Intervista a Francesco Innella sulla raccolta “Kimera – Poesie dell’Io”

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Intervista a Francesco Innella sulla raccolta “Kimera – Poesie dell’Io”

a cura di Michele Nigro

 

Michele Nigro. Perché il titolo “Kimera – Poesie dell’Io”?

Francesco Innella. Prima di scrivere questa raccolta ho pensato di trovare il filo conduttore delle mie poesie e sono arrivato alla conclusione che il mio poetare è stato sempre una ricerca dell’Io. Nella mia poesia ho sempre investigato il ruolo del poeta nel vivere quotidiano. In base a questo principio ho selezionato le poesie contenute in Kimera, che è una aporia: nell’antica filosofia greca con questo termine si indicava l’impossibilità di dare una risposta precisa a un problema, poiché ci si trovava di fronte a due soluzioni che, per quanto opposte, sembravano entrambe valide, ossia – nel nostro caso specifico  ̶  senza soluzione dei conflitti dell’Io.

Che cos’è l’ego per l’uomo-poeta Innella? Bisogna conoscerlo per domarlo, educarlo o semplicemente assecondarlo?

Sulla mia concezione dell’ego ti rispondo con un aforisma di Cioran: “Avremmo dovuto essere dispensati dal trascinare un corpo. Bastava il fardello dell’io.” Ma che cosa è l’ego? È la lotta per mantenere un equilibrio precario tra noi e gli altri. È, in effetti, un conflitto. Conoscerlo è impossibile perché tende sempre a cambiare negli atteggiamenti quotidiani. Quindi non si può domare una cosa che muta. Dobbiamo rassegnarci, e ritornando ancora a Cioran: “Siamo costretti all’io, al veleno dell’ego”.

La tua ricerca sull’Io ha origini “antiche”. Non è la prima volta che con la tua poetica esplori e cerchi di ridimensionare l’ipertrofia dell’Io (anche adottando uno stile sobrio per dare l’esempio!), però scegli comunque la parola, strumento di quell’”effimera verbosità” che citi nella poesia Egoità, per comunicare i risultati della tua ricerca a noi lettori. Può la poesia diventare un valido esercizio di auto-eclissamento?

No, assolutamente: oggi si scrive tanto. Il fenomeno è ben evidente sulla rete perché c’è un grande bisogno di “glorificare” l’ego. Si può raggiungere una distanza dall’ego con la poesia impersonale  ̶  vedi l’haiku  ̶  ma nulla di più.

La Natura ci mette a tacere con i suoi fenomeni, ci rende umili. Perché in seguito dimentichiamo la nostra caducità e ritorniamo a essere arroganti?

Secondo me è tutta colpa dell’antropocentrismo. Concezione secondo cui tutto ciò che è nell’universo è stato creato per l’uomo e per i suoi bisogni, per cui l’uomo si viene a trovare al centro dell’universo e può considerarsi misura di tutte le cose.

La necessità dell’oblio mentre siamo ancora vivi. Perché questo bisogno di annientarsi, di eclissarsi, di perdersi, ritorna spesso nei tuoi versi?

La quiete assoluta è del mondo inorganico, di cui appunto la vita è alterazione. Allora in me prende corpo il principio del nirvana, ossia il ritorno alla quiete, quello che è in fondo il messaggio buddista, ma escludo l’autodistruzione. Il suicidio, secondo Arthur Schopenhauer, è un modo sbagliato di rispondere alle sofferenze della vita.

In Lenimento parli di “antiche presenze” che mormorano: sono ricordi personali dal passato o si tratta di catene interiori tipiche della condizione umana e quindi innate?

Sì, da una parte ci sono i ricordi personali che mi hanno segnato in maniera molto rilevante. Luca Canali, nell’antologia “I poeti della ginestra”, mi descrive come una persona che ha l’animo vulnerato per l’assedio dei suoi simili; dall’altra parte non riesco a superare le catene interiori tipiche della condizione umana, e tutte e due queste situazioni sono evidenti nel mio poetare; mi sento toccato da un’angoscia che ha origini antiche, che ho sempre avvertito e che non si dilegua ma continua nel tempo a sussistere; è una ferita interiore che non guarisce.

Il dolore è solo un’esperienza che causa tristezza o può rivelarsi fonte di energie preziose inutilizzate e da rimettere in gioco per costruire il bene?

Oggi si usa molto la parola resilienza che in psicologia indica la capacità di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà. Io credo che il dolore favorisca la crescita: Aldo Carotenuto, psicoanalista junghiano, ha sempre parlato della ferita interiore come di una feritoia dalla quale osservare il dolore e iniziare il suo superamento e trasformarlo in bene dal momento in cui si è giunti alla consapevolezza della propria dolorosa  condizione.

In La luna “uomini in torri d’avorio / sognano illusioni”; forse sono gli stessi esseri umani che come noi percorrono “le strade del nulla” citate nella poesia I gatti. Quali sono queste illusioni e cosa potrebbe contribuire alla nostra liberazione da esse?

Carlo Michelstaedter sostiene che ognuno di noi non riesce a uscire dal cerchio illusorio della vita, ci rinchiudiamo nelle nostre torri d’avorio e scriviamo poesie, siamo noi stessi che coltiviamo la poesia come rimedio al vuoto: io sono poeta perché ho sperimentato il nulla e le sue numerose strade. Difficile definire le illusioni, sono molteplici: ogni essere umano ha le proprie ed è difficile liberarsi da esse; forse, come dice Krishnamurti, dovremmo avere il coraggio di eliminarle e avvertire il vuoto che si nasconde dietro di loro, ma poi si ha il coraggio di affrontare il vuoto? O ci spaventiamo e ci facciamo catturare dalle illusioni che permettono a tutti noi di vivere?

“Il canto si spegne / tra i fatui bagliori / di una esistenza mancata” (Il camino). Quale esistenza abbiamo già mancato o stiamo per mancare? 

Tutta la nostra esistenza è una mancanza: se non lo fosse, non avremmo voglia di completarci attraverso la scrittura, o altre esperienze più significative; quando si sperimenta la privazione e si sente il bisogno di esplorare, di tuffarsi nell’indefinito, allora la mancanza viene assorbita dal fare e forse in quel momento si può toccare l’essere, o sfiorarlo almeno.

“… nel mistico silenzio / l’ego si appanna / e tace” (La Via interiore). Come può l’uomo contemporaneo tornare a ricercare, ammesso che voglia ricercarlo, questo mistico silenzio?

L’uomo contemporaneo, tranne poche eccezioni, è assorbito dal frastuono della vita e ascolta i nuovi imbonitori che lo distraggono dalla cosa più essenziale: la conoscenza di sé; quindi parlare di mistico silenzio è una cosa ardua per l’uomo di oggi, se non impossibile. Io ho raggiunto il silenzio in poche occasioni, generalmente dopo la recitazione di un mantra, ma ti posso assicurare che è una cosa difficile e rara da realizzare, e ti dico questo perché non sono un mistico, ma comunque ci ho provato. E l’esperienza del silenzio interiore è totalizzante, ti senti assorbito nel Tutto.

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Tutto è flusso

Amava visitarla sotto la pioggia di Dicembre
nel periodo della contraddizione,
città prigioniera del suo sole da cartolina.
Fu dopo aver letto alcune frasi di Bohm
che scoppiò in lacrime discrete
mentre camminava
tra i vicoli di Napoli e la folla di turisti
in cerca di pastori e pizza.
Scoprì che tutto è flusso
movimento e illusione.
Che la morte non esiste.
Allora cosa sono queste luci di festa?
Questo traffico per i regali?
L’odore d’incenso dolciastro
fuori Santa Chiara?
Le reminiscenze borboniche?
Le biblioteche ricolme di incunaboli?
La bella signora in cerca d’avventure
e la musica dal conservatorio?
Cos’è tutto questo?
Questa paura di bagnarsi e la fuga
sotto gli ombrelli della coscienza?

(tratta da “Nessuno nasce pulito”, ed. nugae 2.0 – 2016)

N I G R I C A N T E

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Amava visitarla sotto la pioggia di Dicembre

nel periodo della contraddizione,

città prigioniera del suo sole da cartolina.

Fu dopo aver letto alcune frasi di Bohm

che scoppiò in lacrime discrete

mentre camminava

tra i vicoli di Napoli e la folla di turisti

in cerca di pastori e pizza.

Scoprì che tutto è flusso

movimento e illusione.

Che la morte non esiste.

Allora cosa sono queste luci di festa?

Questo traffico per i regali?

L’odore d’incenso dolciastro

fuori Santa Chiara?

Le reminiscenze borboniche?

Le biblioteche ricolme di incunaboli?

La bella signora in cerca d’avventure

e la musica dal conservatorio?

Cos’è tutto questo?

Questa paura di bagnarsi e la fuga

sotto gli ombrelli della coscienza?

a sinistra: Jiddu Krishnamurti (1895–1986) a destra: David Bohm (1917–1992) a sinistra: Jiddu Krishnamurti (1895–1986)
a destra: David Bohm (1917–1992)

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“Poesie sospese”, silloge prima

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Poesie sospese, come i “caffè sospesi” a Napoli, offerte gratuitamente ai poveri in parole ma bisognosi istintivi di significanti, agli indigenti della città dell’anima, ai mendicanti del verbo che è balsamo scritto su carta effimera, ai cercatori inconsci di significato attraverso le poeticherie di altri avventori. Senza alcuna pretesa consolatoria o “farmacologica”, si tratta ancora una volta di poesie minori e pensieri minimi lasciati sul bancone di un “bar internautico” a chi è di passaggio e gradisce sorseggiare miscele inedite, a un lettore sconosciuto che va di fretta o che invece vuole concedersi qualche minuto di pausa per girare con il cucchiaino della riflessione i versi concepiti da altri; poesiole donate a chi non può permettersi di giocare con le parole, di pagarle in prima persona, di viverle sulla propria pelle. La filosofia, solidale e filantropica, dell’economia circolare applicata al poetare: continua l’avventura dei materiali di risulta riciclati in nome di una sostenibilità esistenziale.

Michele Nigro

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Allenamento

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Dopo la prima prova girando per il mondo
dolgono i muscoli, la pelle bruciata
dal sole che più non ricordava, sfrigola di stupore

la seconda, con il corpo in ripresa tra unguenti di buio
il fascio frollato di carne e idee occidentali
si rimette in viaggio verso una Lhasa dei motivi

la terza e la quarta, le ferite guarite presso oasi di noia
reclamano nuovi cammini, balzi più audaci all’alba
il vento caldo carezza le ossa già saldate e pronte

la quinta prova è un tripudio di passi che baciano terra
la speranza instancabile brama l’incontro
con la fatica divenuta pensiero profondo, vero
finalmente una filosofia di vita itinerante.

(ph M.Nigro©2022)

La Fortezza Bastiani e la “filosofia” del confino

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Il confino è come la Fortezza Bastiani de Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati. Inizialmente spaventa, respinge, predispone l’animo a un rapido e risolutivo allontanamento per fare ritorno a quella – così definita dal senso comune – “vita civile” e colorata che solo la città saprebbe offrire. In un secondo fatale momento il confino comincia a legare a sé i suoi frequentatori, li affascina, insidia il loro passo cittadino con nostalgie semplici, con richiami mai espliciti o invadenti, facendo leva su elementi naturali, primordiali, che parlano alla parte ancestrale del visitatore. Ogni confinato ha la sua Fortezza Bastiani (luogo geografico indefinito) che droga la volontà lentamente, nel corso degli anni del bisogno più urgente, a piccole dosi, fino a renderlo dipendente; dolcemente, inesorabilmente, in alcuni momenti ossessivamente dipendente dalle sue forme, dai suoi colori e odori, dalle visioni notturne, dai suoni che non avverte in altri luoghi, un misto tra rumori casalinghi, familiari e musiche naturali ricche di silenzio, lì dove la natura ancora abbraccia le costruzioni umane, sul valico di un delicato compromesso. Il passaggio è graduale, avvertito dal profondo delle ossa; il trascorrere del tempo è lieve ma senza inganni, senza disillusioni; i gesti ordinari, impossibili da coltivare in altri contesti caotici, diventano azioni sacre, confortanti, geometriche, rituali, senza mai risultare insensate. L’ordine che regna al confino è di tipo monastico-militaresco ma è necessario per giungere a un’origine pura e cristallina del pensiero, per salvarlo dalla confusione annebbiante dei restanti giorni, quelli lontani vissuti in città. Anche per il confinato in tempo di pace, come per il Giovanni Drogo della Fortezza Bastiani di Buzzati, l’orizzonte è gravido di avvenimenti, di novità mai definite ma auspicate, che la pace campestre – così come il deserto – ignora perché già realizzate in se stessa; di guerre culturali nell’altrove, ma che vengono a prendere forza e a procurarsi armamenti interiori nella quiete bucolica di un paesaggio elementare, esempio particellare di più ampi, complessi e rumorosi schemi metropolitani. Il dubbio se il tempo speso al confino sia un tempo sprecato, e che fugga in quanto è un tempo dolce, appagante un ordine interiore, resta fino alla fine dei giorni; ma è un tormento addomesticato dalla benevolenza dei traguardi raggiunti dall’anima, da ciò che si riporta in città sotto forma di nuova energia. Ci si innamora del confino come della Fortezza Bastiani che tutto sorveglia e in teoria protegge nella semplice e rassicurante ripetizione di una regola non scritta, ma naturale, spontanea, primitiva, non riproducibile altrove. Quando si ritorna in città, niente è come prima della partenza perché il confino Bastiani ha già modificato il DNA del confinato, ha alterato nel profondo la classifica delle priorità, quelle “false”, che non sapevamo essere false prima di abbandonarci fiduciosi alle dolcezze dell’autoesilio. Perché è dai deserti – ma questo lo si apprende in seguito, dopo anni di esercitazioni – che arrivano le migliori speranze, le glorie attese, i finali che fanno storia (“Avete tutti la smania della città, e non capite che è proprio nei presidi lontani che si impara a fare i soldati”). Dalle città luminose e ricche di vetrine che mostrano occasioni sentimentali a buon prezzo, non giungono che saldi per l’anima, effimeri sconti esistenziali. All’inizio l’assuefazione culturale è potente e la città richiama all’ordine i suoi figli dispersi su confini anonimi, in cerca di verità trasversali che inizialmente essi stessi ignorano e perché estranei a una solitudine non ancora richiesta o cercata. Scrive Buzzati: “… una forza sconosciuta lavorava contro il suo ritorno in città, forse scaturiva dalla sua stessa anima, senza ch’egli se ne accorgesse.”

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La presenza nell’assenza: un anno senza Franco Battiato

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La presenza nell’assenza: un anno senza Franco Battiato

“… Percorreremo assieme le vie che portano all’essenza…”

Ho sempre avuto un approccio da “archivista” nei confronti della morte: di quella di un parente, di un amico… Superato un comprensibile momento iniziale di smarrimento per la dipartita, senza perdermi d’animo, anzi con ancor più lena, ho sempre dato spazio a una conseguente opera di “raccolta e archiviazione” di tutti quegli elementi esistenziali che hanno caratterizzato un vissuto comune, un cammino condiviso: stampare il dialogo di una chat, elencare date cruciali, raggruppare foto, raccogliere materiale… per me rappresentano gesti naturali del post-mortem. Come a voler congelare non il momento della morte in sé, quanto piuttosto il percorso concreto, tangibile, che l’ha preceduto; un appiglio materialistico sull’abisso, un modo per dire a se stessi che nulla, neanche una briciola, andrà perduta di quel che è stato fatto insieme; per non darla vinta alla morte che livella – lei sì, archivista definitiva e inesorabile! -, che chiude a ogni possibilità di proseguimento di un discorso tra viventi che emettono suoni. Allora ci si affida alla stampa dei reperti per averli sottomano nei giorni successivi alla tumulazione, alla tecnologia che conserva negli hard disk pezzi di testimonianze anche frivole di ciò che è stato, alle registrazioni per quando verrà a mancare il ricordo della voce, alle immagini catturate da un vivere quotidiano senza cronaca, almeno per noi “comuni mortali” non famosi. Tutto viene sigillato in scatole, poi seppellite in armadi, in attesa di quei giorni in cui c’è più bisogno di ravvivare memorie, di ricordare fatti ricoperti dalla polvere ma non dimenticati, spostati dalla visuale ma non cancellati. Qualcuno dice che esagero a conservare tutto, che dovrei lasciar andare, che dovrei fare space clearing: ma non c’è ossessione nel mio conservare, c’è solo previdenza, cura museale per vite poco importanti agli occhi della Storia. Si conserva il passato perché il nostro cervello, giustamente, per fare spazio alle urgenze del presente, lascia andare fisiologicamente molti dati considerati “inutili” alla quotidianità.

Quando, però, ad “abbandonare il pianeta” è una persona altrettanto cara e preziosa come Franco Battiato, che non ha bisogno di “archiviazioni” d’urgenza, come nel caso del parente o dell’amico sconosciuti alle cronache, in quanto la sua stessa esistenza artistica è stata produttrice naturale di tracce non solo sonore, si finisce con l’interrogarsi sul reale significato della “presenza nell’assenza” di un personaggio pubblico di tale calibro, che ha avuto e ha un impatto umano, spirituale e artistico, diverso rispetto a quello di altri nomi altrettanto autorevoli del cosiddetto “mondo dello spettacolo”. Nomi di personaggi estinti, cari a un popolo in fila sotto il sole per salutare il feretro, osannati e pianti, certo, ma la cui essenza va ad affievolirsi, oserei dire naturalmente, nel corso del tempo: questi passanti, a maggior ragione, sono bisognosi di archivi e teche Rai da rispolverare.

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Battiato, invece, si fa ricordare con una forza crescente proprio nel silenzio e nella distanza; più si lascia sedimentare l’evento umano della sua morte, più la sua essenza risale attraverso i mesi e le distrazioni come un “rigurgito spirituale”. Battiato non apprezzava gli archivisti; raccomandava sempre di non raccogliere ossessivamente tutto su di lui: interviste, foto, video, bootleg, “rubriche aperte sui peli” di Battiato e “reliquie” varie… Ci preparava, già allora, alla ricerca dell’essenza, al non attaccamento alle cose e ai corpi cantanti. Anche l’Egitto, con le sue piramidi e le sue meraviglie, prima o poi verrà ricoperto nuovamente dalle sabbie, e i musei perderanno i propri reperti custoditi gelosamente: la materia è destinata a dissolversi, come le onde in uno stagno o quelle sonore di una canzone. Ma l’essenza no, quella permane anche senza l’ausilio degli oggetti archiviati: come nel film “Padre” di Giada Colagrande, la presenza dell’estinto (interpretato proprio da Battiato) si fa ancor più viva e significativa – per comodità cinematografiche si identifica questa presenza attraverso la figura ormai folcloristica del classico fantasma – all’indomani della sua dipartita: ed è un esserci discreto, non spaventevole, silenzioso (silenzio a cui Battiato, per questioni private non da tutti rispettate, ci aveva già consegnati molto tempo prima di attraversare “la porta dello spavento supremo”). “Un giorno senza tramonto / le voci si faranno presenze”: è la scoperta dell’essenza nell’assenza, anche dell’assenza in vitam. Una scoperta che può essere fatta solo se si ha il coraggio, a un certo punto, di abbassare l’audio dei vari tour commemorativi, degli affollati e umanamente comprensibili concerti-evento per onorare il grande artista, e di affidarsi seppur dolorosamente alle sole registrazioni discografiche di una voce destinata a non ritornare, mai più, per come eravamo abituati a percepirla, ovvero attraverso i limitati sensi umani: la voce del padrone di un corpo disfatto, che non rivedremo mai più muoversi, cantare, scherzare, suonare, danzare su un palco come negli anni gloriosi e spensierati dei live in giro per il mondo e dei nostri viaggi in vista di concerti estivi, tra piazze e cavee. “Spensierati” fino a un certo punto: la musica di Battiato solo in superficie lasciava spazio a un goliardico citazionismo all’apparenza slegato e al cazzeggio cuccurucucheggiante dei fine concerto sotto i palchi; in realtà i testi e la musica di Battiato, come ben sa chi l’ha musicalmente frequentato, scavavano in profondità, mutavano inesorabilmente l’animo dell’ascoltatore, si prendevano il loro tempo, disseppellivano angolazioni interiori non catalogabili, di quelle che ci invitavano e ancora c’invitano al viaggio in paesi che tanto ci somigliano: territori spirituali ma anche geografici; a volte prima geografici e poi spirituali.

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Viaggiare con Battiato nelle cuffie, colonna sonora di traversate solitarie in territori non per forza mistici, a volte popolari, turistici, affollati come i mercati arabi in paesi stranieri o il “suk palermitano” di Ballarò, perché Battiato rappresentava e rappresenta l’esperimento riuscitissimo di una ricerca superiore fatta con mezzi appartenenti alla cosiddetta “musica di comunicazione”, non per forza di consumo (pur essendo stata anche di consumo), e che diede vita a un inedito, colto e ossimorico “pop elitario”. Così come fanno certi vaccini di ultima generazione, veicolava “frammenti genetici” di insegnamenti sconosciuti e antichissimi attraverso l’involucro “innocuo” del mezzo sonoro: l’obiettivo non dichiarato era quello di creare un’immunità (mai “di gregge” perché Le aquile non volano a stormi, ma amano e difendono la propria individualità) agli “urlettini dei cantanti”, al facile consenso dato ai tormentoni estivi dalla vita effimera, a un cantautorato nostrano incapace di offrire strade culturali alternative o esotiche, quando non addirittura esoteriche. Ha portato, musicalmente parlando, l’Alto alla portata di quasi tutti, senza mai scendere a compromessi con il Basso, con gli istinti un po’ bestiali e i desideri mitici dei suoi stessi fan che sistematicamente – per nostra fortuna – ignorava, con i “livelli inferiori” della condizione umana che aspirano a una facile fruibilità del mezzo. Ha seguito e rispettato i propri interessi culturali e non quelli suggeriti dal mercato, pur avendo venduto milioni di copie. E soprattutto ci ha fatto comprendere che tentare di modificare i massimi sistemi – primi fra tutti quelli politici! – è inutile oltre che pretestuoso, e che è ben più arduo ma spiritualmente soddisfacente (Battiato sarà sempre il nostro “Assessore alle Meccaniche Celesti”!) impegnarsi a cambiare il proprio microcosmo interiore, a rendere migliore ciò che abbiamo a portata di mano in noi stessi. Engagez-vous!

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L’insostenibile pesantezza dell’essere (multitasking)

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L’INSOSTENIBILE PESANTEZZA DELL’ESSERE (MULTITASKING)

Elogio delle urgenze

(Riflessioni messe in ordine durante una camminata veloce)

1) La vita è inevitabilmente “multitasking”; in questa nostra particolare era storica, poi, lo è ancora di più a causa di un progresso del cosiddetto “problem solving” – niente a che vedere con l’approccio epistemologico di Popper nella sua opera finale intitolata “Tutta la vita è risolvere problemi” – che porta l’utente nel giro di poche ore a “risolvere e re-impegnarsi” senza sosta (re-engagement), come il topolino che gira nella sua ruota, ovvero a mettere da parte un problema risolto per passare a quello successivo ancora da risolvere e se non c’è un problema a inventarsene uno nuovo dal nulla perché il multitasking aborrisce il vuoto, il non fare, l’ozio creativo. Deve tenersi occupato, in eterno allenamento per dare senso (o meglio, un “certo tipo” di senso) ai giorni dell’uomo del terzo millennio. Ma il fare non sempre è sinonimo di creare, anzi: il fare compulsivo distrae dalla vera creazione solida, permanente, meditata. L’elenco degli impegni da depennare contro la settimana di Dio descritta nella Genesi. Chi vincerà stavolta?

Il problema principale con il multitasking – proprio in virtù della sua caratteristica di “contemporaneità” delle azioni – è che sono state abolite le priorità tra livelli (anche nel medioevo l’uomo era multitasking nonostante una certa specializzazione corporativistica; bisognava essere in grado di spostarsi su livelli differenti di azione e questa capacità era soprattutto dettata dal ceto sociale a cui si apparteneva e quindi dalle disponibilità economiche): oggi che l’intera umanità è in gara per una vittoria sicura – perché così gli hanno promesso e l’umanità c’ha creduto! – tutti i livelli del multitasking sono al primo posto e quindi tutti sono diventati importanti anche se molti tra questi non lo sono affatto; una voce dentro di noi sa che non tutti i livelli hanno la stessa importanza e ce lo urla, ma noi ci giriamo dall’altra parte, diamo retta solo al programma che “processa” tutto contemporaneamente, e superiamo il suono di quella voce con altri rumori creati all’uopo per non farle acquisire udibilità. Tutto deve essere risolto, il fare viene prima dell’essere, del pensare, eventualmente del rimandare a un secondo momento. Durante un funerale, mentre passa il feretro, ci scopriamo a parlare di questioni condominiali con i vicini: la morte viene misurata in millesimi e le faccende terrene non ammutoliscono nemmeno dinanzi al sacro mistero della vita che finisce, e che esigerebbe silenzio e inattività riflessiva.

2) Non tutti i livelli di questa esistenza multitasking sono piacevoli: alcuni devono essere affrontati “obtorto collo” e le questioni fastidiose, le vicende tristi, gli impegni presi, vanno risolti con una razionalità quasi automatica, d’ufficio, che a lungo andare ci rende “robotici”, veloci, efficienti, produttivi. Anche la malattia ha un suo iter diagnostico supercollaudato ed efficientissimo: i vari passaggi fanno parte di un’esperienza scientifica acquisita che è diventata routinaria, scontata, istituzionale. Il progresso medico che alcuni decenni fa stupiva i primi fortunati, oggi è vissuto in una quotidianità che non sorprende più. Anche se la strada da fare per sconfiggere molte altre malattie, e per renderle affrontabili da tutti indipendentemente dal ceto sociale o dal reddito, è ancora lunga. Ma l’approccio alla possibilità di una guarigione è diventato accessibile, sistemico.

3) Per non morire dentro e salvaguardare la parte di noi non pubblica, non indaffarata, quella più intima, vera, autentica, immobile, dopo aver affrontato i vari livelli che il quotidiano ci costringe ad affrontare, c’è bisogno di sostare per un po’ presso un “livello superiore”, imparziale, non operativo ma contemplativo, che domini sugli altri, inferiori a loro insaputa, di una visione dall’alto che ognuno di noi realizza in base al tipo di ricerca impostata, alla cultura di appartenenza, al grado di sensibilità, oserei dire “di fede”… Un livello superiore strettamente spirituale o laico-filosofico, che dia un senso al nostro multitasking di cui non possiamo fare a meno, e soprattutto ristabilisca le priorità al margine del caos. Priorità che andrebbero di fatto a “smontare” e quindi ad annullare la caratteristica funzionale del multitasking.

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“L’uomo che cammina” per la Pace!

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Scrive Christian Bobin, riferendosi alla resurrezione del Cristo senza peraltro mai nominarlo, in L’uomo che cammina: <<L’uomo che cammina è quel folle che pensa che si possa assaporare una vita così abbondante da inghiottire perfino la morte. Coloro che ne seguono le orme e credono che si possa restare eternamente vivi nella trasparenza di una parola d’amore, senza mai smarrire il respiro, costoro, nella misura in cui sentono quel che dicono, sono forzatamente considerati matti. Quello che sostengono è inaccettabile.>> Cosa c’entra il Gesù camminante di Bobin con la 60ª edizione della Marcia per la Pace Perugia-Assisi  ̶  organizzata per la prima volta nel 1961 da Aldo Capitini  ̶  svoltasi lo scorso 10 ottobre? Apparentemente nulla, dal momento che si tratta di una marcia laica, aconfessionale, inclusiva, apartitica, anche se mai apolitica perché tutto è “politico”, nel senso nobile del termine: anche i granelli di sabbia sollevati dai piedi dei marciatori sono politici. La vera politica è azione senza colore ma di valori, è scelta di movimento, di fede folle, di cammino verso un obiettivo ideale ma concretizzabile passo dopo passo, pacificamente, senza assaltare sedi di sindacati o di partiti. C’entra perché i matti, credendo, avendo fede nella realizzazione di un mondo migliore, non attendono immobili l’arrivo del cambiamento ma si fanno movimento, camminano, pur nella limitatezza dello spostamento (“solo” 24 km per i partecipanti alla Marcia). Ancora Bobin: <<Il movimento è dare tutto se stesso>>; il marciatore per la pace consegna simbolicamente per poche ore il proprio corpo, non solo i propri ideali e il proprio tempo, nel tragitto tra Perugia e Assisi (città in guerra tra loro nel medioevo), alla causa. Una consegna che non si esaurisce con il raggiungimento del traguardo sportivo perché <<dio è un uomo che cammina ben oltre il tramonto del giorno>>; la marcia interiore continua ritornando a casa, all’indomani della confortante e colorata marea umana, nei propri luoghi d’esistenza, tra le pieghe di abitudini da scardinare in nome di un’autentica evoluzione dell’umanità ma a partire da se stessi e non pretendendola solo dagli altri: l’“I Care” milaniano  ̶  tema di questa storica edizione  ̶  è un prendersi cura, un interessarsi in prima persona e non più delegato, una responsabilità diretta dell’individuo a partire dal microecosistema del vissuto quotidiano.

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Mal’ore

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Sono le mal’ore notturne
quelle d’inverno cattive e cieche,
strappano virgulti d’anni
alle amicizie sfiorate
con folate di morte
gelate dai rami del futuro

non avvisano dall’uscio
una voce che prepari,
battute lasciate a metà
tra rossi calici ancora pieni
sotto ruderi di cielo

l’età fermata, nel buio cristiano
della pietra inattesa
mentre s’illudono di respiri
e di nuvole impigliate
in finestre di chiesa
come incensi sul mondo

i tristi sopravvissuti
al giorno in più.

(immagine: Alfred Kubin – The Way to Hell, 1904)

Angelo Branduardi – Ballo in Fa# Minore

versione pdf: Mal’ore

Matrix Resurrections

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Matrix 4 e la crisi di mezza età

(un po’ di spoiler qua e là, attenti!)

Stasera, vedendo al cinema Matrix Resurrections, ho rivissuto alcune delle sensazioni provate con Trainspotting 2 e Blade Runner 2049. Personaggi che tornano sul luogo del delitto, questioni da affrontare, trame da completare forse più per nostalgia che per altro. Con i sequel si rischia tantissimo e lo sappiamo, ma si ritorna al cinema, dicevo, per nostalgia dei protagonisti che abbiamo amato 20 o 30 anni prima. E i produttori lo sanno.
Siamo tutti dei fottuti pantofolai cinquantenni; ci abboffiamo di pillole blu (non quella della Pfizer, l’altra: quella che Morpheus offre a Neo insieme alla rossa che libera) e pensiamo che il nostro vissuto sia solo un videogioco. Andiamo dall’analista, ci affidiamo alle sue cure, ma è proprio lui che c’inganna e ci prescrive le pillole blu. I rivoluzionari che c’avevano liberati molti decenni prima, si sono imborghesiti e hanno raggiunto un compromesso con i vecchi nemici: le macchine. Forse non conviene risvegliare proprio tutti tutti… Un po’ di umanità lasciamola ancora a nanna! La tregua dopo una guerra porta sempre a un Piano Marshall (o a un PNRR) che accontenta un po’ tutti: però cara Niobe, che tracollo… caspita! Posso capire le rughe e la vecchiaia, ma ti ricordavo più combattiva. Non resta che risvegliare l’altra metà del cielo: l’amata Trinity. Ma vorrà lasciare marito, figli e hobby, la sua vita tranquilla, per un mezzo squilibrato che la tampina in un caffè? Eppure Matrix si nutre proprio di questo equilibrio tra paura e desiderio che produce molta più energia. Più efficienza dalle batterie umane che ricordavamo nel primo capitolo della saga. Neo e Trinity si fanno un bel sonnellino nelle loro capsule per la resurrezione: sono abbastanza lontani tra loro per non creare pericolose interazioni ma anche abbastanza vicini per dare vita all’energia che serve al sistema. Della serie: vivete, producete ma senza dare fastidio.
Diamo una seconda possibilità a questi cinquantenni imbolsiti e disincantati: ma che vogliono sti giovani che ci risvegliano dal nostro riposino? Vogliono fare la rivoluzione?

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“Il passaggio degli angeli”, dal romanzo di Périer ai film di Wenders

versione pdf: “Il passaggio degli angeli”, dal romanzo di Périer ai film di Wenders

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“… Ma questi miracoli in pieno giorno
Solo in poesia possono ancora stupire…”
(Il passaggio degli angeli – Capitolo XIII)

C’è un libro dietro gli angeli berlinesi del regista Wim Wenders, immortalati nei film “Il cielo sopra Berlino” (1987) e “Così lontano così vicino” (1993): il titolo è “Il passaggio degli angeli” (Le Passage des anges), romanzo del 1926 scritto dal belga francofono Odilon-Jean Périer; anche se definirlo romanzo è limitativo: si tratta infatti di prosa poetica in salsa — direbbero, forse, gli appassionati del genere — urban fantasy, la cui architettura ricorda, è vero, il racconto lungo, interrotto di tanto in tanto da versi a corredo di un’atmosfera “magica” e gravida di eventi, ma che dalle regole del romanzo si svincola con maestria fin dalle prime pagine. Périer, prima di ogni altra cosa, è un poeta surrealista, cercatore di una purezza angelica oltre le umane imperfezioni. La città descritta in questo romanzo breve è una città in perenne attesa di una svolta: “Attendono tutti un temporale, una soluzione.” Il tono è sibillino, imprevedibile, istintivo, come se fossero gli occhi del poeta a scrivere direttamente su carta e non la sua mente. È la storia sovrannaturale e bizzarra di tre angeli — Alpha, Michel e Misère — scesi in una città senza nome (perché la storia è adattabile a tutte le città passeggiate dai poeti, prim’ancora che alla Bruxelles di Périer) a osservare la vita insignificante e assurda degli umani: “Infine apparvero gli Stranieri. […] Tutti avevano visto degli angeli, ma nessuno credeva agli occhi del vicino. Quei personaggi misteriosi si presentavano con naturalezza, come degli amici che si ritrovano nel momento del bisogno. Se ne stavano in piedi sugli alberi, seduti sui bordi dei tetti, in fila, senz’ali, magri, decenti, vestiti di grigio perla o d’azzurro. […] Chi li aveva incontrati […] parlava di poesia, di amore, di libertà.” Solo i forti e i filosofi troppo saggi non li vedono, mentre “Tutte le ragazze avevano già il loro angelo, amico intimo.”

Odilon-Jean Périer
Odilon-Jean Périer

Le città da sempre hanno bisogno di miracoli: “Miracolo a Milano” (1951) di Vittorio De Sica, Il miracolo della 34ª strada” (1947) di George Seaton… C’è bisogno di interrompere il dominio asfissiante della ragione e del positivo, per dare spazio — sospendendo momentaneamente l’incredulità — al meraviglioso, al surreale, al sovrannaturale, all’incredibile possibilità di una visione dall’alto. Ma gli angeli di Périer, al contrario, si lasciano miracolare, si calano nell’umanità, assecondando la Legge Marziale degli spiriti solidi, perdendo ben presto la loro divinità; non è una sconfitta, un difensivo lathe biosas epicureo o un mimetizzarsi per timidezza (“dei veri angeli non hanno bisogno dell’aureola”), bensì è il prezzo dello scambio: “degli angeli non scendono sulla terra senz’apportarvi dell’incertezza”, senza alterare gli schemi delle umane sicurezze e dei poteri; in cambio imparano tutto o quasi sui pregi e difetti della specie ospitante (“C’è molto da fare, molto da sperimentare, qui… […] Ci è permesso d’esaminare da vicino le loro gioie, le loro cerimonie.”), diluendosi in essa, innamorandosi, ascoltando le domande e i desideri del mondo, simulando una vittoria dei filosofi saggi e dei realisti che amano il buon senso, il visibile e la scienza: “Non pensavano più in alcun modo a volar via. Molti di loro avevano messo su un po’ di pancia…”.

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I tre angeli sperimentano l’amore e il piacere (“Michel, con le lacrime agli occhi, dovette arrendersi a quell’amore terrestre”; mentre Misère conosce Christine Ègalité, la fanciulla armata del Circo Jacques: anche ne “Il cielo sopra Berlino” di Wenders c’è una ragazza, Marion, che lavora nel circo ma è una trapezista che indossa finte ali d’angelo), la sensualità e la bellezza, la violenza che lascia cicatrici, gli scrupoli e la perdizione, la vita coniugale e la carnalità occasionale, la libertà e il disprezzo per la saggezza dei vecchi, la religiosità morbosa e l’idolatria (le strutture sociali e culturali della nazione si allineano alla religione ufficiale e al Maestro di turno), l’ebbrezza del consenso popolare, il possesso e la gelosia, la pressione dei doveri di un soldato, la noia e il dolce far niente (“aveva il tempo di cogliere con agio la vita terrestre, ammirando le vetrine, inseguendo le ragazze, toccando ogni cosa”). Il futile e la bassezza morale: per dimenticare di provenire dal cielo e avere la sicurezza, una volta per tutte, di essere diventati uomini. Lo scopo di questa full immersion nell’umanità è quello di salvarla dall’inerzia, dalla codardia e dalla cauta disperazione, dagli “artifici della gentilezza e del linguaggio”: “Uomini! Ci sono delle cose da fare nella vita di un uomo, e voi rapidamente vi decidete a dormire, senza indugi: ah, come rinunciate senza pena al vostro bel potere…”. La bellezza dell’esistere prevale su ogni falsa religione: solo la poesia può farsi garante di questa bellezza. Non mancano i dubbi e un senso di straniamento: “Che cosa siamo venuti a fare qui? […] Un bel mattino ci troviamo in piedi tra delle strane bestie, graziose e folli, seducenti. Perché noi tre, tra tutti gli angeli?”. Il romanzo fantasioso e magico di Périer diventa filosofico (anche se l’Autore ci avverte che il suo scritto non ha motivazioni profonde, obiettivi edificanti o simboli da cercare): forse per comprendere il senso del nostro esistere qui e in questo modo, per riconquistare le ragioni del nostro esserci, bisogna diventare, o almeno sentirsi, un po’ come degli angeli calati per caso in una realtà aliena e riuscire a stupirsi (“Vedo la città in cui abito; com’è strana…”) anche delle cose più scontate, a riscoprire e quindi riscoprirsi, a sperimentare con una curiosità primordiale; stupore e curiosità fanciullesca che nel primo film “angelico” di Wenders sono ben rappresentate dalle parole di una poesia di Peter Handke, (contestato) Premio Nobel per la letteratura nel 2019 e collaboratore ai testi del regista, intitolata “Elogio dell’infanzia” (Lied vom Kindsein) e che del film ne costituisce la filigrana (una sorta di poesia-copione) su cui si innestano le immagini di un regista istintivo e privo di un piano ben preciso:

“… Quando il bambino era bambino,
era l’epoca di queste domande:
perché io sono io, e perché non sei tu?
perché sono qui, e perché non sono lì?
quando comincia il tempo, e dove finisce lo spazio?
la vita sotto il sole è forse solo un sogno?
non è solo l’apparenza di un mondo davanti al mondo
quello che vedo, sento e odoro?
c’è veramente il male e gente
veramente cattiva?
come può essere che io, che sono io,
non c’ero prima di diventare,
e che, una volta, io, che sono io,
non sarò più quello che sono?…”

Ma non tutti ce la fanno a riprendere il candore delle domande ancestrali, neanche tra gli angeli: c’è chi “vuole inebriarsi della stupidità del mondo”, chi si dà alla politica, chi si illude con un’attività senza rischi come il cinema che simula la vita vera (“… nulla è più buffo del fatto di vedere gli uomini evolvere in funzione dei sogni che gli si attribuiscono.”)… Si cerca di capire se abbiamo perso la nostra originalità: “Sono ancora l’angelo che ero?”. Forse gli esseri umani sono tutti angeli caduti in terra e divenuti immemori della propria spiritualità. Per agire sulla Storia bisogna fare delle scelte, manifestarsi, perché “… l’errore è di restare un angelo tra queste persone. Tutto è facile, — per me solo. Ma se mi occupassi della gente? Se tentassi d’animare uno dei tanti imbecilli… […] Scopro le vie deserte della mia città. […] Domani comincerò ad agire sugli uomini.” Occuparsi di Politica, scegliere l’anarchia anche se un po’ fuori moda: l’astensionismo e l’antipolitica per giungere, paradossalmente, al vero senso dell’uomo politico che non delega, libero ma in prima linea. Forse alla fine il vero miracolo è ritornare a vedere la bellezza naturale delle cose e della realtà con occhi umani: “Chi ha mai creduto ai miracoli? Non accade nulla. È la mezzanotte di una giornata come le altre…”.

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“Il fantasma dentro la macchina” di A. Koestler diventa audiolibro

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Grazie al lavoro meritorio di Rossana Marino, il saggio di Arthur Koestler “Il fantasma dentro la macchina” è diventato un comodo audiolibro gratuito e consultabile dal pubblico interessato: sul canale YouTube che ospita le letture, ogni capitolo del libro corrisponde a una “puntata” dell’audiolettura. Di seguito si propone il primo capitolo: i successivi, di diversa durata, sono elencati nel canale e facilmente riproducibili.

Nel ringraziare Rossana Marino per questa iniziativa che le fa onore, vi auguro buon ascolto… in attesa di una ri-edizione italiana di questo importantissimo scritto (attualmente ancora fuori catalogo e quindi non disponibile sul mercato editoriale!) che, oltre a essere fonte di complesse e inesauribili riflessioni biologico-filosofiche, è stato e sarà istigatore di altre idee e creazioni artistiche…

Nota a “Lo scarto della retina” di Daniele Zanghi

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Dietro la poeticità bella a leggersi e la sicurezza dell’eloquio rappresentate nelle 12 poesie della silloge di Daniele Zanghi, intitolata “Lo scarto della retina”, si nascondono un milione di domande irrisolte e ataviche. C’è una domanda incombente sull’origine delle cose quotidiane apparentemente scontata e dei ricordi, sulla natura del presente visibile; una domanda — “Ma le linee dove furono stabilite?” — che non può non interessare il confine tra sogno e realtà, da sempre esplorato e mai del tutto (per fortuna!) definito. I conflitti umani nascono dall’ignoranza e da una visione limitata della realtà, ma il dolore reale non fa domande, è sincero: semplicemente è. L’umanità in generale — il poeta in particolare — vede oscillare gli eventi storici tra l’entusiasmo scientista per un impietoso progresso di fine ‘800 e un più ingannevole e micidiale benessere moderno ed estetizzante in cui, soddisfatti e acritici, siamo tutti immersi. Nessuno escluso. A salvarci, forse, è uno scarto della retina: quel non visto o visto appositamente male (offerto dalla poesia?) che ci assicura sopravvivenze tra terre inesistenti e vuoti su cui dover passare nonostante tutto. Quella di Zanghi è una poesia che s’interroga continuamente: sul perché dell’esserci (“Perché mi trovo a questo tavolo?”), sul mistero delle scelte umane (“è mai esistito qualcuno / che volesse qualcosa?”), sulla fatalità del trovarsi in un dato posto. L’abc di domande filosofiche formulate millenni fa, qui diluite in versi non facili ma impegnativi per il lettore nel tentativo di disinnescare un gioco ben riuscito tra gesto concreto e surrealismo. A volte una necessaria lontananza (“Sono così lontano da tutto”) offre le risposte più giuste; ci predispone a un salvifico distacco del pensiero dall’ovvietà del vivere quotidiano, per riscoprire il bambino che ritarda dietro il gruppo e che, per questo motivo, è ancora capace di difendere i propri sogni in evoluzione.

V *

Ad uno scarto della retina
affido la mia sopravvivenza,
il mio essere,
l’ho detto,
si schianta come un carro in piena corsa
dal quale mi butto.
O meglio, scivolo giù discretamente,
sapendo perfettamente la non-esistenza
della terra
e l’orrore più grande
di un’automatica passerella nel vuoto.

* (da “Lo scarto della retina”, silloge di Daniele Zanghi; Fallone Editore – 2019. Collana “Il leone alato”, diretta da Andrea Leone)

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Recensisco

Scambiamoci i libri!

Dodecalogo del recensore (di poesia)

Il futuro del Futurismo: 3 domande a Roberto Guerra

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“Futurismo” è sempre stato sinonimo di entusiasmo tecnologico, rilancio, proiezione dell’inventiva umana verso nuovi obiettivi sociali e culturali; lo scorso 9 agosto è stato l’anniversario del “folle volo” di D’Annunzio su Vienna (1918), che fu per certi versi più futurista dei futuristi. Quali voli neofuturistici intravedi per questa Italia post-pandemica? 

Il futurismo (aggiornato) è stato il grande sogno della mia passeggiata terrestre. Il neofuturismo cosiddetto, fu… l’ultima stagione creativa del Duemila, favorita dalla rivoluzione elettronica che sembrava confermare le migliori intuizioni di Marinetti e i futuristi. In senso strettamente artistico, l’ultimo volo è stato di Vitaldo Conte: per il centenario del Manifesto futurista nel 2009 nei cieli di Roma come paracadutista, declamando Marinetti all’atterraggio. Vedi su YouTube: QUI!

Dal virus e tra i suoi effetti sociali (certi, non statistiche di troppi virologi) il futuro è sicuramente ibernato, soprattutto per le nuove generazioni; il futuro tornerà solo tra decenni, siamo realmente nell’era di Orwell… Voli prossimi (neofuturistici) in senso sociale? Non credo.

Nel tuo ultimo lavoro, l’ebook intitolato “Futurismo Duemila” (Tiemme Digitali), ti occupi della storia del neofuturismo e della sua fine; ma è veramente finita? Al di là dei neologismi associati (neo, post, trans) nel corso della storia alla parola futurismo, non è appunto nei periodi di rinascita che c’è più bisogno di “avanguardia”? 

In realtà, negli ultimi anni del decennio scorso, dopo un apice, le reti neofuturiste si erano già esaurite. Siamo andati avanti il sottoscritto, Vitaldo Conte, Antonio Fiore Ufagrà, S. Giovannini e altri però singoli futuristici. Altri della rete, si occupano di percorsi laterali e personali. Naturalmente, il futurismo non ha mai esaurito la necessità storica di avanguardie plurime. Ancora ne esistono, ma strettamente letterarie o solo artistiche. Certo zeitgeist del tempo, certo livello minimo di democrazia e credibilità dei politici e dei media, la fine stessa della scienza come verosimile (in dubbio ormai dopo la gestione pandemica mondiale, per la comunicazione terroristica troppi sono persino contro i vaccini!) attualmente impedisce la nascita di nuove avanguardie globali forti. Quando si parla di rinascita postvirus vi è molta retorica irrealistica. Al massimo si può sperare in una sopravvivenza minimale creativa. Per le nuove generazioni, se si svegliano o le si lascia risvegliare, magari, potrebbe esserci una singolarità storica dirompente, il potere ai 16-40enni e relax per longevi e meno longevi… Dalla vecchia “Immaginazione al Potere” (semifallimentare) all’attuale “Follia al Potere”, per giungere finalmente un domani alla vera “Giovinezza al Potere”. E nuove arti e letterature, mix arte-scienza, parzialmente digitali…

Che ne pensi delle critiche da parte della Chiesa al Transumanesimo?

La parola dovrebbe essere Libera, quindi legittima ogni critica al cosiddetto futurismo transumanista, scientifico, all’estero tutt’ora in primo piano nelle ricerche. Vero anche che molte critiche bioetiche della Chiesa di Roma o dei “conservatori”, sono fake news mediatiche (Internet o Giornali). Recentemente ho contestato questa percezione mainstream del transumanesimo: leggi QUI! In breve, molto spesso, a parte, ripeto, legittimi dubbi, in quanto si parla di prospettive a cui mancano spesso ancora le tecnologie e anche importanti “certezze” epistemologiche, queste fake news non si riferiscono mai alle informazioni ufficiali dei più importanti (anche sul piano accademico) transumanisti internazionali (Z. Istvan, A. de Grey, M. More, R. Kurzweil, V. Pride, M. Rothblatt e molti altri), facilmente reperibili su riviste e giornali Internet ufficiali e nella letteratura postumana ufficiale. Molti timori e analisi giornalistiche sembrano al contrario proiezioni soggettive e di certi gruppi, proprio del vecchio mondo attuale e reale, proprio dopo il virus: Nuovo Ordine Mondiale, genderismo ecc. Inconciliabilità tra Chiese e Transumanesimo? Basta un Teilhard de Chardin per smentire questo passatismo… Poi, vero, dopo il virus, ingegneria genetica o altre scienze di punta vanno viste con più attenzione ecologica ed etico-tecnologica…

Segue presentazione dell’ebook:

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