Buffalo Soldier

Bob-Marley-portrait

Fischietti sotto l’ombrello rasta
Buffalo Soldier di Marley,
è una sfida ai tropici piangenti
e alle nostre piovose primavere, solitario
timoniere di te stesso non ancora in rotta

la musica scivolata tra i libri del negozio deserto
era la sigla a libertà di fiele, gabbiani obesi dal volo basso
ora che tutto è nuovo, tristi scenari aperti verso l’ignoto
inebrianti orizzonti schivando ricordi e lampi in mare

le cose mai chieste in tempo, figli distratti e perdonati
quelle lasciate in eredità o per sempre sfuggite,
sogni la Route 66 da fare in autostop, ma non sai che
It was a Buffalo Soldier in the heart of America!?

Intervista a Francesco Innella sulla raccolta “Kimera – Poesie dell’Io”

versione pdf: Intervista a Francesco Innella sulla raccolta “Kimera – Poesie dell’Io”

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Intervista a Francesco Innella sulla raccolta “Kimera – Poesie dell’Io”

a cura di Michele Nigro

 

Michele Nigro. Perché il titolo “Kimera – Poesie dell’Io”?

Francesco Innella. Prima di scrivere questa raccolta ho pensato di trovare il filo conduttore delle mie poesie e sono arrivato alla conclusione che il mio poetare è stato sempre una ricerca dell’Io. Nella mia poesia ho sempre investigato il ruolo del poeta nel vivere quotidiano. In base a questo principio ho selezionato le poesie contenute in Kimera, che è una aporia: nell’antica filosofia greca con questo termine si indicava l’impossibilità di dare una risposta precisa a un problema, poiché ci si trovava di fronte a due soluzioni che, per quanto opposte, sembravano entrambe valide, ossia – nel nostro caso specifico  ̶  senza soluzione dei conflitti dell’Io.

Che cos’è l’ego per l’uomo-poeta Innella? Bisogna conoscerlo per domarlo, educarlo o semplicemente assecondarlo?

Sulla mia concezione dell’ego ti rispondo con un aforisma di Cioran: “Avremmo dovuto essere dispensati dal trascinare un corpo. Bastava il fardello dell’io.” Ma che cosa è l’ego? È la lotta per mantenere un equilibrio precario tra noi e gli altri. È, in effetti, un conflitto. Conoscerlo è impossibile perché tende sempre a cambiare negli atteggiamenti quotidiani. Quindi non si può domare una cosa che muta. Dobbiamo rassegnarci, e ritornando ancora a Cioran: “Siamo costretti all’io, al veleno dell’ego”.

La tua ricerca sull’Io ha origini “antiche”. Non è la prima volta che con la tua poetica esplori e cerchi di ridimensionare l’ipertrofia dell’Io (anche adottando uno stile sobrio per dare l’esempio!), però scegli comunque la parola, strumento di quell’”effimera verbosità” che citi nella poesia Egoità, per comunicare i risultati della tua ricerca a noi lettori. Può la poesia diventare un valido esercizio di auto-eclissamento?

No, assolutamente: oggi si scrive tanto. Il fenomeno è ben evidente sulla rete perché c’è un grande bisogno di “glorificare” l’ego. Si può raggiungere una distanza dall’ego con la poesia impersonale  ̶  vedi l’haiku  ̶  ma nulla di più.

La Natura ci mette a tacere con i suoi fenomeni, ci rende umili. Perché in seguito dimentichiamo la nostra caducità e ritorniamo a essere arroganti?

Secondo me è tutta colpa dell’antropocentrismo. Concezione secondo cui tutto ciò che è nell’universo è stato creato per l’uomo e per i suoi bisogni, per cui l’uomo si viene a trovare al centro dell’universo e può considerarsi misura di tutte le cose.

La necessità dell’oblio mentre siamo ancora vivi. Perché questo bisogno di annientarsi, di eclissarsi, di perdersi, ritorna spesso nei tuoi versi?

La quiete assoluta è del mondo inorganico, di cui appunto la vita è alterazione. Allora in me prende corpo il principio del nirvana, ossia il ritorno alla quiete, quello che è in fondo il messaggio buddista, ma escludo l’autodistruzione. Il suicidio, secondo Arthur Schopenhauer, è un modo sbagliato di rispondere alle sofferenze della vita.

In Lenimento parli di “antiche presenze” che mormorano: sono ricordi personali dal passato o si tratta di catene interiori tipiche della condizione umana e quindi innate?

Sì, da una parte ci sono i ricordi personali che mi hanno segnato in maniera molto rilevante. Luca Canali, nell’antologia “I poeti della ginestra”, mi descrive come una persona che ha l’animo vulnerato per l’assedio dei suoi simili; dall’altra parte non riesco a superare le catene interiori tipiche della condizione umana, e tutte e due queste situazioni sono evidenti nel mio poetare; mi sento toccato da un’angoscia che ha origini antiche, che ho sempre avvertito e che non si dilegua ma continua nel tempo a sussistere; è una ferita interiore che non guarisce.

Il dolore è solo un’esperienza che causa tristezza o può rivelarsi fonte di energie preziose inutilizzate e da rimettere in gioco per costruire il bene?

Oggi si usa molto la parola resilienza che in psicologia indica la capacità di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà. Io credo che il dolore favorisca la crescita: Aldo Carotenuto, psicoanalista junghiano, ha sempre parlato della ferita interiore come di una feritoia dalla quale osservare il dolore e iniziare il suo superamento e trasformarlo in bene dal momento in cui si è giunti alla consapevolezza della propria dolorosa  condizione.

In La luna “uomini in torri d’avorio / sognano illusioni”; forse sono gli stessi esseri umani che come noi percorrono “le strade del nulla” citate nella poesia I gatti. Quali sono queste illusioni e cosa potrebbe contribuire alla nostra liberazione da esse?

Carlo Michelstaedter sostiene che ognuno di noi non riesce a uscire dal cerchio illusorio della vita, ci rinchiudiamo nelle nostre torri d’avorio e scriviamo poesie, siamo noi stessi che coltiviamo la poesia come rimedio al vuoto: io sono poeta perché ho sperimentato il nulla e le sue numerose strade. Difficile definire le illusioni, sono molteplici: ogni essere umano ha le proprie ed è difficile liberarsi da esse; forse, come dice Krishnamurti, dovremmo avere il coraggio di eliminarle e avvertire il vuoto che si nasconde dietro di loro, ma poi si ha il coraggio di affrontare il vuoto? O ci spaventiamo e ci facciamo catturare dalle illusioni che permettono a tutti noi di vivere?

“Il canto si spegne / tra i fatui bagliori / di una esistenza mancata” (Il camino). Quale esistenza abbiamo già mancato o stiamo per mancare? 

Tutta la nostra esistenza è una mancanza: se non lo fosse, non avremmo voglia di completarci attraverso la scrittura, o altre esperienze più significative; quando si sperimenta la privazione e si sente il bisogno di esplorare, di tuffarsi nell’indefinito, allora la mancanza viene assorbita dal fare e forse in quel momento si può toccare l’essere, o sfiorarlo almeno.

“… nel mistico silenzio / l’ego si appanna / e tace” (La Via interiore). Come può l’uomo contemporaneo tornare a ricercare, ammesso che voglia ricercarlo, questo mistico silenzio?

L’uomo contemporaneo, tranne poche eccezioni, è assorbito dal frastuono della vita e ascolta i nuovi imbonitori che lo distraggono dalla cosa più essenziale: la conoscenza di sé; quindi parlare di mistico silenzio è una cosa ardua per l’uomo di oggi, se non impossibile. Io ho raggiunto il silenzio in poche occasioni, generalmente dopo la recitazione di un mantra, ma ti posso assicurare che è una cosa difficile e rara da realizzare, e ti dico questo perché non sono un mistico, ma comunque ci ho provato. E l’esperienza del silenzio interiore è totalizzante, ti senti assorbito nel Tutto.

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Vendetta

quadro di He An

Quando torni al paesello
ridiventi selvatica e nubile
come una liberta liberata
o uno schiavo raggiunto
dal colpo di vindicta del padrone
sul capo di nuove speranze.

Non lasciarti giudicare dal passato
dai passanti,
sii presente e sii futuro
a te stessa, agli ultimi atti di fede
alla penombra del dolore che sveglia
maestro di vita in punta di morte.

Ti ho sfiorata, indecente e cocciuta
a un poetry slam di provincia,
ti allenavi a rinate energie
sapevi di sbadigli e vocali,

da quel piccolo teatro di quartiere
ti ascoltava un mondo ormai finito.

(immagine: quadro di He An)

A che serve fare poesia in giorni di guerra?

versione pdf: A che serve fare poesia in giorni di guerra?

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A che serve scrivere, fare poesia, mentre altrove la guerra domina la scena e le priorità sono altre? È difficile concentrarsi su ciò che all’improvviso – o forse lo è più di prima – diventa futile; soprattutto quando non si conosce profondamente il potere della parola e non si sa come usarlo. Contrapporre la poesia alla guerra, anche se del tutto inutile ai fini geopolitici e militari, diventa un dovere pubblico e non è più solo un diritto privato, un bene rifugio, un modo per lavarsi l’anima, o per evadere. È una “preghiera laica” da usare per controbilanciare la follia dell’umanità. Si continua a coltivare la bellezza per contrastare l’abbrutimento imperante, anche se l’informazione martellante riporta a ogni ora il confinato sul terreno coperto di sangue e neve sporca. Un terreno straniero, lontano ma vicino, familiare, con cui entrare in comunione per restare umani. La vita sorprende positivamente e a volte inganna, tradisce, pugnala alle spalle chi ancora si fida troppo del suo tocco che pensiamo essere eterno, idealistico. Il sogno e i progetti non possono e non devono essere messi da parte solo perché il mondo è diretto verso il dirupo del suo tempo, ma non si deve mai smettere di essere consapevoli che questa esistenza terrena non è una favola, bensì un dramma di tanto in tanto interrotto da intervalli di commedia agrodolce. Far convivere i progetti personali, anche quelli più colorati e spensierati, con la tragicità dell’esistenza: per riuscirci occorre essere sognatori, testardi, realisti quanto basta ma irremovibili sull’obiettivo. L’umana finitezza e la morte ci accompagnano lungo il cammino come fedeli amici che spronano quelli che si adagiano. Vivere il confino in un paese libero e senza guerra, mentre in altre nazioni si combattono battaglie reali e cruenti, avvicina con più forza l’autoesiliato a scegliere la via dell’arte, della parola poetica – per quel che gli è possibile –, della ricerca interiore con cui difendere la libertà di pensiero, sua e di chi non può più esercitarla. Coltivare innanzitutto per se stessi questi valori in contrapposizione ai tempi bui. La Storia non muta nei contenuti ma solo nelle forme: al di là di ogni facile fatalismo, la guerra – e più in generale la violenza in tutte le sue modalità organizzate – è statisticamente una costante nel cammino millenario dell’uomo, e nulla lascia intendere che vi potranno essere allentamenti sull’utilizzo di questa pratica autodistruttiva in futuro. Vi è, tuttavia, la possibilità di una scelta individuale, mai scontata, maturata in privato, che ognuno può compiere autonomamente per distinguersi dai tempi, per fare la differenza nel proprio piccolo. La Storia si ripete, ma nessuno è obbligato a ripetere la Storia. Sottrarsi alla partecipazione passiva, a una ciclicità a cui tutti sembriamo condannati, alla ripetizione in loop degli eventi: per farlo sono necessari conoscenza, studio della Storia, capacità di elevazione (e quindi di isolamento come forma di risposta) del proprio io al di sopra di entusiastici movimenti di massa di stampo interventistico. Non ultima, la poesia che favorisce l’estraneazione dalla follia. Il dottor Živago di Boris Pasternak, con i suoi protagonisti che rispondono al richiamo delle proprie passioni e della propria individualità muovendosi sullo sfondo di una società martoriata dalla rivolta e in profondissima mutazione, ci insegna che nonostante la Storia travolga tutti noi, in ogni epoca e con modalità che ci appaiono differenti, possediamo un mondo interiore che nessuna vicenda storica, nessuna guerra o rivoluzione potrà mai intaccare. La vera rivoluzione, quella delle scelte individuali, avviene nel silenzio dell’anima che desidera e cerca la resurrezione, stando in disparte ma attivamente, in quell’angolo individualistico da sempre ferocemente osteggiato dai totalitarismi della politica e del marketing.

(tratto da “Elegia del confino”, titolo provvisorio per un diario tra prosa e poesia di Michele Nigro, di prossima pubblicazione…)

versione pdf: A che serve fare poesia in giorni di guerra?

articolo pubblicato anche sul mensile “Oceano News”

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Resti

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Camminando sull’altura
ricavo viste d’insieme
sulla nostra storia e sui sarà.
Tutt’intorno è colmo d’echi
di falsi ritorni e rimembranze,
flussi stradali in sottofondo
verso la casa dei quasi sempre.

Della città che c’accolse
non restano che ombre d’esseri
la sorpresa del capitare qui, soli
dinanzi a voragini di libertà
seconde vite al tramonto

e qualche ossa di gatti amati
in vasi di cactus e rari gerani.

(ph M.Nigro©2023; Biglietteria dello Stadio Sant’Anna – Battipaglia)

Aspettando l’estate

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Attendo il tepore nell’andare lontano dal gelo
di morte, i primi veri respiri liberi su strade ferrate
verso la città che da sempre guarisce ferite
invernali, troppo aperte per non brillare al sole,

ma non dimentico le foglie cadute senza dolore
le lacrime che insegnano i modi della speranza
gli autunni amati e la pioggia di cieche parole.
Non lascio indietro quel che sono stato.

“Aspettando l’estate”, Franco Battiato

Elvis

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È forse un nuovo ’78
questo gelido inizio
di tarde libertà non richieste,
la strada da fare davanti agli occhi
e alle scarpe di ieri, sempre le stesse?

Inciampi al buio sui titoli di coda
dell’ennesimo Elvis redivivo,
presagio estivo alla fine del tuo mondo
e del nostro ormai privo di senso.
“Ma è il cinema muto?” sfotte sull’età
un bimbo seduto fin dalla nascita
su una morte che non vede.

Prendi il mio braccio! ancora per un po’
tra questa gente senza storia,
torniamo alla luce che conosci
e guarderai tutto non più come prima
attraverso la parte di te sopravvissuta in me.

Darsi al mondo

Foto di Rachel Posner, moglie del rabbino Akiva Posner, ultimo rabbino di Kiel in Germania.

Quando riavrò il mio passo
libero saprò riconoscere
la vita di nuovo com’era?
Prima dell’inverno dentro
ritornare su vie di montagna
calpestare arsi foliage
dal sole distratto del profitto.

È un richiamo a restare quieto
sulle sicure carte dell’anima
questo dolore inedito
che apre a strane gioie
canali sensibili al tutto
a parole mai usate
a fare finta di niente
a un darsi al mondo
finalmente
disperato e umano.

(immagine: foto di Rachel Posner, moglie del rabbino Akiva Posner,

ultimo rabbino di Kiel in Germania)

Au revoir

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Non ti sbracci più dalla finestra dell’alveare
per salutare quella promessa
donata al mondo, masticata e sputata
da lontano cara minuscola figura, alle partenze
mi accompagnavi con lo sguardo, pregando
fino all’angolo della fiducia.
Ricambiavo,
poi l’ebbrezza della libera autonomia.

A quei tempi le speranze
erano reali e i sogni ancora vividi.

Ora, solo uno stanco controllare
se si è giunti vivi al giorno dopo,
il disincanto apre con rassegnazione la porta
a una prodiga presenza inflazionata.

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L’insostenibile pesantezza dell’essere (multitasking)

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L’INSOSTENIBILE PESANTEZZA DELL’ESSERE (MULTITASKING)

Elogio delle urgenze

(Riflessioni messe in ordine durante una camminata veloce)

1) La vita è inevitabilmente “multitasking”; in questa nostra particolare era storica, poi, lo è ancora di più a causa di un progresso del cosiddetto “problem solving” – niente a che vedere con l’approccio epistemologico di Popper nella sua opera finale intitolata “Tutta la vita è risolvere problemi” – che porta l’utente nel giro di poche ore a “risolvere e re-impegnarsi” senza sosta (re-engagement), come il topolino che gira nella sua ruota, ovvero a mettere da parte un problema risolto per passare a quello successivo ancora da risolvere e se non c’è un problema a inventarsene uno nuovo dal nulla perché il multitasking aborrisce il vuoto, il non fare, l’ozio creativo. Deve tenersi occupato, in eterno allenamento per dare senso (o meglio, un “certo tipo” di senso) ai giorni dell’uomo del terzo millennio. Ma il fare non sempre è sinonimo di creare, anzi: il fare compulsivo distrae dalla vera creazione solida, permanente, meditata. L’elenco degli impegni da depennare contro la settimana di Dio descritta nella Genesi. Chi vincerà stavolta?

Il problema principale con il multitasking – proprio in virtù della sua caratteristica di “contemporaneità” delle azioni – è che sono state abolite le priorità tra livelli (anche nel medioevo l’uomo era multitasking nonostante una certa specializzazione corporativistica; bisognava essere in grado di spostarsi su livelli differenti di azione e questa capacità era soprattutto dettata dal ceto sociale a cui si apparteneva e quindi dalle disponibilità economiche): oggi che l’intera umanità è in gara per una vittoria sicura – perché così gli hanno promesso e l’umanità c’ha creduto! – tutti i livelli del multitasking sono al primo posto e quindi tutti sono diventati importanti anche se molti tra questi non lo sono affatto; una voce dentro di noi sa che non tutti i livelli hanno la stessa importanza e ce lo urla, ma noi ci giriamo dall’altra parte, diamo retta solo al programma che “processa” tutto contemporaneamente, e superiamo il suono di quella voce con altri rumori creati all’uopo per non farle acquisire udibilità. Tutto deve essere risolto, il fare viene prima dell’essere, del pensare, eventualmente del rimandare a un secondo momento. Durante un funerale, mentre passa il feretro, ci scopriamo a parlare di questioni condominiali con i vicini: la morte viene misurata in millesimi e le faccende terrene non ammutoliscono nemmeno dinanzi al sacro mistero della vita che finisce, e che esigerebbe silenzio e inattività riflessiva.

2) Non tutti i livelli di questa esistenza multitasking sono piacevoli: alcuni devono essere affrontati “obtorto collo” e le questioni fastidiose, le vicende tristi, gli impegni presi, vanno risolti con una razionalità quasi automatica, d’ufficio, che a lungo andare ci rende “robotici”, veloci, efficienti, produttivi. Anche la malattia ha un suo iter diagnostico supercollaudato ed efficientissimo: i vari passaggi fanno parte di un’esperienza scientifica acquisita che è diventata routinaria, scontata, istituzionale. Il progresso medico che alcuni decenni fa stupiva i primi fortunati, oggi è vissuto in una quotidianità che non sorprende più. Anche se la strada da fare per sconfiggere molte altre malattie, e per renderle affrontabili da tutti indipendentemente dal ceto sociale o dal reddito, è ancora lunga. Ma l’approccio alla possibilità di una guarigione è diventato accessibile, sistemico.

3) Per non morire dentro e salvaguardare la parte di noi non pubblica, non indaffarata, quella più intima, vera, autentica, immobile, dopo aver affrontato i vari livelli che il quotidiano ci costringe ad affrontare, c’è bisogno di sostare per un po’ presso un “livello superiore”, imparziale, non operativo ma contemplativo, che domini sugli altri, inferiori a loro insaputa, di una visione dall’alto che ognuno di noi realizza in base al tipo di ricerca impostata, alla cultura di appartenenza, al grado di sensibilità, oserei dire “di fede”… Un livello superiore strettamente spirituale o laico-filosofico, che dia un senso al nostro multitasking di cui non possiamo fare a meno, e soprattutto ristabilisca le priorità al margine del caos. Priorità che andrebbero di fatto a “smontare” e quindi ad annullare la caratteristica funzionale del multitasking.

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Memento mori

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Il risveglio da se stessi dura poco,
una morte improvvisa sfiora il giorno
un falso dolore al petto insenziente
nascosto dietro strani enzimi serali
e si torna felici, vivi, ignoranti
verso casa, una volta ancora
 
la luna immensa nel cielo pulito
non sa niente di guerre a venire
brilla incurante sul nosocomio che ci libera,
ma fasulla è la promessa del viversi meglio
quella voglia di fuga nell’aria buia,
 
ridarsi al mondo più di ieri,
condannare rabbiosi
il sonno precedente il lampo d’inverno.
Un attimo prima di morire
si mordono i gomiti, lì la pelle è troppo morbida
per il non aver fatto, per la fortuna non braccata
come volpe d’argento e d’America
il mancato coraggio sul più bello
l’avventura senza fede,
 
non si riavvolge
l’indole inseguita sui cammini errati.
 
È un respiro nuovo di speranza
questo tornare alla strada,
il messaggio dell’amico lontano
non prevede il suo prossimo aldilà.
 
Avverte sete di esistenza
nella notte dell’alba
il graziato ramingo delle vene,
dura poco il risveglio
 
ché già reclama Morfeo
le ore negate all’inerzia.
versione pdf: Memento mori

Call Center, reloaded

versione pdf: “Call Center Reloaded”, di Michele Nigro

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Prefazione

“Call Center, alla ricerca del futuro ibernato”

di Roberto Guerra

Call Center, titolo iconico particolarmente azzeccato, è nato direttamente come libro elettronico (eBook) già alcuni anni fa: in certo senso sembrano passate decadi ma proprio la diversamente breccia temporale ne esalta oggi, nuova edizione e tradizionale cartacea, una certa lungimiranza previsionale.

Se il racconto narra poeticamente l’uomo automatizzato e robotizzato odierno, proprio i famosi Call Center ne testimoniano la quintessenza alla rovescia, esemplificano il paradosso sempre costante della rivoluzione tecnologica: il lavoro liquido estremo e la precarietà ormai generalizzata nella eterna quasi crisi contemporanea hanno nei Call Center, caratterizzati centralmente da tali dinamiche, quasi un perverso Tempio, accettato nella vita quotidiana come se nulla fosse, la normalità come patologia sociale condivisa e quindi non riconosciuta.

Simultaneamente i Call Center  simboleggiano, sempre al contrario, il computer mondo oggi letteralmente ibernato, sia le Macchine sia gli umani.

Come leitmotiv software costante nelle parole dell’autore, certa folle simbiosi strutturale contemporanea, economia-politica-tecnologia, l’attuale turbocapitalismo poco turbo e molto pietrificante come lo sguardo malefico di Medusa, ha degenerato il senso della tecnoscienza, letteralmente ucciso, appunto congelato, il futuro.

Le macchine a quanto pare non sono state inventate per liberare gli umani dal lavoro alienante o i computer per liberare l’Uomo come opera d’arte dal meccanicismo mentale e burotico, ma come sorta di gigantesche slot machine per Usurai 2.0, una assoluta minoranza, burattinai digitali quasi immateriali, come i famigerati Morlock con il popolo degli Eloi in The Time Machine di H.G. Wells, che condizionano o comandano nelle stanze dei bottoni, occidentali o meno.

Nigro si muove in un solco fantadispotico ben noto nell’immaginario scientifico e fantascientifico del Novecento: va da sé che conferma la cosiddetta science fiction, a pari di altri autori, come nuovo diversamente Post Realismo cibernetico; che è peraltro una delle vere news creative nella letteratura contemporanea, dimostrando la provocazione di un certo Marvin Minsky: “La fantascienza è la vera filosofia del nostro tempo”.

E nello specifico di Nigro la filosofia come Psicologia informatica, come ogni gioco sinaptico non lineare, ma transtemporale, come ottimamente si dilatano le pagine e le antitrame menu del libro, con flussi imprevedibili narranti, in una cifra dimensionale passato-presente-futuro, come poi nella Vita Reale, sia imprevedibile che interconnessa, come dissolvenze costanti (per la cronaca, stile prossimo a certa poetica sperimentale e d’avanguardia).

La stessa resilienza del protagonista, nella sua presa di coscienza e ribellione “fredda” all’ibernazione robotizzata e lavorativa, affiora come un puzzle nuovamente alla rovescia, un gioco di incastri a partire da un falso disegno alla partenza da smontare e ricomporre verso un nuovo futuro alternativo e umanizzante assolutamente inedito, senza mappe a priori di riferimento: Nigro è acuto nel far parlare il non detto della letteratura distopico-dispotica, non solo sintomo di certo spirito del tempo apparentemente senza vie d’uscita, ma necessario artificio di discesa nell’inconscio oggi techno, per captare nuovamente un Homme Robot creativo come specchio sinaptico del Corpo sociale.

In pillole, riassumendo e come da incipit, un lavoro narratosofico (non narratologico lineare…) che ha anche anticipato l’ulteriore degrado finanzocratico e nella grande macchina produttiva che ancora di più esige ricette di homme robot non autoalienato ma rebel rebel: oggi si parla di Big Data, Bitcoin e simili, di Algoritmi e Intelligenza Artificiale come registri di sistema per il lavoro 3.0, ma a quanto pare con ancora nuove dissipazioni di risorse tecnoscientifiche.

E visto l’andazzo, come andare su Marte e poi sul più bello dimenticarsi che ci abbiamo inviato delle scimmie con un pallottoliere per errore al posto di astronauti umani con Curiosity, concordiamo con l’autore se abbiamo beninteso: forse solo un vero default della Grande Macchina tecnoeconomica attuale, per istinto di sopravvivenza 2.0, potrebbe generare un nuovo turbocapitalismo non neoluddista, come suicidalmente un certo Green mistificante s’illude di fare, ma finalmente troppo umano o robotico complementare “più umano degli umani”.

 ♦

 

“Call Center – reloaded”

 di Michele Nigro

 

Il lavoratore, in particolar modo quello precario, va educato.

Così come il cucciolo di cane, appena giunto nella sua nuova dimora, deve essere prontamente educato nell’espletamento dei propri bisogni fisiologici in angoli ben precisi provvisti di fogli di vecchi quotidiani conservati all’uopo, allo stesso modo il lavoratore deve capire fin da subito che il suo comportamento non può tendere alla neutralità o alla riflessione (dannosa in ambito produttivo), bensì a un energico entusiasmo decerebrante capace di far ottenere al lavoratore il tanto agognato premio finale. L’allineamento, l’accondiscendenza, l’incondizionato assorbimento delle incontestabili direttive aziendali, la personalità solo abbozzata e mai eclettica, la disponibilità senza “se” e senza “ma”, l’assenza di cultura, la scaltrezza del venditore arabo, il carattere come forma di pressione, il rifiuto di proposte alternative, la repressione del confronto tra individui: questi sono solo alcuni dei cosiddetti “comportamenti premianti” che, se accettati fedelmente dal lavoratore, diventano vere e proprie armi per la conquista del successo aziendale.

Infilo il jack delle cuffie nella presa circolare della scheda audio come un duro, argenteo pene metallico che penetra, lucido ed elettrico, nell’orifizio acustico del mondo. Un filo abbastanza lungo mi concede un’impagabile libertà di movimento fino al muro alle mie spalle tappezzato di grafici colorati e motivanti sulla produttività dello scorso mese. Sono seduto su una comoda sedia girevole provvista di rotelle: divento uno yo-yo umano spingendomi all’indietro e ruotando; il filo è teso tra la mia testa e il computer della postazione. Conosco bene le misure del mio spazio lavorativo: mi fermo un millimetro prima di strappare via il jack. Poi ritorno fedele con le braccia sul tavolo del box dove mi aspettano i pieghevoli che illustrano le caratteristiche patinate dei meravigliosi prodotti da vendere e il decalogo delle cose da dire o da non dire pensati dall’intellighenzia aziendale.

Alcuni minuti prima, abbandonando il corridoio silenzioso nel fabbricato anonimo che ospita l’enorme call center in cui lavoro, mi ero immerso, puntuale come ogni pomeriggio, dal lunedì al sabato, nella chiassosa atmosfera alienante di quel nonluogo, come l’avrebbe definito Marc Augè.

“Buon pomeriggio, sono Marta!”

“Buongiorno, sono Giulio…!”

“Mi scusi se la disturbo, sono Roberta e le telefono perché ci risulta che…!”

“Sono Paola, Emilio, Giuseppe, Serena, Carlo… Sono la soluzione ai tuoi problemi, sono la fortuna che ti piomba in casa, sono la voce che attendevi, la chiave del tuo successo, sono il segreto che i tuoi vicini non vogliono svelarti, la risposta alla tua domanda. Sono la svolta che cercavi, la novità che bussa nel momento giusto, il tuo gentile consigliere pomeridiano, la tua scelta intelligente, sono il tuo assistente spirituale, il tuo miglior amico, sono il Presidente degli Stati Uniti d’America, sono Gesù Cristo, la Madonna. Se vuoi, se questo mi aiuterà a concludere un contratto, posso essere addirittura Dio!”

Lo chiamano ‘lavoro parasubordinato’: come se fosse una malattia infettiva incurabile presa sui confini venerei tra potere economico e popolo, durante un amplesso tra la ricchezza dei pochi e le illusioni delle orde di lavoratori-consumatori ipnotizzati da un benessere irraggiungibile. La mancanza di devozione mi corrode dall’interno; lavorare facendo finta di crederci: questo è il segreto.

Meravigliandomi, per l’ennesima volta, di quel vorticoso pollaio di succulente proposte lanciate nella rete telefonica, avevo raggiunto con passo veloce, attutito dalla moquette blu del pavimento, la mia postazione metamerica – il box numero 103 – e avevo inserito nel computer la password necessaria al conteggio personalizzato delle preziose ore di lavoro. Decine di voci squillanti e teatralmente rassicuranti, intorno a me, riproponevano, intrecciandosi l’un l’altra ma ognuna seguendo miracolosamente un proprio invisibile filo verso la meta contrattuale, un dialogo esistente tra cliente e teleoperatore, e testato dagli psicologi del marketing.

Tramonta il sole triste

d’inizio settembre

sui grigi parcheggi periferici

vuoti d’umanità vagante

tra lucenti vetri di bottiglia

e calme schegge di gioventù.

Sottofondo autostradale

per elettriche note di prova.

Le gru nel cielo rossazzurro

come plettri dolorosi

su anime solitarie

attendono il rock notturno.

Dall’alto, o dal basso, della sua laurea in Scienze Politiche mai usata, il mio vicino di box, inebetito dal turno di mattina che sta per terminare, m’invia un sorriso scialbo sperando in una mia amichevole risposta che l’incoraggi in zona Cesarini: se alla fine di questo mese non raggiungerà il numero di ‘pezzi’ prestabilito dalla Direzione, sarà silurato dai due impiegati gay dell’ufficio del Grande Fratello: meglio conosciuti come i “Dolce&Gabbana dell’Outbound”, Gigi e Lele, oltre a essere i sorridenti e ben vestiti addetti alle buste paga del call center, svolgono egregiamente, e non senza una comprovata dose di sadismo, anche la funzione di selezionatori. “Big Brother is watching you!”: il motto orwelliano che campeggia nel poster del loro ufficio trasformato in nido d’amore, non lascia spazio a dubbi. Compiere ‘carotaggi a campione’ sulla popolazione lavorativa del call center, in cerca di pedine improduttive da licenziare, rappresenta la loro specialità.

Esistono al mondo innumerevoli lavori, tanto assurdi quanto malpagati o con prospettive instabili.

La loro utilità è effimera come l’esistenza di un insetto: adulatori di casalinghe per via telefonica, assistenti all’eiaculazione di tori, livellatori di quadri storti, venditori di connessioni veloci in internet, riciclatori di pile scariche, smazzettatori di risme, salatori di arachidi, rappresentanti di chiodi porta a porta, psico-massaggiatori di piedi per mutilati, controbilanciatori di tubi, assaggiatrici di sperma, venditori di fumo per l’affumicatura dei salumi, sommozzatori di pozzi neri, smistatori di kipple, operatori di clisteri, lucidatori di ossa, collaudatori di giubbotti antiproiettili e bambole gonfiabili, venditori telefonici di righelli, svuotatori di portacenere, allevatori di grilli, mimo per trasmissioni radiofoniche, tester di deodoranti ascellari per uomini, domatori di fenicotteri, commercialisti per bancarelle di mercato, collaudatori di creme emorroidali, occupatori di parcheggi, collaudatori onanisti di profilattici, impacchettatori di regali per negozi, lab rats umani per case farmaceutiche, ricostruttori di reputazioni on line, massaggiatori di cani, buttadentro…

Il sottobosco lavorativo offre una vastissima gamma di occupazioni surreali e facilmente sostituibili: l’assoluta mancanza di diritti e la facile reperibilità di cosiddette ‘risorse umane usa e getta’, come lamette usate poco, infelici ma non ancora pronte a morire, rappresentano l’autentico propellente di quelle aziende che affidano la propria sopravvivenza a una delle carte vincenti della moderna economia: la precarietà del lavoratore.

La molla che fa scattare il meccanismo perverso della precarietà è il bisogno.

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“With or without you”: rinnegarsi è bello!

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Dicono che sia stata tradotta malamente l’intervista a Bono Vox degli U2, che abbiamo frainteso tutta la faccenda e che come al solito noi provinciali anglofobi non si è capita una mazza del significato delle sue parole, del Bono-pensiero ambiguo per questioni di marketing, sembra che in realtà non abbia detto ciò che abbiamo voluto capire… Fatto sta che il “casus” mi fornisce l’occasione per (riba)dire quanto sia bello e salutare rinnegare e rinnegarsi, guardarsi con occhi nuovi, trovarsi ridicoli, prendere le distanze da se stessi e dalle proprie cose (anche quelle che in un altro momento ci sono sembrate, e sono sembrate agli altri, care, ben fatte e importanti), addirittura farsi schifo, non riconoscersi in una forma ormai passata del proprio sé… Che meraviglia! Odiare il proprio nome, la propria voce, quella Vox che era diventata cognome d’arte, le canzoni che ci hanno portato al successo. “Allora ridateci i soldi che abbiamo speso per acquistare i vostri album e ascoltarvi!”, staranno gridando forse i fan più intransigenti e puristi. Macché, state buoni! Non lo sapete che le opere (capita con le canzoni ma anche con le poesie e i romanzi) una volta usciti dal “grembo materno” di un cantautore o di una band non appartengono più agli autori ma a chi ascolta (o legge) anche se i “genitori” continueranno a portarle in giro per decenni, campandoci e costruendo su di esse altre opere o alla fine rinnegandole? Non chiedete i soldi indietro, scalmanati che non siete altro! Il brano che a voi continua a piacere, nonostante il dietro-front del cantautore, è già vostro da anni, da quando vi ha detto qualcosa anche se al suo autore oggi non dice più niente. Se avete una personalità vi dovrebbe continuare a piacere con o senza il consenso dell’autore; with or without you…
“La poesia non è di chi la scrive: è di chi gli serve” così veniva bacchettato per finta il poeta cileno Pablo Neruda dal postino innamorato Massimo Troisi.
Non si tratta di essere inutilmente severi con se stessi come quando si è inesperti e acerbi; è la serenità della vecchiaia che giudica “gli altri io” lasciati indietro. Non tutti possono.
“Cosa diresti a te stesso se potessi incontrarti all’età di vent’anni?” leggiamo spesso questi quesiti demenziali sui social. E per fortuna che non possiamo incontrarci perché quel che siamo stati appartiene alla ferrea giustizia dell’attimo irreversibile e non alla sua stupida rivisitazione grazie a una “time machine”. Rivisitare no, ma rinnegarsi sì, è bello: come un’evasione da se stessi, una fuga dall’Alcatraz dell’immagine storica che ci siamo costruiti o che gli altri ci hanno aiutati a costruire. Il rivisitare implica un improbabile poter tornare indietro per rifare e farlo meglio, diversamente (ma sarebbe giusto?); il rinnegare, invece, dinanzi alla dittatura del tempo che non si riavvolge, prevede solo “veli pietosi” per coprire parti di sé; ma quel che è fatto, è fatto.

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Te Deum

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C’è una nuova nostalgia
che s’ammanta dei novanta
a volte degli ottanta, e l’Arechi lucente
sospeso nel buio della notte
come un’ultima astronave di savi in partenza
a indicare future rotte, esterne alla follia
superiori alla fede di una cupola in preghiera
e alle banali luminarie dei ciechi,

risuonano le note di quel concerto
di piazza – era vivo il Maestro! –
accalcati tra bollicine notturne e corpi liberi
fuochi avvistati in autostrada, lontani
all’orizzonte già avido di sagge distanze

scegliere il silenzio e la dimenticanza
delle sciagure in epoca di pace, solo il segno
per tornare a quando l’aria fredda
nella notte dei tempi colpiva la vita
in pieno volto, anime raffreddate
in attesa dei numeri

ricorderemo le antiche note
di canzoni spezzate dalla noia delle cifre
suoneremo su goccianti palchi di ghiaccio,
ma ancora dilaga una sobria pazzia
tra le strade della fine rimandata
invocando un laico Te Deum.

(ph M.Nigro©2021; Salerno, Villa Comunale – 29 dicembre 2021)

“Sarà un uomo” – Luca Carboni