“Poesie sospese”, silloge terza

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“… poesiole, ricordi, esortazioni, esibizionismi, scherzose invettive, di sicuro poesiacce, donate a chi non può permettersi di giocare con le parole, di pagarle in prima persona, di viverle sulla propria pelle. […] Questa terza e ultima silloge della serie sospesa, sottotitolata “nuovi materiali per un futuro incerto”, in omaggio alla prima serie, è divisa in quindici tempi, quindici momenti eterogenei e di diversa ispirazione che vanno a chiudere un’esperienza di necessaria gratuità non richiesta. Non abbiamo dati sicuri sul domani, e forse è proprio da questo costante stato di precarietà che nasce la parola più libera, a volte la poesia più vera anche se meno bella…” (dalla Premessa)

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Nota a “La comunità dei viventi” di Idolo Hoxhvogli

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È una prosa intransigente quella adoperata da Idolo Hoxhvogli ne La comunità dei viventi (Clinamen ed., 2023); una sorta di piccola “bibbia” apocrifa e moderna concepita per la liberazione dei viventi contemporanei dalla matrix che li tiene prigionieri. Una “bibbia” laica che descrive un’apocalisse già in atto e non profetizzata.

È importante ricordare che l’umanità è costituita di viventi e che vivere non significa solo respirare, riprodursi, nutrirsi, produrre ricchezza, pagare le tasse a Cesare, ma è o dovrebbe essere soprattutto coltivare un più intimo rapporto con il trascendente, con quell’invisibile in cui l’essenza, e quindi il significato intangibile del nostro esserci, è da sempre diluita. Una scrittura dotta fatta di affermazioni lapidarie, di verità scolpite, che non pone domande dirette, ma rivela senza chiedere o fornire spiegazioni alternative.

Forte è la critica al modus vivendi dell’uomo contemporaneo, alle sue convinzioni false e superficiali, al suo pavido adattamento al sistema; altrettanto deciso è l’invito a ritornare a un ipotetico punto zero della creazione, quando le cose e gli esseri animati non avevano nomi o recinti fatti di significanti (o codificazioni). Paragrafi autonomi che scavano in tutti gli aspetti indagabili dell’umano vivere, criticando la presuntuosa testardaggine del nostro disobbedire a Dio ignorandone le leggi che hanno un fondamento eterno e non adattabile alle epoche. C’è bisogno di una nuova radicalità spirituale che liberi Dio dalla comoda antropizzazione a cui è stato sottoposto nei secoli, di eviscerare i meccanismi più intimi di strutture ormai date per scontate, di denudare il potere e i suoi personaggi; c’è necessità di scardinare le false sicurezze della tecnologia che tutto livella e svilisce in nome di finte democrazie, di smascherare il protezionismo dei governi che è anticamera di un controllo sulle varie fasi del vivere (nascita, morte, sessualità, fede, impiego del tempo, movimento nello spazio…).

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Rodolfo Lettore legge “Au revoir”

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Non ti sbracci più dalla finestra dell’alveare
per salutare quella promessa
donata al mondo, masticata e sputata
da lontano cara minuscola figura, alle partenze
mi accompagnavi con lo sguardo, pregando
fino all’angolo della fiducia.

Ricambiavo,
poi l’ebbrezza della libera autonomia.
A quei tempi le speranze
erano reali e i sogni ancora vividi.
Ora, solo uno stanco controllare
se si è giunti vivi al giorno dopo,
il disincanto apre con rassegnazione la porta
a una prodiga presenza inflazionata.

tratta dalla raccolta “Nessuno nasce pulito” (ed. nugae 2.0 – 2016)

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Fellini e l’elogio alla pagina bianca

versione pdf: Fellini e l’elogio alla pagina bianca

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In un sistema produttivistico che obbliga a un efficientismo artistico, il giorno libero dal set, il buio delle idee, la pagina bianca, la confusione mentale ed esistenziale, l’ozio non creativo, rappresentano una salvifica benedizione, sono gli elementi di uno stato di grazia che se inizialmente deprimono e abbattono la voglia di fare dell’artista, in seguito rivelano la loro necessaria funzione risanatrice, di pausa dal mondo, di punto di vista alternativo. E se fosse la fine delle idee, dell’entusiasmo, dell’energia vitale? Se questa depressione ipocondriaca che prende il posto del successo fosse una nuova e permanente condizione interiore da accettare e fare propria? Le domande si fanno insistenti così come le richieste dall’ambiente a cui si appartiene; la lacune esistenziali, il groviglio di contorsioni, di acrobazie autoassolutorie e di alibi in cui l’essere umano si intrappola con le proprie mani, diventano la nuova verità a cui è difficile non credere. Ma i sogni, i desideri e le fantasie a occhi aperti riportano l’uomo sbandato verso un inconscio a cui è difficile mentire: le voci interiori sono vere nella loro assurdità, e torturano l’essere che crede di usare attivamente la propria coscienza, di dominare la vita con la forza di volontà. Si vive di collaudate facciate più o meno accettate perché comode, si scende a compromessi con tutti ma allo stesso tempo si fugge da tutti e da tutto, da se stessi, dalle responsabilità, dagli affari di chi ha puntato su di noi… Qualcuno, però, ha il coraggio di dire: “Sei libero, ma devi scegliere. Non c’è più tanto tempo!”. La fine si avvicina: non siamo immortali e l’orologio ci pugnala alle spalle secondo dopo secondo, ora dopo ora; bisogna compiere delle scelte, selezionare le priorità, recuperare ciò che conta nella vita. Ma più tentiamo di soddisfare queste priorità e più ci incartiamo in noi stessi, più ci allontaniamo dal gesto draconiano e liberatorio; più cerchiamo di dare risposte a chi ci insegue, più rischiamo di dimenticare la nostra anima, i nostri obiettivi interiori. Arriva il momento salvifico della rinuncia, del dire a se stessi la verità; il coraggio di gettare la spugna e rivelarsi deboli ma veri, e ritrovare il coraggio di ricominciare aprendosi a un aiuto, a una seconda possibilità, alla riscoperta della parola “insieme”. Abbattere il castello di menzogne, affrontare i conflitti nascosti nel cuore e trascinati dall’infanzia, aprire le mani in segno di resa e riconquistare l’entusiasmo perduto, la genialità creatrice che rianima. Le proprie debolezze, i propri fantasmi, diventano così alleati, personaggi da rivalutare positivamente, protagonisti di una pellicola non ancora girata: tutti parte di un enorme spettacolo circense chiamato “vita”. Ma per scoprire questo nuovo copione e scoprirsi, bisogna avere il coraggio di rinunciare a insistere, di autocensurarsi, di vivere il silenzio, di ritornare a guardare senza paura il foglio bianco, di non sentirsi artisti necessari ma in bilico e inutili, di strappare il foglio su cui è riportata un’idea che non ci convince totalmente, di mandare tutti a casa, di smontare la scena che non ci appartiene più; perché a volte “distruggere è meglio che creare” in un mondo ipocrita e autoreferenziale che crede di sfornare il romanzo necessario, il film necessario, l’album musicale necessario… Rinunciare al tutto per rivalutare il nulla. Il film non ancora prodotto — e che sarà il più bello — è quello che parla di noi, della nostra più scomoda intimità, delle nostre paure e dei nostri desideri, del nostro sentirci inutili, delle debolezze che danzano con noi in un cerchio finale e risolutivo. Tenendosi per mano, assecondando una musica allegra e al tempo stesso malinconica: la colonna sonora di un circo che felicemente sta per chiudere i battenti.

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Buffalo Soldier

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Fischietti sotto l’ombrello rasta
Buffalo Soldier di Marley,
è una sfida ai tropici piangenti
e alle nostre piovose primavere, solitario
timoniere di te stesso non ancora in rotta

la musica scivolata tra i libri del negozio deserto
era la sigla a libertà di fiele, gabbiani obesi dal volo basso
ora che tutto è nuovo, tristi scenari aperti verso l’ignoto
inebrianti orizzonti schivando ricordi e lampi in mare

le cose mai chieste in tempo, figli distratti e perdonati
quelle lasciate in eredità o per sempre sfuggite,
sogni la Route 66 da fare in autostop, ma non sai che
It was a Buffalo Soldier in the heart of America!?

Intervista a Francesco Innella sulla raccolta “Kimera – Poesie dell’Io”

versione pdf: Intervista a Francesco Innella sulla raccolta “Kimera – Poesie dell’Io”

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Intervista a Francesco Innella sulla raccolta “Kimera – Poesie dell’Io”

a cura di Michele Nigro

 

Michele Nigro. Perché il titolo “Kimera – Poesie dell’Io”?

Francesco Innella. Prima di scrivere questa raccolta ho pensato di trovare il filo conduttore delle mie poesie e sono arrivato alla conclusione che il mio poetare è stato sempre una ricerca dell’Io. Nella mia poesia ho sempre investigato il ruolo del poeta nel vivere quotidiano. In base a questo principio ho selezionato le poesie contenute in Kimera, che è una aporia: nell’antica filosofia greca con questo termine si indicava l’impossibilità di dare una risposta precisa a un problema, poiché ci si trovava di fronte a due soluzioni che, per quanto opposte, sembravano entrambe valide, ossia – nel nostro caso specifico  ̶  senza soluzione dei conflitti dell’Io.

Che cos’è l’ego per l’uomo-poeta Innella? Bisogna conoscerlo per domarlo, educarlo o semplicemente assecondarlo?

Sulla mia concezione dell’ego ti rispondo con un aforisma di Cioran: “Avremmo dovuto essere dispensati dal trascinare un corpo. Bastava il fardello dell’io.” Ma che cosa è l’ego? È la lotta per mantenere un equilibrio precario tra noi e gli altri. È, in effetti, un conflitto. Conoscerlo è impossibile perché tende sempre a cambiare negli atteggiamenti quotidiani. Quindi non si può domare una cosa che muta. Dobbiamo rassegnarci, e ritornando ancora a Cioran: “Siamo costretti all’io, al veleno dell’ego”.

La tua ricerca sull’Io ha origini “antiche”. Non è la prima volta che con la tua poetica esplori e cerchi di ridimensionare l’ipertrofia dell’Io (anche adottando uno stile sobrio per dare l’esempio!), però scegli comunque la parola, strumento di quell’”effimera verbosità” che citi nella poesia Egoità, per comunicare i risultati della tua ricerca a noi lettori. Può la poesia diventare un valido esercizio di auto-eclissamento?

No, assolutamente: oggi si scrive tanto. Il fenomeno è ben evidente sulla rete perché c’è un grande bisogno di “glorificare” l’ego. Si può raggiungere una distanza dall’ego con la poesia impersonale  ̶  vedi l’haiku  ̶  ma nulla di più.

La Natura ci mette a tacere con i suoi fenomeni, ci rende umili. Perché in seguito dimentichiamo la nostra caducità e ritorniamo a essere arroganti?

Secondo me è tutta colpa dell’antropocentrismo. Concezione secondo cui tutto ciò che è nell’universo è stato creato per l’uomo e per i suoi bisogni, per cui l’uomo si viene a trovare al centro dell’universo e può considerarsi misura di tutte le cose.

La necessità dell’oblio mentre siamo ancora vivi. Perché questo bisogno di annientarsi, di eclissarsi, di perdersi, ritorna spesso nei tuoi versi?

La quiete assoluta è del mondo inorganico, di cui appunto la vita è alterazione. Allora in me prende corpo il principio del nirvana, ossia il ritorno alla quiete, quello che è in fondo il messaggio buddista, ma escludo l’autodistruzione. Il suicidio, secondo Arthur Schopenhauer, è un modo sbagliato di rispondere alle sofferenze della vita.

In Lenimento parli di “antiche presenze” che mormorano: sono ricordi personali dal passato o si tratta di catene interiori tipiche della condizione umana e quindi innate?

Sì, da una parte ci sono i ricordi personali che mi hanno segnato in maniera molto rilevante. Luca Canali, nell’antologia “I poeti della ginestra”, mi descrive come una persona che ha l’animo vulnerato per l’assedio dei suoi simili; dall’altra parte non riesco a superare le catene interiori tipiche della condizione umana, e tutte e due queste situazioni sono evidenti nel mio poetare; mi sento toccato da un’angoscia che ha origini antiche, che ho sempre avvertito e che non si dilegua ma continua nel tempo a sussistere; è una ferita interiore che non guarisce.

Il dolore è solo un’esperienza che causa tristezza o può rivelarsi fonte di energie preziose inutilizzate e da rimettere in gioco per costruire il bene?

Oggi si usa molto la parola resilienza che in psicologia indica la capacità di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà. Io credo che il dolore favorisca la crescita: Aldo Carotenuto, psicoanalista junghiano, ha sempre parlato della ferita interiore come di una feritoia dalla quale osservare il dolore e iniziare il suo superamento e trasformarlo in bene dal momento in cui si è giunti alla consapevolezza della propria dolorosa  condizione.

In La luna “uomini in torri d’avorio / sognano illusioni”; forse sono gli stessi esseri umani che come noi percorrono “le strade del nulla” citate nella poesia I gatti. Quali sono queste illusioni e cosa potrebbe contribuire alla nostra liberazione da esse?

Carlo Michelstaedter sostiene che ognuno di noi non riesce a uscire dal cerchio illusorio della vita, ci rinchiudiamo nelle nostre torri d’avorio e scriviamo poesie, siamo noi stessi che coltiviamo la poesia come rimedio al vuoto: io sono poeta perché ho sperimentato il nulla e le sue numerose strade. Difficile definire le illusioni, sono molteplici: ogni essere umano ha le proprie ed è difficile liberarsi da esse; forse, come dice Krishnamurti, dovremmo avere il coraggio di eliminarle e avvertire il vuoto che si nasconde dietro di loro, ma poi si ha il coraggio di affrontare il vuoto? O ci spaventiamo e ci facciamo catturare dalle illusioni che permettono a tutti noi di vivere?

“Il canto si spegne / tra i fatui bagliori / di una esistenza mancata” (Il camino). Quale esistenza abbiamo già mancato o stiamo per mancare? 

Tutta la nostra esistenza è una mancanza: se non lo fosse, non avremmo voglia di completarci attraverso la scrittura, o altre esperienze più significative; quando si sperimenta la privazione e si sente il bisogno di esplorare, di tuffarsi nell’indefinito, allora la mancanza viene assorbita dal fare e forse in quel momento si può toccare l’essere, o sfiorarlo almeno.

“… nel mistico silenzio / l’ego si appanna / e tace” (La Via interiore). Come può l’uomo contemporaneo tornare a ricercare, ammesso che voglia ricercarlo, questo mistico silenzio?

L’uomo contemporaneo, tranne poche eccezioni, è assorbito dal frastuono della vita e ascolta i nuovi imbonitori che lo distraggono dalla cosa più essenziale: la conoscenza di sé; quindi parlare di mistico silenzio è una cosa ardua per l’uomo di oggi, se non impossibile. Io ho raggiunto il silenzio in poche occasioni, generalmente dopo la recitazione di un mantra, ma ti posso assicurare che è una cosa difficile e rara da realizzare, e ti dico questo perché non sono un mistico, ma comunque ci ho provato. E l’esperienza del silenzio interiore è totalizzante, ti senti assorbito nel Tutto.

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Vendetta

quadro di He An

Quando torni al paesello
ridiventi selvatica e nubile
come una liberta liberata
o uno schiavo raggiunto
dal colpo di vindicta del padrone
sul capo di nuove speranze.

Non lasciarti giudicare dal passato
dai passanti,
sii presente e sii futuro
a te stessa, agli ultimi atti di fede
alla penombra del dolore che sveglia
maestro di vita in punta di morte.

Ti ho sfiorata, indecente e cocciuta
a un poetry slam di provincia,
ti allenavi a rinate energie
sapevi di sbadigli e vocali,

da quel piccolo teatro di quartiere
ti ascoltava un mondo ormai finito.

(immagine: quadro di He An)

A che serve fare poesia in giorni di guerra?

versione pdf: A che serve fare poesia in giorni di guerra?

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A che serve scrivere, fare poesia, mentre altrove la guerra domina la scena e le priorità sono altre? È difficile concentrarsi su ciò che all’improvviso – o forse lo è più di prima – diventa futile; soprattutto quando non si conosce profondamente il potere della parola e non si sa come usarlo. Contrapporre la poesia alla guerra, anche se del tutto inutile ai fini geopolitici e militari, diventa un dovere pubblico e non è più solo un diritto privato, un bene rifugio, un modo per lavarsi l’anima, o per evadere. È una “preghiera laica” da usare per controbilanciare la follia dell’umanità. Si continua a coltivare la bellezza per contrastare l’abbrutimento imperante, anche se l’informazione martellante riporta a ogni ora il confinato sul terreno coperto di sangue e neve sporca. Un terreno straniero, lontano ma vicino, familiare, con cui entrare in comunione per restare umani. La vita sorprende positivamente e a volte inganna, tradisce, pugnala alle spalle chi ancora si fida troppo del suo tocco che pensiamo essere eterno, idealistico. Il sogno e i progetti non possono e non devono essere messi da parte solo perché il mondo è diretto verso il dirupo del suo tempo, ma non si deve mai smettere di essere consapevoli che questa esistenza terrena non è una favola, bensì un dramma di tanto in tanto interrotto da intervalli di commedia agrodolce. Far convivere i progetti personali, anche quelli più colorati e spensierati, con la tragicità dell’esistenza: per riuscirci occorre essere sognatori, testardi, realisti quanto basta ma irremovibili sull’obiettivo. L’umana finitezza e la morte ci accompagnano lungo il cammino come fedeli amici che spronano quelli che si adagiano. Vivere il confino in un paese libero e senza guerra, mentre in altre nazioni si combattono battaglie reali e cruenti, avvicina con più forza l’autoesiliato a scegliere la via dell’arte, della parola poetica – per quel che gli è possibile –, della ricerca interiore con cui difendere la libertà di pensiero, sua e di chi non può più esercitarla. Coltivare innanzitutto per se stessi questi valori in contrapposizione ai tempi bui. La Storia non muta nei contenuti ma solo nelle forme: al di là di ogni facile fatalismo, la guerra – e più in generale la violenza in tutte le sue modalità organizzate – è statisticamente una costante nel cammino millenario dell’uomo, e nulla lascia intendere che vi potranno essere allentamenti sull’utilizzo di questa pratica autodistruttiva in futuro. Vi è, tuttavia, la possibilità di una scelta individuale, mai scontata, maturata in privato, che ognuno può compiere autonomamente per distinguersi dai tempi, per fare la differenza nel proprio piccolo. La Storia si ripete, ma nessuno è obbligato a ripetere la Storia. Sottrarsi alla partecipazione passiva, a una ciclicità a cui tutti sembriamo condannati, alla ripetizione in loop degli eventi: per farlo sono necessari conoscenza, studio della Storia, capacità di elevazione (e quindi di isolamento come forma di risposta) del proprio io al di sopra di entusiastici movimenti di massa di stampo interventistico. Non ultima, la poesia che favorisce l’estraneazione dalla follia. Il dottor Živago di Boris Pasternak, con i suoi protagonisti che rispondono al richiamo delle proprie passioni e della propria individualità muovendosi sullo sfondo di una società martoriata dalla rivolta e in profondissima mutazione, ci insegna che nonostante la Storia travolga tutti noi, in ogni epoca e con modalità che ci appaiono differenti, possediamo un mondo interiore che nessuna vicenda storica, nessuna guerra o rivoluzione potrà mai intaccare. La vera rivoluzione, quella delle scelte individuali, avviene nel silenzio dell’anima che desidera e cerca la resurrezione, stando in disparte ma attivamente, in quell’angolo individualistico da sempre ferocemente osteggiato dai totalitarismi della politica e del marketing.

(tratto da “Elegia del confino”, titolo provvisorio per un diario tra prosa e poesia di Michele Nigro, di prossima pubblicazione…)

versione pdf: A che serve fare poesia in giorni di guerra?

articolo pubblicato anche sul mensile “Oceano News”

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Resti

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Camminando sull’altura
ricavo viste d’insieme
sulla nostra storia e sui sarà.
Tutt’intorno è colmo d’echi
di falsi ritorni e rimembranze,
flussi stradali in sottofondo
verso la casa dei quasi sempre.

Della città che c’accolse
non restano che ombre d’esseri
la sorpresa del capitare qui, soli
dinanzi a voragini di libertà
seconde vite al tramonto

e qualche ossa di gatti amati
in vasi di cactus e rari gerani.

(ph M.Nigro©2023; Biglietteria dello Stadio Sant’Anna – Battipaglia)

Aspettando l’estate

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Attendo il tepore nell’andare lontano dal gelo
di morte, i primi veri respiri liberi su strade ferrate
verso la città che da sempre guarisce ferite
invernali, troppo aperte per non brillare al sole,

ma non dimentico le foglie cadute senza dolore
le lacrime che insegnano i modi della speranza
gli autunni amati e la pioggia di cieche parole.
Non lascio indietro quel che sono stato.

“Aspettando l’estate”, Franco Battiato

Elvis

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È forse un nuovo ’78
questo gelido inizio
di tarde libertà non richieste,
la strada da fare davanti agli occhi
e alle scarpe di ieri, sempre le stesse?

Inciampi al buio sui titoli di coda
dell’ennesimo Elvis redivivo,
presagio estivo alla fine del tuo mondo
e del nostro ormai privo di senso.
“Ma è il cinema muto?” sfotte sull’età
un bimbo seduto fin dalla nascita
su una morte che non vede.

Prendi il mio braccio! ancora per un po’
tra questa gente senza storia,
torniamo alla luce che conosci
e guarderai tutto non più come prima
attraverso la parte di te sopravvissuta in me.

Darsi al mondo

Foto di Rachel Posner, moglie del rabbino Akiva Posner, ultimo rabbino di Kiel in Germania.

Quando riavrò il mio passo
libero saprò riconoscere
la vita di nuovo com’era?
Prima dell’inverno dentro
ritornare su vie di montagna
calpestare arsi foliage
dal sole distratto del profitto.

È un richiamo a restare quieto
sulle sicure carte dell’anima
questo dolore inedito
che apre a strane gioie
canali sensibili al tutto
a parole mai usate
a fare finta di niente
a un darsi al mondo
finalmente
disperato e umano.

(immagine: foto di Rachel Posner, moglie del rabbino Akiva Posner,

ultimo rabbino di Kiel in Germania)

Au revoir

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Non ti sbracci più dalla finestra dell’alveare
per salutare quella promessa
donata al mondo, masticata e sputata
da lontano cara minuscola figura, alle partenze
mi accompagnavi con lo sguardo, pregando
fino all’angolo della fiducia.
Ricambiavo,
poi l’ebbrezza della libera autonomia.

A quei tempi le speranze
erano reali e i sogni ancora vividi.

Ora, solo uno stanco controllare
se si è giunti vivi al giorno dopo,
il disincanto apre con rassegnazione la porta
a una prodiga presenza inflazionata.

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L’insostenibile pesantezza dell’essere (multitasking)

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L’INSOSTENIBILE PESANTEZZA DELL’ESSERE (MULTITASKING)

Elogio delle urgenze

(Riflessioni messe in ordine durante una camminata veloce)

1) La vita è inevitabilmente “multitasking”; in questa nostra particolare era storica, poi, lo è ancora di più a causa di un progresso del cosiddetto “problem solving” – niente a che vedere con l’approccio epistemologico di Popper nella sua opera finale intitolata “Tutta la vita è risolvere problemi” – che porta l’utente nel giro di poche ore a “risolvere e re-impegnarsi” senza sosta (re-engagement), come il topolino che gira nella sua ruota, ovvero a mettere da parte un problema risolto per passare a quello successivo ancora da risolvere e se non c’è un problema a inventarsene uno nuovo dal nulla perché il multitasking aborrisce il vuoto, il non fare, l’ozio creativo. Deve tenersi occupato, in eterno allenamento per dare senso (o meglio, un “certo tipo” di senso) ai giorni dell’uomo del terzo millennio. Ma il fare non sempre è sinonimo di creare, anzi: il fare compulsivo distrae dalla vera creazione solida, permanente, meditata. L’elenco degli impegni da depennare contro la settimana di Dio descritta nella Genesi. Chi vincerà stavolta?

Il problema principale con il multitasking – proprio in virtù della sua caratteristica di “contemporaneità” delle azioni – è che sono state abolite le priorità tra livelli (anche nel medioevo l’uomo era multitasking nonostante una certa specializzazione corporativistica; bisognava essere in grado di spostarsi su livelli differenti di azione e questa capacità era soprattutto dettata dal ceto sociale a cui si apparteneva e quindi dalle disponibilità economiche): oggi che l’intera umanità è in gara per una vittoria sicura – perché così gli hanno promesso e l’umanità c’ha creduto! – tutti i livelli del multitasking sono al primo posto e quindi tutti sono diventati importanti anche se molti tra questi non lo sono affatto; una voce dentro di noi sa che non tutti i livelli hanno la stessa importanza e ce lo urla, ma noi ci giriamo dall’altra parte, diamo retta solo al programma che “processa” tutto contemporaneamente, e superiamo il suono di quella voce con altri rumori creati all’uopo per non farle acquisire udibilità. Tutto deve essere risolto, il fare viene prima dell’essere, del pensare, eventualmente del rimandare a un secondo momento. Durante un funerale, mentre passa il feretro, ci scopriamo a parlare di questioni condominiali con i vicini: la morte viene misurata in millesimi e le faccende terrene non ammutoliscono nemmeno dinanzi al sacro mistero della vita che finisce, e che esigerebbe silenzio e inattività riflessiva.

2) Non tutti i livelli di questa esistenza multitasking sono piacevoli: alcuni devono essere affrontati “obtorto collo” e le questioni fastidiose, le vicende tristi, gli impegni presi, vanno risolti con una razionalità quasi automatica, d’ufficio, che a lungo andare ci rende “robotici”, veloci, efficienti, produttivi. Anche la malattia ha un suo iter diagnostico supercollaudato ed efficientissimo: i vari passaggi fanno parte di un’esperienza scientifica acquisita che è diventata routinaria, scontata, istituzionale. Il progresso medico che alcuni decenni fa stupiva i primi fortunati, oggi è vissuto in una quotidianità che non sorprende più. Anche se la strada da fare per sconfiggere molte altre malattie, e per renderle affrontabili da tutti indipendentemente dal ceto sociale o dal reddito, è ancora lunga. Ma l’approccio alla possibilità di una guarigione è diventato accessibile, sistemico.

3) Per non morire dentro e salvaguardare la parte di noi non pubblica, non indaffarata, quella più intima, vera, autentica, immobile, dopo aver affrontato i vari livelli che il quotidiano ci costringe ad affrontare, c’è bisogno di sostare per un po’ presso un “livello superiore”, imparziale, non operativo ma contemplativo, che domini sugli altri, inferiori a loro insaputa, di una visione dall’alto che ognuno di noi realizza in base al tipo di ricerca impostata, alla cultura di appartenenza, al grado di sensibilità, oserei dire “di fede”… Un livello superiore strettamente spirituale o laico-filosofico, che dia un senso al nostro multitasking di cui non possiamo fare a meno, e soprattutto ristabilisca le priorità al margine del caos. Priorità che andrebbero di fatto a “smontare” e quindi ad annullare la caratteristica funzionale del multitasking.

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Memento mori

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Il risveglio da se stessi dura poco,
una morte improvvisa sfiora il giorno
un falso dolore al petto insenziente
nascosto dietro strani enzimi serali
e si torna felici, vivi, ignoranti
verso casa, una volta ancora
 
la luna immensa nel cielo pulito
non sa niente di guerre a venire
brilla incurante sul nosocomio che ci libera,
ma fasulla è la promessa del viversi meglio
quella voglia di fuga nell’aria buia,
 
ridarsi al mondo più di ieri,
condannare rabbiosi
il sonno precedente il lampo d’inverno.
Un attimo prima di morire
si mordono i gomiti, lì la pelle è troppo morbida
per il non aver fatto, per la fortuna non braccata
come volpe d’argento e d’America
il mancato coraggio sul più bello
l’avventura senza fede,
 
non si riavvolge
l’indole inseguita sui cammini errati.
 
È un respiro nuovo di speranza
questo tornare alla strada,
il messaggio dell’amico lontano
non prevede il suo prossimo aldilà.
 
Avverte sete di esistenza
nella notte dell’alba
il graziato ramingo delle vene,
dura poco il risveglio
 
ché già reclama Morfeo
le ore negate all’inerzia.
versione pdf: Memento mori