nigro. Perché il titolo “Kimera – Poesie dell’Io”?

Francesco Innella. Prima di scrivere questa raccolta ho pensato di trovare il filo conduttore delle mie poesie e sono arrivato alla conclusione che il mio poetare è stato sempre una ricerca dell’Io. Nella mia poesia ho sempre investigato il ruolo del poeta nel vivere quotidiano. In base a questo principio ho selezionato le poesie contenute in Kimera, che è una aporia: nell’antica filosofia greca con questo termine si indicava l’impossibilità di dare una risposta precisa a un problema, poiché ci si trovava di fronte a due soluzioni che, per quanto opposte, sembravano entrambe valide, ossia – nel nostro caso specifico  ̶  senza soluzione dei conflitti dell’Io.

Che cos’è l’ego per l’uomo-poeta Innella? Bisogna conoscerlo per domarlo, educarlo o semplicemente assecondarlo?

Sulla mia concezione dell’ego ti rispondo con un aforisma di Cioran: “Avremmo dovuto essere dispensati dal trascinare un corpo. Bastava il fardello dell’io.” Ma che cosa è l’ego? È la lotta per mantenere un equilibrio precario tra noi e gli altri. È, in effetti, un conflitto. Conoscerlo è impossibile perché tende sempre a cambiare negli atteggiamenti quotidiani. Quindi non si può domare una cosa che muta. Dobbiamo rassegnarci, e ritornando ancora a Cioran: “Siamo costretti all’io, al veleno dell’ego”.

La tua ricerca sull’Io ha origini “antiche”. Non è la prima volta che con la tua poetica esplori e cerchi di ridimensionare l’ipertrofia dell’Io (anche adottando uno stile sobrio per dare l’esempio!), però scegli comunque la parola, strumento di quell’”effimera verbosità” che citi nella poesia Egoità, per comunicare i risultati della tua ricerca a noi lettori. Può la poesia diventare un valido esercizio di auto-eclissamento?

No, assolutamente: oggi si scrive tanto. Il fenomeno è ben evidente sulla rete perché c’è un grande bisogno di “glorificare” l’ego. Si può raggiungere una distanza dall’ego con la poesia impersonale  ̶  vedi l’haiku  ̶  ma nulla di più.

La Natura ci mette a tacere con i suoi fenomeni, ci rende umili. Perché in seguito dimentichiamo la nostra caducità e ritorniamo a essere arroganti?

Secondo me è tutta colpa dell’antropocentrismo. Concezione secondo cui tutto ciò che è nell’universo è stato creato per l’uomo e per i suoi bisogni, per cui l’uomo si viene a trovare al centro dell’universo e può considerarsi misura di tutte le cose.

La necessità dell’oblio mentre siamo ancora vivi. Perché questo bisogno di annientarsi, di eclissarsi, di perdersi, ritorna spesso nei tuoi versi?

La quiete assoluta è del mondo inorganico, di cui appunto la vita è alterazione. Allora in me prende corpo il principio del nirvana, ossia il ritorno alla quiete, quello che è in fondo il messaggio buddista, ma escludo l’autodistruzione. Il suicidio, secondo Arthur Schopenhauer, è un modo sbagliato di rispondere alle sofferenze della vita.

In Lenimento parli di “antiche presenze” che mormorano: sono ricordi personali dal passato o si tratta di catene interiori tipiche della condizione umana e quindi innate?

Sì, da una parte ci sono i ricordi personali che mi hanno segnato in maniera molto rilevante. Luca Canali, nell’antologia “I poeti della ginestra”, mi descrive come una persona che ha l’animo vulnerato per l’assedio dei suoi simili; dall’altra parte non riesco a superare le catene interiori tipiche della condizione umana, e tutte e due queste situazioni sono evidenti nel mio poetare; mi sento toccato da un’angoscia che ha origini antiche, che ho sempre avvertito e che non si dilegua ma continua nel tempo a sussistere; è una ferita interiore che non guarisce.

Il dolore è solo un’esperienza che causa tristezza o può rivelarsi fonte di energie preziose inutilizzate e da rimettere in gioco per costruire il bene?

Oggi si usa molto la parola resilienza che in psicologia indica la capacità di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà. Io credo che il dolore favorisca la crescita: Aldo Carotenuto, psicoanalista junghiano, ha sempre parlato della ferita interiore come di una feritoia dalla quale osservare il dolore e iniziare il suo superamento e trasformarlo in bene dal momento in cui si è giunti alla consapevolezza della propria dolorosa  condizione.

In La luna “uomini in torri d’avorio / sognano illusioni”; forse sono gli stessi esseri umani che come noi percorrono “le strade del nulla” citate nella poesia I gatti. Quali sono queste illusioni e cosa potrebbe contribuire alla nostra liberazione da esse?

Carlo Michelstaedter sostiene che ognuno di noi non riesce a uscire dal cerchio illusorio della vita, ci rinchiudiamo nelle nostre torri d’avorio e scriviamo poesie, siamo noi stessi che coltiviamo la poesia come rimedio al vuoto: io sono poeta perché ho sperimentato il nulla e le sue numerose strade. Difficile definire le illusioni, sono molteplici: ogni essere umano ha le proprie ed è difficile liberarsi da esse; forse, come dice Krishnamurti, dovremmo avere il coraggio di eliminarle e avvertire il vuoto che si nasconde dietro di loro, ma poi si ha il coraggio di affrontare il vuoto? O ci spaventiamo e ci facciamo catturare dalle illusioni che permettono a tutti noi di vivere?

“Il canto si spegne / tra i fatui bagliori / di una esistenza mancata” (Il camino). Quale esistenza abbiamo già mancato o stiamo per mancare? 

Tutta la nostra esistenza è una mancanza: se non lo fosse, non avremmo voglia di completarci attraverso la scrittura, o altre esperienze più significative; quando si sperimenta la privazione e si sente il bisogno di esplorare, di tuffarsi nell’indefinito, allora la mancanza viene assorbita dal fare e forse in quel momento si può toccare l’essere, o sfiorarlo almeno.

“… nel mistico silenzio / l’ego si appanna / e tace” (La Via interiore). Come può l’uomo contemporaneo tornare a ricercare, ammesso che voglia ricercarlo, questo mistico silenzio?

L’uomo contemporaneo, tranne poche eccezioni, è assorbito dal frastuono della vita e ascolta i nuovi imbonitori che lo distraggono dalla cosa più essenziale: la conoscenza di sé; quindi parlare di mistico silenzio è una cosa ardua per l’uomo di oggi, se non impossibile. Io ho raggiunto il silenzio in poche occasioni, generalmente dopo la recitazione di un mantra, ma ti posso assicurare che è una cosa difficile e rara da realizzare, e ti dico questo perché non sono un mistico, ma comunque ci ho provato. E l’esperienza del silenzio interiore è totalizzante, ti senti assorbito nel Tutto.

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Nanni Moretti, tra etica ed estetica

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Che a Nanni Moretti non andassero a genio molte cose dell’epoca in cui vive, l’avevamo intuito da tempo. La critica alla contemporaneità (e l’autocritica) che partendo da Ecce bombo passa per Palombella rossa, Caro diario e Aprile, trova forse una piena maturità nel suo ultimo film intitolato Il sol dell’avvenire. Una critica all’etica politica, artistica, sociale; una critica all’estetica cinematografica, morale, sentimentale. Nanni Moretti, ancora una volta, parla di se stesso, usa se stesso e la sua esperienza privata e professionale per evidenziare, non senza un’immancabile dose di ironia, le parti indigeste dell’esistenza e dei difficili rapporti interpersonali, gli elementi insopportabili delle scelte altrui, le sfumature su cui molti non si soffermano per pigrizia mentale e morale. Al di là delle “larussate” sul 25 aprile, su via Rasella e sulla presunta assenza del termine “antifascismo” (o meglio, del suo significato ideologico) nella Costituzione Italiana, questo film del regista romano rimette in moto la voglia non dico di “fare politica” ma almeno di interessarsi a essa dopo un’epoca di governi multicolori e quindi amorfi, appiattiti dal punto di vista partitico, e trasformati in un “circo” mediatico senza sostanza. Ma il Nulla che tutto semplifica, persiste ancora nelle cose amate dal protagonista Giovanni: persino la violenza, nelle scene di un certo cinema contemporaneo, è stata semplificata, predigerita, de-estetizzata dalle esigenze del marketing “netflixiano”. Nelle trame dei film (anche in quelli concepiti per illustrare la storia politica), l’amore, ovvero l’individualismo, vuole a tutti i costi prevalere sulla politica, scavalcando i copioni e le rigide direttive del regista; c’è bisogno di stupire e non di far pensare: persino gli oggetti del nostro presente invadono prepotentemente la scena storica riprodotta sul set; il ricordo politico di un’epoca è costantemente minacciato dalla modernità.

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Poesie sospese, silloge seconda: “Di morte e di rinascite”

“… Questa seconda silloge, sottotitolata “Di morte e di rinascite”, è divisa in sei tempi all’apparenza slegati, sei momenti di graduale passaggio dalla sconfitta della fine alla tenace possibilità di una risalita imparando nuove strategie dal dolore, preservando il ricordo degli estinti, coltivando la speranza nell’esserci ancora, aspettando tiepide primavere.” (dalla Premessa)

La vita si celebra con altra vita, non con le parole.
Ma una vita, senza le parole, non sa di essere celebrata.

Per leggere, clicca QUI: Poesie sospese – silloge seconda

Strade diverse

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Da tempo è finito il tempo,
– cari personaggi estinti! –
dei canti d’addio intorno al feretro
come un fuoco di carne antica
e di amicizie infartuate al passato,

vi ritrovate in tarde riunioni di lacrime luttuose
più per gli anni trascurati e imbiancati
dal non chiedere di noi oltre il sembrare,

degli aneddoti ormai riti noiosi, stantii
simili a pane chiuso in ridicole galere,
non più nutriti dal fresco presente.

Eppure risuona ancora la valle di tende
vicina al fiume dei verdi cammini
del saluto notturno sussurrato a lune piene
tenendoci per mano in preghiera
anticipo sui funerali dell’autunno,

risplende dei visi roventi di brace e canzoni
danzando in cerchi già imperfetti alla vita,
delle buone intenzioni su lunghe distanze
appassite sotto un sole distratto e cattivo.

Le case sono guardiani

il corridoio

Le case sono guardiani
di aliti impermanenti,
testimoni muti e fedeli
come i vuoti corridoi di Scola
le sue famiglie e i passaggi
di generazione in estinzione,

lì sopravvivono antiche passioni
per dirsi ancora vivi negli anni
e foto che non rispondono
al matto saluto di ritorno da fughe.

Vegliate, anime non liberate!
sui rimorsi per uno stolto esistere
sulle stanze silenti di vite passate
sul ricordo di voci, le vostre, che non tornano
sul nostro andare sconsolato e testardo.

(immagine tratta dal film “La famiglia” di Ettore Scola – 1987)

Partenze e arrivi

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La campana delle stimmate
scandisce per vecchi e bambini
le ore alla speranza,
un suono familiare di quartiere
richiama le genti alla storia
al tempo che passa, vivendo.

È un sacro inseguirsi negli anni
tra i vuoti che lasciano e nuovi pieni
tra partenze e arrivi in stazioni esistenziali
ignote nascite a vendetta
di vicine morti private,

ho sentito lieve
provenire notturno
– portato dal gelido respiro della merla –
un vagito inedito, senza nome
sbattezzato al mio affetto
da sotto la stanza chiusa
del tuo addio immacolato.

Aspettando l’estate

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Attendo il tepore nell’andare lontano dal gelo
di morte, i primi veri respiri liberi su strade ferrate
verso la città che da sempre guarisce ferite
invernali, troppo aperte per non brillare al sole,

ma non dimentico le foglie cadute senza dolore
le lacrime che insegnano i modi della speranza
gli autunni amati e la pioggia di cieche parole.
Non lascio indietro quel che sono stato.

“Aspettando l’estate”, Franco Battiato

Bevo per ricordare

Contro la stupida e stigmatizzante etichettatura del vino ipotizzata dall’Unione Europea

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Dai profondi cunicoli dell’inconscio
insufflate dai fumi della regressione
risalgono come ebbre mongolfiere colorate
i ricordi di zone dimenticate della storia
di inespresse soluzioni crepuscolari.

Sfuggo agli stili convenzionali del mio tempo
rimuovo gli ostacoli della ragione e mi autoriparo
riplasmo lo schema comportamentale ereditato
gettando zavorre dottrinali e assiomi mentali,
schiavo di una comoda amnesia sociale
ricostruisco le strutture inadatte
alterando la percezione di valori accettati.

La resistenza a disimparare
si dissolve dinanzi al dolce assedio neurale
di un boccale schiumoso,
profeta alcolico di eretiche novità.

(tratta dalla raccolta “Nessuno nasce pulito”, ed. nugae 2.0 – 2016)

(ph M.Nigro©2023)

Nota a “Cartoline degli addii” di Alessandro Cartoni

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Non esistono vite perfette, sincroniche, prive di rimorsi o ripensamenti anche dolorosi; molte, invece, sono le vite vissute da persone che pur amandosi hanno sperimentato la distrazione, l’incomprensione (“l’incalzare delle cose / che non furono capite”), la nevrosi e l’egoismo, l’errore umano e i doveri mancati (“e pensi ai pensieri e alle omissioni”), la trascuratezza e la lontananza emotiva, l’inciampo nella propria stupidità (“se penso allo spreco stupido / di quello che andava salvato”). Così come non esiste una sola tipologia di addio: ci sono gli addii in vitam tra individui che continueranno a esistere altrove, separatamente, respirando altra aria, guardando altri panorami e volti; addii il cui dolore (al netto dell’eventuale disamore che li ha caratterizzati) è contaminato sempre da una sottile speranza basata sulla consapevolezza materiale dell’esserci comunque, sulla coltivazione di fantasie riguardanti ritorni fisici, tangibili, di incontri casuali che capitano a chi ancora calpesta la terra di questo pianeta. E poi ci sono gli addii irreversibili “a cui non ci si abitua”, inesorabili, mortali (“gli addii doloranti”): in quel caso il dolore – non meno forte – è però più rassegnato, educato alla scuola dell’umana finitezza senza ritorni e che è legge indiscutibile, alla visione di un abisso che non contempla alcuna speranza ma solo ferree soluzioni da deglutire senza edulcoranti e da cercare in altre dimensioni, in un’altra gamma di appigli non illusori, metafisici, spiritualistici, ancora basati sulla concretezza del lascito. Non si tratta di semplici ricordi che “fanno i loro banchetti”, bensì di un ripercorrersi reale, al limite del materialistico, un riviversi sulla scena in compagnia della parte mancante che è ancora in un certo qual modo presente, incidente nella quotidianità.

Nella raccolta poetica Cartoline degli addii (Fallone Editore, 2022), Alessandro Cartoni registra, descrive e archivia – forse con finalità (auto)terapeutiche e non solo per omaggiare la memoria della persona amata, fuggita o estinta – questo processo di lenta rarefazione della traccia mnemonica (“… il pensiero di te torna […] / a portarmi il tuo volto / sempre più lontano / sempre più evanescente…”), di inevitabile interruzione e allontanamento dalla quotidianità condivisa, di una rimandata separazione dagli oggetti che tuttavia non diluisce il sapore vagamente “escatologico” di certe domande: “Dove vanno gli aloni? I pezzi / di esistenza?”. E lo fa con un linguaggio chiaro, diretto, urgente, non sofisticato, senza fronzoli metrici per occultare un grido di dolore che deve restare pacato, ben strutturato ma genuino, accessibile a ogni essere pensante di passaggio che leggendo si riconosca in quell’esperienza atroce e al tempo stesso talmente umana, “normale”, diffusa, da risultare indescrivibile con parole più originali, nuove, diverse da quelle dell’umanità che da sempre – da quando ha consapevolezza dell’essere sapiens – si confronta con l’abbandono, con la morte e i vuoti che provocano.

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Pompei (1971-2023)

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Guidato da passi sapienti, ripercorro strade rimosse
di una vita passata, un abbozzo sospeso
embrione di quello che non fu
ricordi inossidabili impolverati di tempo
frammenti di memorie
non del tutto seppellite
dagli attacchi del presente.
Ipotizzo per gioco esistenze parallele
potenziali, non espresse
un altro possibile me
cammina al fianco dell’uomo di oggi.

Vorrei salire le scale primordiali
bussare alla porta dell’imprinting
entrare in quella prima casa
abitata da generazioni estranee.

L’istinto incalza e mi lascio distrarre
da spensierati locali al neon,
lì dove acerbi mescitori
scimmiottano in abiti moderni
culinarie vestigia romane.

(tratta dalla raccolta “Nessuno nasce pulito”, ed. nugae 2.0 – 2016)

(ph M.Nigro©2023, Pompei 4 gennaio)

Chini sull’abisso

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Chini sull’abisso, increduli e vivi
cerchiamo voci senza ritorno
in stanze vuote, colme d’infinito
dove latita il senso, persa è la chiave
del nostro essere qui, non più figli
se non di Dio.

Si aggrappa a un chiaro lascito
a una fede nella presenza a venire
quel che sopravvive in noi,
ai ricordi sparpagliati nella mente
agli oggetti che pungono il cuore
a una vaga volontà di andare oltre
di ricominciare senza un’origine
svuotati, senza meta ormai,
senza più storia alle spalle
senza terra sotto i piedi
senza un faro silente e forte
in questo mare triste
che è ancora vita.

a mia madre

(ph M.Nigro©2022)

Asciugare il gesto

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Asciugare il gesto,
separare la pula dell’inutile
dall’azione che resta
nella storia non studiata
nell’impronta del rivisto

dannato è il tempo passato
dello sciabolare al vento
della vana lotta con armi alla moda
del ridicolo tagliarsi le mani
con vetri di rabbia sembrata giusta

beato nell’oblio del non riflettersi
cercarsi nel solo eterno presente
che tutto perdona e archivia,
condannato a non ripetersi
è il destino del saggio,
la rivolta che non incide
carcame su cui scivola.

(immagine: Movimenti e danze sacre di Georges Ivanovič Gurdjieff,

fotografia su danza, 5° esercizio obbligatorio; FONTE)