“Viaggio in Israele” nell’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano

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Dopo alcuni anni di lavorazione, come annunciatomi in una mail del 2021 dalla curatrice Cristina Cangi, il mio diario odeporico “Viaggio in Israele” (rieditato nel 2020) risulta ufficialmente catalogato tra i diari accolti dall’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano (AR) ideato dallo scrittore e giornalista Saverio Tutino. Online è presente solo la scheda relativa al diario donato alla Fondazione, in quanto il materiale è consultabile solo in sede; come specificato da Cristina Cangi nella summenzionata mail: <<… Online nel nostro sito e più precisamente nel nostro catalogo https://catalogo.archiviodiari.it/ sarà inserita la scheda. Il materiale dell’Archivio si può consultare solo in sede. L’Archivio diaristico sta realizzando una piattaforma online per ospitare tutti i 9000 diari che abbiamo raccolto in questi trentasette anni di attività […]. Ci teniamo a specificare che quando il progetto sarà ultimato i diari saranno fruibili online solo dietro consenso dei proprietari, i diari non autorizzati continueranno a essere fruibili solo in sede…>>

Per accedere alla scheda: clicca QUI!

Recentemente è stata dedicata all’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano anche una puntata del programma “Generazione bellezza”… Per rivederla, clicca QUI!

Le cose che siamo stati

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(Cedi la strada all’orogenesi)*

Camperò di rendita
su parole già spese,
non sarà docile
il confronto tra personaggi,
quelli indossati negli anni sospesi
e i dimenticati per sopravvivere.

Quante cose siamo stati
quante tentato di essere
e che peso ha oggi la piccola storia
la stratigrafia dei fatti preziosi
il bagaglio del viaggiatore
l’orogenesi da antiche esperienze
come rocce affilate in autunno,
tagliano nastri al traguardo
di seconde giovinezze inedite.

Le maschere indossate per copione
diventano una all’imbrunire,
è clemente la sera in provincia
non fa più domande scomode
sui cadaveri lasciati dietro il passo
sui luoghi visitati per errore
sui ritorni senza vittoria
sul giudizio degli estinti
seppellito dall’incuria del presente.

* sottotitolo “scherzoso” e ironico nato dall’interazione con i primi commentatori sui social… parafrasando il noto titolo di una fortuita raccolta.

(foto dal web)

“Poesie sospese”, silloge terza

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“… poesiole, ricordi, esortazioni, esibizionismi, scherzose invettive, di sicuro poesiacce, donate a chi non può permettersi di giocare con le parole, di pagarle in prima persona, di viverle sulla propria pelle. […] Questa terza e ultima silloge della serie sospesa, sottotitolata “nuovi materiali per un futuro incerto”, in omaggio alla prima serie, è divisa in quindici tempi, quindici momenti eterogenei e di diversa ispirazione che vanno a chiudere un’esperienza di necessaria gratuità non richiesta. Non abbiamo dati sicuri sul domani, e forse è proprio da questo costante stato di precarietà che nasce la parola più libera, a volte la poesia più vera anche se meno bella…” (dalla Premessa)

PER LEGGERLA: clicca QUI!

E il giorno della fine non ti servirà la laurea

versione pdf: E il giorno della fine non ti servirà la laurea

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E il giorno della fine non ti servirà la laurea 

Tempo fa risposi alle domande di un questionario proposto a più persone da una studentessa (il cui nome per questioni di privacy ovviamente non mi è possibile rivelare) in procinto di preparare una tesi di laurea sul periodo sperimentale del cantautore Franco Battiato e sul mio rapporto con lo stesso in qualità di ascoltatore/estimatore di lungo corso. Il titolo dell’intervista sopra riportato, parafrasi di un verso di un brano di Battiato, è di mia invenzione e non riguarda la tesi di laurea dell’intervistatrice e tesista. 

Esperienza con Franco Battiato

(Intervistatrice/tesista) Da quanto tempo ascolti la musica di Franco Battiato?

(Michele Nigro) Dalla fine degli anni ’70. Ma più consapevolmente dall’inizio degli ’80.

Qual è il tuo album o periodo preferito di Franco Battiato tra quelli che spaziano dall’avanguardia elettronica al pop e alla musica classica? (Se ne hai uno)

Premesso che secondo me ‘tutta’ la produzione artistica di Battiato è stata sperimentale se confrontata con il cantautorato “standard” dell’epoca, e anche dopo, posso affermare che ho amato e amo in particolare il periodo pop ovvero quello durante il quale Battiato veicolò tematiche lontane dalla cultura di massa grazie a una musicalità non più d’avanguardia, di nicchia, ma accessibile a quasi tutti gli ascoltatori.

Come hai vissuto il passaggio di Franco Battiato da un genere all’altro durante la sua carriera? Hai preferenze per uno stile musicale specifico tra quelli sperimentati dall’artista?

Non mi sono mai lasciato influenzare dai cambi di rotta del Maestro: ho ancora oggi difficoltà a collocare i singoli brani nei vari album, anche cronologicamente, perché seguo una lettura trasversale di tipo tematico e non in base al genere o al periodo, pur distinguendone ovviamente le diversità. Torno a ripetere: il pop, anche quello più tendente allo sperimentalismo, ha rappresentato a mio avviso lo stile più vincente dal punto di vista comunicativo.

Qual è la canzone di Franco Battiato che senti rappresenti meglio il suo sperimentalismo musicale? Perché?

Credo che “L’era del cinghiale bianco” (che dà il nome anche all’album che lo contiene) sia il brano da cui tutto è scaturito, il primum movens. Non solo perché segna il passaggio discografico dallo sperimentalismo al pop, ma per gli accostamenti strumentali (ad es. violino con batteria e chitarra elettrica) che caratterizzeranno in seguito una convivenza tra diversità anche su altri livelli…

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Personaggio: FRANCO BATTIATO

Hai mai assistito ad un concerto di Franco Battiato? Se sì puoi elencare quali.

Sì, a molti. Il primissimo fu subito dopo il terremoto dell’80 in Irpinia: venne a suonare in provincia di Potenza, a Ruoti per essere precisi, con la formazione dell’epoca (Pio, Destrieri, ecc.). Ero piccolo: fu una rivelazione che tuttavia “esplose” in seguito, nella maturità. Dopo c’è stato un certo periodo di lontananza: mancai ad alcuni suoi tour, per poi riprendere a seguirlo fino alla fine. Di concerti ne ricordo uno in particolare di piazza – gratuito – ad Anagni per i 700 anni dallo schiaffo di Anagni, il 7 settembre 2003. Fu memorabile… Poi c’è stato (vado in ordine sparso spulciando tra i biglietti conservati) l’Apriti Sesamo Live (Auditorium Conciliazione Roma 2013), a Ercolano nel 2011, all’Arena del mare a Salerno nel 2013, Franco Battiato e Alice nel 2016 a Roma (Auditorium Conciliazione), all’Ippodromo delle Capannelle Roma 2011, Fleurs Tour a Napoli nel 2002… Impossibile ricordarli tutti; molti furono anche concerti di piazza o di fine anno sempre in piazza (uno tra tutti un 31 dicembre a Salerno); sempre tra quelli di piazza ne ricordo uno ad Avellino (non ricordo l’anno) in cui, stando sotto il palco, ammirai un Battiato in piena forma che suonava la sua chitarra elettrica (come poi non avrebbe più fatto rientrando in una veste più classica e sobria: per capirci, il Battiato che cantava seduto tranquillo sul tappeto)… L’ultimo a cui ho assistito, prima di quelli in cui cadde rovinosamente, è stato a Napoli in piazza Plebiscito: era già un Battiato “distratto”, disinteressato a ricordare i testi, direi “etereo”, dalla voce insicura e debole, diretto ormai verso un suo mondo interiore da cui non sarebbe più riemerso.

Hai mai avuto la possibilità di interagire con Franco Battiato? Se sì racconta l’esperienza.

Non l’ho mai inseguito per un selfie, per costringerlo a un dialogo, per esprimergli pensieri profondi, come molti suoi estimatori più coraggiosi e sfacciati di me hanno fatto nel corso degli anni… L’ho avvicinato solo una volta per avere un suo autografo sul libro “Attraversando il bardo” abbinato all’omonimo documentario in dvd. L’occasione si presentò in Cilento (Campania) nel 2015 durante un pubblico dialogo tra lui e Ruggero Cappuccio; ti allego il link all’evento.

Cosa rappresenta per te Franco Battiato? Quali emozioni o pensieri evoca nella tua mente?

Pur essendo stata una presenza virtuale, distante, per i motivi che ho già illustrato nella risposta precedente (non ho mai amato “pedinare” i personaggi famosi, amo di più la casualità degli incontri), Battiato è stato per me una guida spirituale, un Maestro, un “padre”, un ricercatore puro, ma prim’ancora è stato un colto indicatore di percorsi geografici e interiori, un istigatore a ricerche “altre”… In alcuni periodi della mia vita è stato anche un ottimo “antidepressivo” perché mi ha offerto un punto di vista alternativo, sollevandomi da certi “sbalzi d’umore”…

Perché secondo te è importante parlare di Franco Battiato oggi?

Perché, senza preoccuparmi di esagerare, posso dire che Battiato farà parte della “musica classica” del futuro; non è importante parlarne perché scomparso e quindi per tenere accesa la luce sul suo operato: non ha bisogno di questo tipo di agevolazioni perché a volte mi capita di sorprendere giovanissimi ascoltarlo in piena autonomia. Quindi c’è speranza per il domani. Credo sia importante parlare di lui oggi affinché le tematiche culturali, spirituali, veicolate dalla sua musica, restino sempre tra le priorità di chi compie un certo tipo di ricerca su se stesso e sul mondo.

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Nello scenario italiano chi era Battiato per te e per l’opinione pubblica? C’era già una consapevolezza, diffusa o individuale, che si stava assistendo ad una vera e propria avanguardia musicale?

I più attenti musicalmente hanno subito captato il cambio di passo e l’hanno continuato a seguire in quel senso. Lego i suoi primi brani pop a epoche fanciullesche della mia vita, quindi Battiato è entrato a far parte di un substrato culturale di stampo popolare e oggi mi è difficile scindere quell’esordio dal mio vissuto: la consapevolezza su “basi scientifiche”, almeno per me, è giunta forse dopo, leggendo libri su di lui, andando a spulciare sue indicazioni al di là dei motivi musicali ma “analizzando” direttamente i testi. Temo che per altri, invece, questa consapevolezza non sia mai arrivata: Battiato per alcuni resta inaccessibile e indecifrabile, quindi ci si limita a citarlo decontestualizzando alcuni stralci dei suoi testi solo per far vedere di conoscere qualche suo ritornello. Questa consapevolezza è stata ritardata appositamente dallo stesso Battiato, credo, proprio perché scelse di utilizzare un veicolo pop: solo chi si è soffermato sulla sua opera andando al di là dei ritornelli ballabili, è riuscito forse a cogliere l’intento avanguardistico di Battiato anche da un punto di vista filosofico e spirituale.

Adesso prova delle sensazioni diverse quando ascolta i dischi di Battiato rispetto alla prima volta?

No, devo dire che alcuni brani che avrò ascoltato forse migliaia di volte non mi stancano mai e conservano una “freschezza rinnovabile” che non ho saputo riscontrare in altri cantautori. Anzi, il riascolto serve a scoprire nuove angolazioni sonore che erano state trascurate. Se invece vogliamo riferirci al riascolto all’indomani della sua dipartita da questo pianeta, allora tiriamo in ballo sensazioni che non si limitano alla nostalgia e alla malinconia, ma si caricano di una responsabilità maggiore perché si è consapevoli di riascoltare un cantautore che non vedremo mai più dal vivo e che non uscirà mai più con un suo nuovo album di inediti (nonostante l’intelligenza artificiale ci aiuti a sfornare ancora oggi brani dei Beatles raschiati da fondi discografici!)

In riferimento al tema della politicizzazione: com’era considerato Battiato rispetto agli altri cantautori dell’epoca?

La politicizzazione della ricerca musicale di Battiato è stato sempre un fenomeno che mi ha divertito; Battiato è stato “strattonato” dalla destra e dalla sinistra, un po’ come è successo a Tolkien, conteso dai neofascisti dei campi Hobbit e dal panecologismo hippie… Battiato ha sempre volato al di sopra di ogni catalogazione politica e si è occupato di cose alte e altre, nonostante si dica sempre che “tutto è politico!”. Chiaramente alcune prese di posizione, durante certi periodi storico-politici del paese, lo hanno collocato automaticamente in una precisa fascia: basti pensare a brani come “Povera patria” e ad alcune accuse certamente non velate contenute nell’album “Inneres auge”. Se c’è stata politicizzazione, è stata indiretta; a differenza di altri cantautori  ̶  come De Gregori, Venditti, De André, Claudio Lolli, Guccini… ̶  schierati politicamente in maniera più evidente, Battiato ha cercato, prim’ancora di accodarsi a un’ideologia partitica interessata a proporre un sistema politico in grado di cambiare la società, di modificare il proprio mondo, quello individuale, interiore. Battiato non giudicava la politica in sé ma le variegate (e molto spesso discutibili) tipologie umane che vi si affacciavano per coltivare interessi privati. Durante la sua unica esperienza politica presso la Regione Sicilia, qualcuno scherzosamente lo definì “assessore alle meccaniche celesti”: epiteto che a lui piacque moltissimo e che trovò divertente. Non esitò un solo istante a lasciare l’incarico quando si accorse (come forse aveva già previsto) che stava diventando un “gioco” estraneo alle sue corde.

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Quando ti sei reso conto della potenza della musica di Franco Battiato?

Quando sono stato male e ho sentito che la sua musica mi ha risollevato indicandomi percorsi interiori alternativi…

Considerando la lunga carriera del cantautore, considerando la variegatura nei temi e nei modi, come si è evoluto il tuo rapporto con l’artista?

La parte iniziale e centrale della sua carriera è stata, ma non solo per me, sicuramente la più interessante; anche i suoi ultimi lavori sono stati degni di nota ma già rappresentavano un “testamento” (citando il titolo di un suo brano), una exit strategy non solo esistenziale ma anche artistica… Spesso ho criticato l’eccesso di antologie sfornate dai suoi produttori per battere cassa: ho apprezzato di più il Battiato di quando aveva il pieno controllo della sua produzione. Salvo questi particolari ininfluenti posso dire che il mio rapporto con Battiato è stato sempre di forte curiosità e di affetto: ogni uscita di inediti era una sfida, uno studio, un confronto con altri estimatori… L’uscita di un suo album non lo vivevo come un appuntamento discografico e basta: era la voce di un amico che mi raggiungeva con parole nuove, di una guida che mi proponeva nuove vie da percorrere, che mi dava nuovi impliciti consigli di vita…

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Brodo primordiale

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I vecchi odori congelati
– eredità del professore –
diventano brodo d’autunno,
nell’acqua calda di dado
borbottano aneddoti colati
attendono pastine serali
riso al dente o tortellini

anche le farine scadute
invidiose del sedano a mollo
si fanno largo senza lievito madre
negli antri infernali del nero forno,
aspirano a essere panini poco cresciuti
molliche di tempo e speranza
per ritrovare la dimora del senso.

Si inciampa in rimasugli
di vite passate, resti di noi
di cibi per l’anima dei ricordi
stanchi riverberi casalinghi
di presenze ormai eterne.

È un riciclo di cose umane
quotidiane, sparpagliate in giro,
sussurrano usi differenziati
riesumazioni d’ufficio
per sentirsi ancora utili
alla causa della resurrezione.

Torneranno i duelli all’alba

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Torneranno i duelli all’alba
i racconti per fuochi che scottano
le cortine, sì, ma di plastica
le fredde guerre da riscaldare
le crociate per liberare Hollywood dall’A.I.
i selgiuchidi alle porte di Vienna,
[solo per fotografarla.

Torneranno gli imperi e le spie
i sicari da stiletto e i sigari cubani
le crisi dei missili sulla Luna indiana
il Generale Inverno, quello percepito
i dagherrotipi su lastre di rame rubato dai rumeni
i D’Annunzio a declamar poesie nei sexy shop
gli Anni Venti ma senza ruggire
le campagne elettorali porta a porta
la moda delle epidemie e delle epifanie.

Torneremo noi, morti di lavoro e sul lavoro
di Domenica in pasticceria dopo la messa
sotto mentite sfoglie surgelate
a rivangare gli anni ottanta
Rocky, Rambo e Reagan a recitare accordi di pace
e la mummia di Ho Chi Minh sul treno di Kim Jong-un
[per un tour tra le dittature più in voga,

tornerete voi, camminando distratti
seguendo bianche luci di smartphone
come lucciole povere del petrolio
come tortore sull’antenna tivvú
a disturbare derby e film osé,

si rifaranno vivi i ducetti e le patrie
la space opera e le ricette di Tognazzi,
ritorneremo sul nostro satellite in diretta social
e lasceremo lì a morire di scienza un negazionista
per rappresaglia contro la cancel culture.

Dalle foto nel sacrario gli estinti
ci guardano attoniti, ma in bianco e nero.
Saremo come voi, siamo già voi, a colori
fotocopie testarde, affezionate al ciclo degli errori
preghiamo stanchi dèi del crepuscolo
sull’orlo del solito dirupo.

“Rocky, Rambo e Sting” – Antonello Venditti

(ph M.Nigro©2023)

versione pdf: Torneranno i duelli all’alba

Si sfaldano le genti passate

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Si sfaldano le genti passate
l’eco delle loro voci
in memorie di vacue gesta
come tempi vissuti per niente,

corpi canuti, slegati, morenti.
Forze ormai deboli, non più
aggregano le intenzioni,
estranei a se stessi
su spalti domenicali, spirano
tra un mea culpa e l’omelia

mancano le densità sperate
nel mezzo di autunni assolati, solitari
e legami dissolti, votati alla resa,

riverbero di vite lasciate cadere
all’imbrunire delle scelte.

Gechi

Gechi aggrappati alla facciata
di chiese cotte dal sole
si rincorrono in giochi verticali
senza tema di cascare sul sagrato
durante la transustanziazione.
E lungo i campanili all’imbrunire
si inerpica sicuro il geco campanaro,
cerca la giusta nota nel battere serale
dell’umano metallo al borgo intorno.
Essere uno di loro, un equilibrio di code
agile avventato e con ventose infallibili
scalatore di alture cittadine non comprese
prima di gloriose morti
trascurate dall’universo.

C’è un odore nella casa, si perde nel tempo,
rintraccia nei blandi ricordi
dimenticate essenze in disuso
storie mai del tutto scomparse,

è odore di quel che sei
da sempre, impregnate mura
da chi non ritorna
per futuri da lasciare liberi.

Sono quieti i movimenti
di chi vive nella contea,
come i pensieri della sera
rimasticati all’infinito.
Le urgenze del mondo
i suoi soliti guai con cambi di forma
non raggiungono il gesto abituale
dell’uomo calmo che torna dalla terra.
È questione di dove sono posizionati
gli elettroni intorno al nucleo,

quelli periferici sono lenti,
solo spostandoli verso il centro dell’inutile esserci
si agitano, velocizzano la rotazione
inseguono come falene le luci dei bar
per dimenticarsi della fine.

Nota a “A un ricordo da te” di Selene Pascasi

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Nel capitolo intitolato “Il cervello di mio padre” (dalla raccolta di saggi “Come stare soli”, Einaudi 2003), lo scrittore americano Jonathan Franzen scrive: “… riesco a vedere la mia riluttanza ad applicare il termine ‘Alzheimer’ a mio padre come un modo per proteggere la specificità di Earl Franzen dalla genericità di una malattia nominabile. […] E, laddove dovrei riconoscere che, sì, il cervello è un pezzo di carne, sembro invece conservare un punto cieco nel quale inserisco storie che enfatizzano gli aspetti dell’io legati all’anima.” Le nostre personalità non sono degli “insiemi circoscritti di coordinate neurochimiche. Chi vorrebbe vedere la storia della propria vita in questo modo?”. Eppure di questo mondo senza memoria e in preda alla cancel culture, in cui sono i social a ricordarci sulle loro timeline cosa abbiamo fatto o detto cinque anni fa o frange di negazionisti mettono in discussione fatti storici innegabili, l’Alzheimer sembrerebbe rappresentarne la sarcastica nemesi.

Ribellandosi alla convinzione di essere fatti di sola biologia, Franzen, affidandosi a Platone, rispolvera con urgenza il concetto di scrittura come la “stampella della memoria”, esaltando la solidità e attendibilità delle parole sulla carta, confermando il desiderio di registrare le storie in maniera indelebile, di annotarle con parole permanenti. Può la poesia svolgere questa funzione anche se in maniera diversa?

Nella silloge A un ricordo da te (Scrivere Poesia Edizioni di Pietro Fratta, 2022), Selene Pascasi non persegue obiettivi storici o biografici; con versi delicati e lapidari, congela preziosi sprazzi di vita privata, deposita attimi irripetibili e drammatici, prepara le carte per annotare “i racconti che svaniranno” o salvare il salvabile, importante per l’anima, “prima che l’infinito / ci avvolga”, costruisce ponti tibetani tra il passato della persona cara assistita durante il declino (la “stagione lenta d’oblio”) e il suo doloroso presente che tanto somiglia a quello di un’anima mai nata (“Analfabeti di storie. / Andiamo via restando.”). Si sobbarca “fardelli di passato”, esamina la bizzarra sospensione di chi pur morendo interiormente continua a vivere in “ergastoli coscienti”, e al contempo esamina se stessa mentre attende “invano un cenno”, le proprie reazioni all’involuzione di chi ama; la scrittura poetica è cronaca privata, sussurrata e mai debordante, che in un certo modo vendica l’assenza neurologica dell’altro fissando per entrambi (per “quell’ultimo noi”) frammenti esistenziali che altrimenti andrebbero perduti.

Continua a leggere “Nota a “A un ricordo da te” di Selene Pascasi”

Vecchia guardia

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Semplice come la tua acqua tonica,
dietro un cortese sorriso offerto a tutti
le rughe interne di mille dolori e silenziose fatiche
tra untuose e ruspanti cucine in ristoranti d’amore
organetti odoranti di prosciutto e vino
le bande di paese e i nipoti da allevare.
Le passeggiate nelle sere d’agosto
e i maglioncini per le spalle se rinfresca
immense le insalate verdi, che fanno bene.

Hai lasciato il posto di guardia, liberi tutti.
Ma per andare dove?
Ti sei reincarnata – lo so! – nel legno stagionato ed eterno
di un vecchio portone strappato all’incuria
inspiegabile e puntuale alchimia tra anime e oggetti
il nostro cognome sulla lucente targhetta nuova
per un ricordo gettato nel traffico
da donare a quel che resta del piccolo mondo antico
dimenticato, diluito, sbiadito,
e la prima distratta estate senza te.

(ph M.Nigro©2023)

(tratta dalla raccolta “Nessuno nasce pulito”, ed. nugae 2.0 – 2016)

Rodolfo Lettore legge “Au revoir”

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Non ti sbracci più dalla finestra dell’alveare
per salutare quella promessa
donata al mondo, masticata e sputata
da lontano cara minuscola figura, alle partenze
mi accompagnavi con lo sguardo, pregando
fino all’angolo della fiducia.

Ricambiavo,
poi l’ebbrezza della libera autonomia.
A quei tempi le speranze
erano reali e i sogni ancora vividi.
Ora, solo uno stanco controllare
se si è giunti vivi al giorno dopo,
il disincanto apre con rassegnazione la porta
a una prodiga presenza inflazionata.

tratta dalla raccolta “Nessuno nasce pulito” (ed. nugae 2.0 – 2016)

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Ossa parlanti

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Talking Bones

Sempre in ritardo sulla vita
sulla tabella di marcia delle scoperte essenziali,
ad ogni tramonto dell’orgoglio
le esperienze altrui interrompono una finta sapienza.

Sull’orlo dell’abisso ci sorprende
la presenza nel mondo di chi guardiamo senza vedere.
Ciechi indaffarati e disperati
scansiamo la bellezza che circonda il caos,
nuotatori sereni in un mare di nulla.

La burocrazia cimiteriale e gli archivi della civiltà
si occuperanno di noi con piglio produttivo,
i resti scarnificati, lucidati dalla misericordia
e tritati dal bisogno di spazio
saranno riciclati dalla pressione di nuovi corpi
e da manuali di polizia mortuaria freschi di stampa.

Lapidi d’ufficio e monumenti bugiardi assediati dal tempo
per combattere la dimenticanza di famiglie in estinzione
e discendenti invecchiati,
con la verità affidata a un passato che non ritorna.

Siamo ossa parlanti destinate all’oblio,
in cerca di clamori tra un respiro e l’altro.

(tratta dalla raccolta “Nessuno nasce pulito”, ed. nugae 2.0 – 2016)

(ph Cimitero delle Fontanelle, Napoli – FONTE)

Maggio

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Ho sciolto per sempre l’antico voto
sugli anni da accudire e sul tempo guardiano,
un metallico tlac! tlac! tlac! dalla strada
appuntamento vespertino di stampella vegliarda
mi ricorda puntuale la perenne assenza
la mancante origine che lascia incustoditi
il tuo non ritorno dall’altrove.

Ho una montagna di scarpe quasi nuove
per il cammino non fatto in questa vita
una scatola di foto senza nome per distratti eredi
foreste colorate di vestiti inanimati,

un rosso di sera scolpito in cieli testardi
mi consegna speranze in cui non credo più.

Prefazione a “I riflessi delle cose”, di Stefano Olmastroni

versione pdf: Prefazione a “I riflessi delle cose”, di Stefano Olmastroni

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Prefazione a I riflessi delle cose, di Stefano Olmastroni (ed. Kolibris)

L’etimologia della parola riflesso, luce che viene rinviata da una superficie brillante o diffondente, dipana l’antico dubbio tra la poesia creata da una forza ispiratrice, quasi prepotente, che scava nel profondo, e la poesia che raccoglie con semplicità, preleva dalla superficie delle cose gli echi di vite vissute. Che differenza c’è tra riflesso e ricordo? I ricordi sono prove archiviate di un’esistenza appartenente alla storia di tutti, di molti o di un singolo individuo; i riflessi rappresentano i segni ricercati nel presente, o ritrovati per caso, di un “eterno ritorno”, di un qualcosa che non è passato, messo da parte, ma è, “persiste accanto” e a volte fa paura, anche se si prova “a non fissare / i riflessi delle cose”. Tutto sarebbe più facile “se i morti ti potessero parlare”, se ci fosse un contatto diretto con il mistero della vita. Quanto è difficile arrivare al cuore delle cose, diventare estranei a se stessi per mezzo della poesia, gestire i postumi dell’amore e lo stupore sempreverde per l’“allora siamo davvero esistiti, l’uno per l’altra” o per il “se tu sia veramente esistita”, domare i riverberi di una vita passata che non ci lascia, le tracce dei protagonisti sulle cose toccate, animate nel quotidiano viversi. Sprazzi all’apparenza inconsistenti, futili, diventano materia solida, buona per costruire strutture di versi.

È un continuare a sfiorarsi e a sorprendersi nell’amare l’altro, come tra il bianco e il nero nell’Hiroshima mon amour di Alain Resnais, incontro tra diversità, vivendo “due presenti separati”, lasciando gli anelli (propri o di altre unioni) in città per essere anonimi e liberi, coltivando “visioni / che già non ci appartengono”, osservando “onde ormai passate / cancellate dal paesaggio”. C’è una geografia testimone dei vari momenti di un rapporto; l’inizio, il culmine dell’amore, il suo dispiegarsi al mondo, il diluirsi nel tempo, la sua fine: i luoghi e gli elementi naturali registrano tutto e marcano per sempre con le loro sembianze il carattere degli istanti vissuti, rispondendo “alla chiamata del tramonto”, lasciando impronte di sé come “un racconto calpestato / sulla sabbia”. E in ogni spazio terraqueo c’è un confine che separa l’asciutto dal bagnato; gli anni trascorsi a bagnarsi, a viversi, dall’asciutto da cui si osservano gli amori passati, finiti sulla riva come le onde di un lago; il sogno dalla vita reale.

Continua a leggere “Prefazione a “I riflessi delle cose”, di Stefano Olmastroni”

Intervista a Francesco Innella sulla raccolta “Kimera – Poesie dell’Io”

versione pdf: Intervista a Francesco Innella sulla raccolta “Kimera – Poesie dell’Io”

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Intervista a Francesco Innella sulla raccolta “Kimera – Poesie dell’Io”

a cura di Michele Nigro

 

Michele Nigro. Perché il titolo “Kimera – Poesie dell’Io”?

Francesco Innella. Prima di scrivere questa raccolta ho pensato di trovare il filo conduttore delle mie poesie e sono arrivato alla conclusione che il mio poetare è stato sempre una ricerca dell’Io. Nella mia poesia ho sempre investigato il ruolo del poeta nel vivere quotidiano. In base a questo principio ho selezionato le poesie contenute in Kimera, che è una aporia: nell’antica filosofia greca con questo termine si indicava l’impossibilità di dare una risposta precisa a un problema, poiché ci si trovava di fronte a due soluzioni che, per quanto opposte, sembravano entrambe valide, ossia – nel nostro caso specifico  ̶  senza soluzione dei conflitti dell’Io.

Che cos’è l’ego per l’uomo-poeta Innella? Bisogna conoscerlo per domarlo, educarlo o semplicemente assecondarlo?

Sulla mia concezione dell’ego ti rispondo con un aforisma di Cioran: “Avremmo dovuto essere dispensati dal trascinare un corpo. Bastava il fardello dell’io.” Ma che cosa è l’ego? È la lotta per mantenere un equilibrio precario tra noi e gli altri. È, in effetti, un conflitto. Conoscerlo è impossibile perché tende sempre a cambiare negli atteggiamenti quotidiani. Quindi non si può domare una cosa che muta. Dobbiamo rassegnarci, e ritornando ancora a Cioran: “Siamo costretti all’io, al veleno dell’ego”.

La tua ricerca sull’Io ha origini “antiche”. Non è la prima volta che con la tua poetica esplori e cerchi di ridimensionare l’ipertrofia dell’Io (anche adottando uno stile sobrio per dare l’esempio!), però scegli comunque la parola, strumento di quell’”effimera verbosità” che citi nella poesia Egoità, per comunicare i risultati della tua ricerca a noi lettori. Può la poesia diventare un valido esercizio di auto-eclissamento?

No, assolutamente: oggi si scrive tanto. Il fenomeno è ben evidente sulla rete perché c’è un grande bisogno di “glorificare” l’ego. Si può raggiungere una distanza dall’ego con la poesia impersonale  ̶  vedi l’haiku  ̶  ma nulla di più.

La Natura ci mette a tacere con i suoi fenomeni, ci rende umili. Perché in seguito dimentichiamo la nostra caducità e ritorniamo a essere arroganti?

Secondo me è tutta colpa dell’antropocentrismo. Concezione secondo cui tutto ciò che è nell’universo è stato creato per l’uomo e per i suoi bisogni, per cui l’uomo si viene a trovare al centro dell’universo e può considerarsi misura di tutte le cose.

La necessità dell’oblio mentre siamo ancora vivi. Perché questo bisogno di annientarsi, di eclissarsi, di perdersi, ritorna spesso nei tuoi versi?

La quiete assoluta è del mondo inorganico, di cui appunto la vita è alterazione. Allora in me prende corpo il principio del nirvana, ossia il ritorno alla quiete, quello che è in fondo il messaggio buddista, ma escludo l’autodistruzione. Il suicidio, secondo Arthur Schopenhauer, è un modo sbagliato di rispondere alle sofferenze della vita.

In Lenimento parli di “antiche presenze” che mormorano: sono ricordi personali dal passato o si tratta di catene interiori tipiche della condizione umana e quindi innate?

Sì, da una parte ci sono i ricordi personali che mi hanno segnato in maniera molto rilevante. Luca Canali, nell’antologia “I poeti della ginestra”, mi descrive come una persona che ha l’animo vulnerato per l’assedio dei suoi simili; dall’altra parte non riesco a superare le catene interiori tipiche della condizione umana, e tutte e due queste situazioni sono evidenti nel mio poetare; mi sento toccato da un’angoscia che ha origini antiche, che ho sempre avvertito e che non si dilegua ma continua nel tempo a sussistere; è una ferita interiore che non guarisce.

Il dolore è solo un’esperienza che causa tristezza o può rivelarsi fonte di energie preziose inutilizzate e da rimettere in gioco per costruire il bene?

Oggi si usa molto la parola resilienza che in psicologia indica la capacità di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà. Io credo che il dolore favorisca la crescita: Aldo Carotenuto, psicoanalista junghiano, ha sempre parlato della ferita interiore come di una feritoia dalla quale osservare il dolore e iniziare il suo superamento e trasformarlo in bene dal momento in cui si è giunti alla consapevolezza della propria dolorosa  condizione.

In La luna “uomini in torri d’avorio / sognano illusioni”; forse sono gli stessi esseri umani che come noi percorrono “le strade del nulla” citate nella poesia I gatti. Quali sono queste illusioni e cosa potrebbe contribuire alla nostra liberazione da esse?

Carlo Michelstaedter sostiene che ognuno di noi non riesce a uscire dal cerchio illusorio della vita, ci rinchiudiamo nelle nostre torri d’avorio e scriviamo poesie, siamo noi stessi che coltiviamo la poesia come rimedio al vuoto: io sono poeta perché ho sperimentato il nulla e le sue numerose strade. Difficile definire le illusioni, sono molteplici: ogni essere umano ha le proprie ed è difficile liberarsi da esse; forse, come dice Krishnamurti, dovremmo avere il coraggio di eliminarle e avvertire il vuoto che si nasconde dietro di loro, ma poi si ha il coraggio di affrontare il vuoto? O ci spaventiamo e ci facciamo catturare dalle illusioni che permettono a tutti noi di vivere?

“Il canto si spegne / tra i fatui bagliori / di una esistenza mancata” (Il camino). Quale esistenza abbiamo già mancato o stiamo per mancare? 

Tutta la nostra esistenza è una mancanza: se non lo fosse, non avremmo voglia di completarci attraverso la scrittura, o altre esperienze più significative; quando si sperimenta la privazione e si sente il bisogno di esplorare, di tuffarsi nell’indefinito, allora la mancanza viene assorbita dal fare e forse in quel momento si può toccare l’essere, o sfiorarlo almeno.

“… nel mistico silenzio / l’ego si appanna / e tace” (La Via interiore). Come può l’uomo contemporaneo tornare a ricercare, ammesso che voglia ricercarlo, questo mistico silenzio?

L’uomo contemporaneo, tranne poche eccezioni, è assorbito dal frastuono della vita e ascolta i nuovi imbonitori che lo distraggono dalla cosa più essenziale: la conoscenza di sé; quindi parlare di mistico silenzio è una cosa ardua per l’uomo di oggi, se non impossibile. Io ho raggiunto il silenzio in poche occasioni, generalmente dopo la recitazione di un mantra, ma ti posso assicurare che è una cosa difficile e rara da realizzare, e ti dico questo perché non sono un mistico, ma comunque ci ho provato. E l’esperienza del silenzio interiore è totalizzante, ti senti assorbito nel Tutto.

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