
Memento mori

versione pdf: “Call Center Reloaded”, di Michele Nigro
Prefazione
“Call Center, alla ricerca del futuro ibernato”
di Roberto Guerra
Call Center, titolo iconico particolarmente azzeccato, è nato direttamente come libro elettronico (eBook) già alcuni anni fa: in certo senso sembrano passate decadi ma proprio la diversamente breccia temporale ne esalta oggi, nuova edizione e tradizionale cartacea, una certa lungimiranza previsionale.
Se il racconto narra poeticamente l’uomo automatizzato e robotizzato odierno, proprio i famosi Call Center ne testimoniano la quintessenza alla rovescia, esemplificano il paradosso sempre costante della rivoluzione tecnologica: il lavoro liquido estremo e la precarietà ormai generalizzata nella eterna quasi crisi contemporanea hanno nei Call Center, caratterizzati centralmente da tali dinamiche, quasi un perverso Tempio, accettato nella vita quotidiana come se nulla fosse, la normalità come patologia sociale condivisa e quindi non riconosciuta.
Simultaneamente i Call Center simboleggiano, sempre al contrario, il computer mondo oggi letteralmente ibernato, sia le Macchine sia gli umani.
Come leitmotiv software costante nelle parole dell’autore, certa folle simbiosi strutturale contemporanea, economia-politica-tecnologia, l’attuale turbocapitalismo poco turbo e molto pietrificante come lo sguardo malefico di Medusa, ha degenerato il senso della tecnoscienza, letteralmente ucciso, appunto congelato, il futuro.
Le macchine a quanto pare non sono state inventate per liberare gli umani dal lavoro alienante o i computer per liberare l’Uomo come opera d’arte dal meccanicismo mentale e burotico, ma come sorta di gigantesche slot machine per Usurai 2.0, una assoluta minoranza, burattinai digitali quasi immateriali, come i famigerati Morlock con il popolo degli Eloi in The Time Machine di H.G. Wells, che condizionano o comandano nelle stanze dei bottoni, occidentali o meno.
Nigro si muove in un solco fantadispotico ben noto nell’immaginario scientifico e fantascientifico del Novecento: va da sé che conferma la cosiddetta science fiction, a pari di altri autori, come nuovo diversamente Post Realismo cibernetico; che è peraltro una delle vere news creative nella letteratura contemporanea, dimostrando la provocazione di un certo Marvin Minsky: “La fantascienza è la vera filosofia del nostro tempo”.
E nello specifico di Nigro la filosofia come Psicologia informatica, come ogni gioco sinaptico non lineare, ma transtemporale, come ottimamente si dilatano le pagine e le antitrame menu del libro, con flussi imprevedibili narranti, in una cifra dimensionale passato-presente-futuro, come poi nella Vita Reale, sia imprevedibile che interconnessa, come dissolvenze costanti (per la cronaca, stile prossimo a certa poetica sperimentale e d’avanguardia).
La stessa resilienza del protagonista, nella sua presa di coscienza e ribellione “fredda” all’ibernazione robotizzata e lavorativa, affiora come un puzzle nuovamente alla rovescia, un gioco di incastri a partire da un falso disegno alla partenza da smontare e ricomporre verso un nuovo futuro alternativo e umanizzante assolutamente inedito, senza mappe a priori di riferimento: Nigro è acuto nel far parlare il non detto della letteratura distopico-dispotica, non solo sintomo di certo spirito del tempo apparentemente senza vie d’uscita, ma necessario artificio di discesa nell’inconscio oggi techno, per captare nuovamente un Homme Robot creativo come specchio sinaptico del Corpo sociale.
In pillole, riassumendo e come da incipit, un lavoro narratosofico (non narratologico lineare…) che ha anche anticipato l’ulteriore degrado finanzocratico e nella grande macchina produttiva che ancora di più esige ricette di homme robot non autoalienato ma rebel rebel: oggi si parla di Big Data, Bitcoin e simili, di Algoritmi e Intelligenza Artificiale come registri di sistema per il lavoro 3.0, ma a quanto pare con ancora nuove dissipazioni di risorse tecnoscientifiche.
E visto l’andazzo, come andare su Marte e poi sul più bello dimenticarsi che ci abbiamo inviato delle scimmie con un pallottoliere per errore al posto di astronauti umani con Curiosity, concordiamo con l’autore se abbiamo beninteso: forse solo un vero default della Grande Macchina tecnoeconomica attuale, per istinto di sopravvivenza 2.0, potrebbe generare un nuovo turbocapitalismo non neoluddista, come suicidalmente un certo Green mistificante s’illude di fare, ma finalmente troppo umano o robotico complementare “più umano degli umani”.
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“Call Center – reloaded”
di Michele Nigro
Il lavoratore, in particolar modo quello precario, va educato.
Così come il cucciolo di cane, appena giunto nella sua nuova dimora, deve essere prontamente educato nell’espletamento dei propri bisogni fisiologici in angoli ben precisi provvisti di fogli di vecchi quotidiani conservati all’uopo, allo stesso modo il lavoratore deve capire fin da subito che il suo comportamento non può tendere alla neutralità o alla riflessione (dannosa in ambito produttivo), bensì a un energico entusiasmo decerebrante capace di far ottenere al lavoratore il tanto agognato premio finale. L’allineamento, l’accondiscendenza, l’incondizionato assorbimento delle incontestabili direttive aziendali, la personalità solo abbozzata e mai eclettica, la disponibilità senza “se” e senza “ma”, l’assenza di cultura, la scaltrezza del venditore arabo, il carattere come forma di pressione, il rifiuto di proposte alternative, la repressione del confronto tra individui: questi sono solo alcuni dei cosiddetti “comportamenti premianti” che, se accettati fedelmente dal lavoratore, diventano vere e proprie armi per la conquista del successo aziendale.
Infilo il jack delle cuffie nella presa circolare della scheda audio come un duro, argenteo pene metallico che penetra, lucido ed elettrico, nell’orifizio acustico del mondo. Un filo abbastanza lungo mi concede un’impagabile libertà di movimento fino al muro alle mie spalle tappezzato di grafici colorati e motivanti sulla produttività dello scorso mese. Sono seduto su una comoda sedia girevole provvista di rotelle: divento uno yo-yo umano spingendomi all’indietro e ruotando; il filo è teso tra la mia testa e il computer della postazione. Conosco bene le misure del mio spazio lavorativo: mi fermo un millimetro prima di strappare via il jack. Poi ritorno fedele con le braccia sul tavolo del box dove mi aspettano i pieghevoli che illustrano le caratteristiche patinate dei meravigliosi prodotti da vendere e il decalogo delle cose da dire o da non dire pensati dall’intellighenzia aziendale.
Alcuni minuti prima, abbandonando il corridoio silenzioso nel fabbricato anonimo che ospita l’enorme call center in cui lavoro, mi ero immerso, puntuale come ogni pomeriggio, dal lunedì al sabato, nella chiassosa atmosfera alienante di quel nonluogo, come l’avrebbe definito Marc Augè.
“Buon pomeriggio, sono Marta!”
“Buongiorno, sono Giulio…!”
“Mi scusi se la disturbo, sono Roberta e le telefono perché ci risulta che…!”
“Sono Paola, Emilio, Giuseppe, Serena, Carlo… Sono la soluzione ai tuoi problemi, sono la fortuna che ti piomba in casa, sono la voce che attendevi, la chiave del tuo successo, sono il segreto che i tuoi vicini non vogliono svelarti, la risposta alla tua domanda. Sono la svolta che cercavi, la novità che bussa nel momento giusto, il tuo gentile consigliere pomeridiano, la tua scelta intelligente, sono il tuo assistente spirituale, il tuo miglior amico, sono il Presidente degli Stati Uniti d’America, sono Gesù Cristo, la Madonna. Se vuoi, se questo mi aiuterà a concludere un contratto, posso essere addirittura Dio!”
Lo chiamano ‘lavoro parasubordinato’: come se fosse una malattia infettiva incurabile presa sui confini venerei tra potere economico e popolo, durante un amplesso tra la ricchezza dei pochi e le illusioni delle orde di lavoratori-consumatori ipnotizzati da un benessere irraggiungibile. La mancanza di devozione mi corrode dall’interno; lavorare facendo finta di crederci: questo è il segreto.
Meravigliandomi, per l’ennesima volta, di quel vorticoso pollaio di succulente proposte lanciate nella rete telefonica, avevo raggiunto con passo veloce, attutito dalla moquette blu del pavimento, la mia postazione metamerica – il box numero 103 – e avevo inserito nel computer la password necessaria al conteggio personalizzato delle preziose ore di lavoro. Decine di voci squillanti e teatralmente rassicuranti, intorno a me, riproponevano, intrecciandosi l’un l’altra ma ognuna seguendo miracolosamente un proprio invisibile filo verso la meta contrattuale, un dialogo esistente tra cliente e teleoperatore, e testato dagli psicologi del marketing.
Tramonta il sole triste
d’inizio settembre
sui grigi parcheggi periferici
vuoti d’umanità vagante
tra lucenti vetri di bottiglia
e calme schegge di gioventù.
Sottofondo autostradale
per elettriche note di prova.
Le gru nel cielo rossazzurro
come plettri dolorosi
su anime solitarie
attendono il rock notturno.
Dall’alto, o dal basso, della sua laurea in Scienze Politiche mai usata, il mio vicino di box, inebetito dal turno di mattina che sta per terminare, m’invia un sorriso scialbo sperando in una mia amichevole risposta che l’incoraggi in zona Cesarini: se alla fine di questo mese non raggiungerà il numero di ‘pezzi’ prestabilito dalla Direzione, sarà silurato dai due impiegati gay dell’ufficio del Grande Fratello: meglio conosciuti come i “Dolce&Gabbana dell’Outbound”, Gigi e Lele, oltre a essere i sorridenti e ben vestiti addetti alle buste paga del call center, svolgono egregiamente, e non senza una comprovata dose di sadismo, anche la funzione di selezionatori. “Big Brother is watching you!”: il motto orwelliano che campeggia nel poster del loro ufficio trasformato in nido d’amore, non lascia spazio a dubbi. Compiere ‘carotaggi a campione’ sulla popolazione lavorativa del call center, in cerca di pedine improduttive da licenziare, rappresenta la loro specialità.
Esistono al mondo innumerevoli lavori, tanto assurdi quanto malpagati o con prospettive instabili.
La loro utilità è effimera come l’esistenza di un insetto: adulatori di casalinghe per via telefonica, assistenti all’eiaculazione di tori, livellatori di quadri storti, venditori di connessioni veloci in internet, riciclatori di pile scariche, smazzettatori di risme, salatori di arachidi, rappresentanti di chiodi porta a porta, psico-massaggiatori di piedi per mutilati, controbilanciatori di tubi, assaggiatrici di sperma, venditori di fumo per l’affumicatura dei salumi, sommozzatori di pozzi neri, smistatori di kipple, operatori di clisteri, lucidatori di ossa, collaudatori di giubbotti antiproiettili e bambole gonfiabili, venditori telefonici di righelli, svuotatori di portacenere, allevatori di grilli, mimo per trasmissioni radiofoniche, tester di deodoranti ascellari per uomini, domatori di fenicotteri, commercialisti per bancarelle di mercato, collaudatori di creme emorroidali, occupatori di parcheggi, collaudatori onanisti di profilattici, impacchettatori di regali per negozi, lab rats umani per case farmaceutiche, ricostruttori di reputazioni on line, massaggiatori di cani, buttadentro…
Il sottobosco lavorativo offre una vastissima gamma di occupazioni surreali e facilmente sostituibili: l’assoluta mancanza di diritti e la facile reperibilità di cosiddette ‘risorse umane usa e getta’, come lamette usate poco, infelici ma non ancora pronte a morire, rappresentano l’autentico propellente di quelle aziende che affidano la propria sopravvivenza a una delle carte vincenti della moderna economia: la precarietà del lavoratore.
La molla che fa scattare il meccanismo perverso della precarietà è il bisogno.
Sono saldate ormai
da un sigillo d’addio
le carte d’inverno tradotte
sudate, senza più voce privata
per fuochi di guerra
e neve, parole fioccano
sulle grida di madre
lontana protesta dai figli
ingannati, invasori segnati di zeta.
Non offro che freddi versi
dinanzi ai carri del breve secolo
sempre gli stessi e mortali,
tornano, ignari dei dolci tepori d’Aprile
di nuovo su strade straniere.
Incredibile come le coordinate
del cemento custode di ritorni
annuncino quiete primavere
su un sabato privo di macerie.
♦
(foto: Battaglia di Stalingrado)
Scrive Christian Bobin, riferendosi alla resurrezione del Cristo senza peraltro mai nominarlo, in L’uomo che cammina: <<L’uomo che cammina è quel folle che pensa che si possa assaporare una vita così abbondante da inghiottire perfino la morte. Coloro che ne seguono le orme e credono che si possa restare eternamente vivi nella trasparenza di una parola d’amore, senza mai smarrire il respiro, costoro, nella misura in cui sentono quel che dicono, sono forzatamente considerati matti. Quello che sostengono è inaccettabile.>> Cosa c’entra il Gesù camminante di Bobin con la 60ª edizione della Marcia per la Pace Perugia-Assisi ̶ organizzata per la prima volta nel 1961 da Aldo Capitini ̶ svoltasi lo scorso 10 ottobre? Apparentemente nulla, dal momento che si tratta di una marcia laica, aconfessionale, inclusiva, apartitica, anche se mai apolitica perché tutto è “politico”, nel senso nobile del termine: anche i granelli di sabbia sollevati dai piedi dei marciatori sono politici. La vera politica è azione senza colore ma di valori, è scelta di movimento, di fede folle, di cammino verso un obiettivo ideale ma concretizzabile passo dopo passo, pacificamente, senza assaltare sedi di sindacati o di partiti. C’entra perché i matti, credendo, avendo fede nella realizzazione di un mondo migliore, non attendono immobili l’arrivo del cambiamento ma si fanno movimento, camminano, pur nella limitatezza dello spostamento (“solo” 24 km per i partecipanti alla Marcia). Ancora Bobin: <<Il movimento è dare tutto se stesso>>; il marciatore per la pace consegna simbolicamente per poche ore il proprio corpo, non solo i propri ideali e il proprio tempo, nel tragitto tra Perugia e Assisi (città in guerra tra loro nel medioevo), alla causa. Una consegna che non si esaurisce con il raggiungimento del traguardo sportivo perché <<dio è un uomo che cammina ben oltre il tramonto del giorno>>; la marcia interiore continua ritornando a casa, all’indomani della confortante e colorata marea umana, nei propri luoghi d’esistenza, tra le pieghe di abitudini da scardinare in nome di un’autentica evoluzione dell’umanità ma a partire da se stessi e non pretendendola solo dagli altri: l’“I Care” milaniano ̶ tema di questa storica edizione ̶ è un prendersi cura, un interessarsi in prima persona e non più delegato, una responsabilità diretta dell’individuo a partire dal microecosistema del vissuto quotidiano.
Continua a leggere “Edoardo Bennato e il “Peter Pan Rock ’n’ Roll tour””
Un varco celeste
tra nubi rosa all’alba
e grigie residue minacce
s’apre su città dormienti
illuminate a notte
come uno speranzoso iato.
Lavora la luce
su un nuovo giro di giostra,
ma lento ancora
è il giorno a venire
prigioniero di sogni funesti
e torpori esistenziali.
♦
(tratta dalla raccolta “Nessuno nasce pulito”, ed. nugae 2.0 – 2016)
immagine: dal film “Codice Genesi (The Book of Eli)”
Non c’è più valido seme
per future illusioni d’amore
eppure
al sentirsi inadeguati
come testi gettati al mondo
segue parallela e timida
la boriosa scintilla del creare.
Non riesci ancora a vedere
una linea che separi
il prima dal dopo
la sciagura virale
perché quella linea
sei tu. E sei in corso.
Respira e crea
in questa notte cieca
senza un piano da seguire,
percorri te stesso
raccogliti in preghiera
e non farti domande.
♦
Matrix 4 e la crisi di mezza età
(un po’ di spoiler qua e là, attenti!)
Stasera, vedendo al cinema Matrix Resurrections, ho rivissuto alcune delle sensazioni provate con Trainspotting 2 e Blade Runner 2049. Personaggi che tornano sul luogo del delitto, questioni da affrontare, trame da completare forse più per nostalgia che per altro. Con i sequel si rischia tantissimo e lo sappiamo, ma si ritorna al cinema, dicevo, per nostalgia dei protagonisti che abbiamo amato 20 o 30 anni prima. E i produttori lo sanno.
Siamo tutti dei fottuti pantofolai cinquantenni; ci abboffiamo di pillole blu (non quella della Pfizer, l’altra: quella che Morpheus offre a Neo insieme alla rossa che libera) e pensiamo che il nostro vissuto sia solo un videogioco. Andiamo dall’analista, ci affidiamo alle sue cure, ma è proprio lui che c’inganna e ci prescrive le pillole blu. I rivoluzionari che c’avevano liberati molti decenni prima, si sono imborghesiti e hanno raggiunto un compromesso con i vecchi nemici: le macchine. Forse non conviene risvegliare proprio tutti tutti… Un po’ di umanità lasciamola ancora a nanna! La tregua dopo una guerra porta sempre a un Piano Marshall (o a un PNRR) che accontenta un po’ tutti: però cara Niobe, che tracollo… caspita! Posso capire le rughe e la vecchiaia, ma ti ricordavo più combattiva. Non resta che risvegliare l’altra metà del cielo: l’amata Trinity. Ma vorrà lasciare marito, figli e hobby, la sua vita tranquilla, per un mezzo squilibrato che la tampina in un caffè? Eppure Matrix si nutre proprio di questo equilibrio tra paura e desiderio che produce molta più energia. Più efficienza dalle batterie umane che ricordavamo nel primo capitolo della saga. Neo e Trinity si fanno un bel sonnellino nelle loro capsule per la resurrezione: sono abbastanza lontani tra loro per non creare pericolose interazioni ma anche abbastanza vicini per dare vita all’energia che serve al sistema. Della serie: vivete, producete ma senza dare fastidio.
Diamo una seconda possibilità a questi cinquantenni imbolsiti e disincantati: ma che vogliono sti giovani che ci risvegliano dal nostro riposino? Vogliono fare la rivoluzione?
Dove sono la sfida e la folle riscossa
che seguivano a una crisi, alle sciagure?
I fiumi d’alcol e le danze sfrenate
risposte sorridenti e disperate alla morte
le mode, le nuove idee, le imprese dell’uomo…
Tutto è immobile per le strade, desertica mente
non c’è voglia di rialzarsi dal fondo fangoso,
i sogni non dimorano più tra le stelle
guardiamo cadere uno a uno i nomi di sempre
e i volti cari tra lo stupore del sopravviverci.
Non ci salvano da lontano la luce rossa
né la musica impregnata di vita
dell’ultimo ostinato speakeasy.
♦
(ph M.Nigro©2021)
L’aria stanca e lenta dell’inizio
predispone a raccogliersi
lungo silenziosi margini di parole,
sembra che il mondo latiti
non voglia tornare a giocare
con la nuova matrice di sempre.
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versione pdf: Scegliete il silenzio!
Scegliete il silenzio!
Libero remake del monologo di Mark Renton dal film “Trainspotting”
“Scegliete la discussione accesa con un novax sui social sprecando il vostro tempo nel tentativo di convincerlo, oppure scegliete di farvi convincere da un novax; scegliete concorsi letterari i cui vincitori sono già stati decisi a tavolino dalle case editrici, scegliete la Giornata Mondiale dell’Albero (o dell’Infanzia, tanto è lo stesso) mentre i governi continuano a disboscare nonostante le riunioni planetarie di facciata, scegliete di stupirvi per i tornado nel Mediterraneo e le puntuali “bombe d’acqua”, scegliete il bla bla bla e i venerdì sul clima per fare sega a scuola, scegliete di celebrare la Giornata Mondiale delle Giornate Mondiali, scegliete le notizie insulse e “attira like” di giornaletti on line per cerebrolesi, scegliete un decoder HD del cazzo per assecondare i capricci tecnologici dei grandi comunicatori, scegliete la moneta unica senza fiatare e le imposte di bollo sui vostri risparmi, scegliete l’alta definizione del nulla e la storia spiegata nei libri di Bruno Vespa, scegliete Sanremo, Domenica in, RaiPlay e Netflix, i programmi pomeridiani snobbati persino dalla casalinga di Voghera e quelli serali con cui sentirvi intelligenti, scegliete di scannarvi per il cashback, scegliete un tv comprato con l’elemosina del bonus statale e il cd natalizio di un duo cantautorale mummificato ma ancora in voga tra i romantici attempati, scegliete di sciropparvi mezz’ora di pubblicità prima di ogni film al cinema. Scegliete di andare in pensione a 97 anni, scegliete la palestra e i pannoloni di Stato. Scegliete le vacanze local per ridurre gli spostamenti e favorire l’economia di zona, e subito dopo scegliete di ordinare un posacenere dal Giappone. Scegliete una religione quando più vi fa comodo. Scegliete l’astensionismo, per poi lamentarvi dei politici. Scegliete di protestare contro presunte “dittature sanitarie” e tralasciate i restanti 9999 veri motivi per cui da anni dovremmo alzare barricate ogni giorno. Scegliete di prendere posizione su tutto, anche sulle questioni più irrilevanti offerte dal panorama pseudo-informativo imperante sul web; scegliete l’antiabortismo dei reality show, e scegliete la “pillola del giorno dopo” come se fosse una caramella Zigulì; scegliete di farvi mettere in punizione dall’algoritmo più stupido del social networking che non distingue una tetta da un budino, e scegliete di pregare che la sospensione finisca presto sennò vi sentite persi e disoccupati senza il vostro profilo. Scegliete il metaverso e gli alimenti bio per lavarvi la coscienza, scegliete la bolla social che vi rassicura e il green pass da mostrare agli amici – tatuandovelo sul braccio – come se fosse un Rolex. Scegliete i libri che vi suggerisce l’inserto culturale del vostro giornale, a sua volta foraggiato dalle case editrici più ricche. Scegliete il selfie con un personaggio famoso, assecondando la teoria dei 15 minuti di Warhol. Scegliete di credere che il prossimo sarà l’anno decisivo, quello buono per la svolta; scegliete l’“anche a te e famiglia” e i messaggi animati riciclati da inviare a persone di cui non vi frega un cazzo; scegliete le pubblicità natalizie che cominciano a settembre mentre la gente va ancora al mare; scegliete di socializzare a tutti i costi con i nuovi vicini di casa che vi ignorano, scegliete di usare la parola boomer per sentirvi giovani e competitivi, scegliete di trascinarvi dietro come cadaveri pseudo-amicizie dalle scuole elementari solo per abitudine. Scegliete di commuovervi ascoltando Bocelli (l’unico a cui i tanti soldi non hanno fatto tornare la vista!). Scegliete il capodanno in piazza e la diretta sulla Rai per fare il countdown da casa insieme a baldracche infreddolite e conduttori di plastica. Scegliete di credere alla finta umiltà della popstar e al suo amore per la “famigghia”. Scegliete le botteghe e le scuole di poesia, scegliete di far parte di antologie letterarie con altri duecento autori per sentirvi “scrittori” e l’editoria a pagamento che vi trascura subito dopo aver saldato il conto; scegliete l’associazionismo per sentirvi meno soli, scegliete le webinar per aggravare la vostra demofobia, scegliete di criticare la munnezza che c’è nelle altre città dimenticando il marcio esistente nella vostra “Danimarca”. Scegliete Le Figaro che sputtana la città in cui vivete e scegliete di dargli ragione perché siete sofisticati, autocritici, anti-italiani e non provinciali. Scegliete l’odio sui social (specialmente quello contro novax, nomask, nogreenpass, nosupergreenpass, notav, notap, noqualcosa…) e i gattini da condividere per addolcirvi, scegliete i talent show per staccare dalle notizie martellanti sul Covid e i programmi di approfondimento politico del cazzo, scegliete la radio per sentirvi più originali e antichi, e chiedetevi chi cacchio siete mentre acquistate i quotidiani la domenica mattina perché il vomito della tv non vi basta e volete tutto scritto nero su bianco. Scegliete di seguire il poeta che vende, perché se vende un motivo ci sarà, e le riunioni condominiali con gente che odiate da sempre, scegliete i reading per compensare la vostra sociopatia e i “gruppi mamme scuola” su Whatsapp da cui farvi escludere. Scegliete di scrivere un post come questo illudendovi di essere rivoluzionari.
La preghiera del mattino al dio sesso
è un cero senza fiamma
per battesimi silenti,
segno della croce prima del sonno
e pugno chiuso alla levata
cerchiamo un salterio all’alba
che canti le storture
indigerite dell’esistere
o una tarda rivoluzione
sanguinaria d’inverno
più mite d’estate
oscillo tra mani giunte
e la calda stretta su fredde armi
che tacciono da troppo
troppo tempo
nelle sagrestie del non detto.
♦
L'uomo abita l'ombra delle parole, la giostra dell'ombra delle parole. Un "animale metafisico" lo ha definito Albert Caraco: un ente che dà luce al mondo attraverso le parole. Tra la parola e la luce cade l'ombra che le permette di splendere. Il Logos, infatti, è la struttura fondamentale, la lente di ingrandimento con la quale l'uomo legge l'universo.
Rivista culturale on line
occhi aperti
Una libreria per immagini
"Mi lasciai dove avrei avuto tempo per pensare e attesi il fiato grosso del maestrale"
Quando scrivo dimentico che esisto, ma ricordo chi sono.
International Poetry Journal
Rivista Del Possibile
Poesia, scrittura, musica e arte digitale di Sonia Caporossi
"La pittura è una poesia muta, e la poesia è una pittura cieca"
Poesie, racconti, verità, fantasie, ma soprattutto l'amore.
"Voi, seduti nei comodi uffici abbuffati di tasse e di grasse imposte, diventerete un giorno cibo per i vermi e nessuno s'accorgerà della vostra mancanza. Scarti dell'Universo" cit. I.T.Kostka "Trittico sul cibo" (Quadernetti poetici 2017)
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Poesie, disegni, fotografie, racconti, pensieri ed altre amenità di Carlo Becattini. Tutti i diritti sono riservati.
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scrittore in Milano, Mondo
analyst and writer
E la luna - in un cielo di poco più scuro - lo guardava dall’alto. Come dimenticare? Egli disse. Altro non esiste che un passo di polvere nella fame del vento. E dopo gridò come un falco e negli occhi l’alveo delle nuvole dove scorre tutto il tempo e nelle mani la sua natura umana, immoderata.
Scrittura e altro