3 domande (e una breve nota) a Mariano Lizzadro

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È un incontenibile flusso di coscienza, questa nuova e inebriante raccolta di componimenti del poeta lucano Mariano Lizzadro, che oltrepassa la diatriba stantia sul confine tra prosa e poesia. Nel pensiero fluido di Lizzadro tutto è poesia, tutto è immagine incandescente che prende vita dalla realtà dei sensi, dalle emozioni più intime di un animo poetico che come radar di carne e ossa tutto capta, tutto cattura come pellicola fotografica esposta all’esistenza. Lizzadro è un fiume silenzioso di parole che travolgono l’intimità quotidiana, apparentemente scontata o già conosciuta. La forza descrittiva di questa raccolta è assordante ed è catartica nel suo non lasciare tregua al lettore. La natura, gli elementi più semplici, la sensualità cercata o vissuta, tutto partecipa alla creazione di versi che fanno amare la vita, le sue disperate bellezze e persino il dolore più intimo e antico. Lizzadro parla della solitudine delle periferie, della malinconia serale e notturna, dei ricordi che torturano, ma un poeta non è mai veramente solo perché le sue parole sono lacci archetipici che lo legano alla terra, all’umanità, ai fatti crudeli del mondo, alle persone conosciute e sconosciute, ai fenomeni naturali che parlano dell’anima e all’anima. Come affermato dal grande poeta lucano Alfonso Guida in prefazione: “Qui, tra questi affreschi di silenzio, tra queste siepi di filo spinato, spunta la notte”. Ed è una notte che tormenta ma ispira, che mette a pensare con dolore ma eleva gli animi dell’autore e dei lettori. Lizzadro ringrazia le parole e le benedice perché lo liberano, lo definiscono, lo informano su sé stesso e sul mondo, senza mai pretendere di capire o capirsi. Ma le parole vogliono in cambio qualcosa, vogliono un giusto peso da dare al loro suono: se le nutri col giusto suono non sai dove possono portarti. Un poeta non può essere prigioniero dell’attualità perché appartiene a tutti i tempi e dimora in ogni dove, anche quando è “segnato da un limite”. (m.n.)

Mariano, leggendo la tua ultima raccolta – “La mia testa sobria si occupa di attualità” –, ho avuto come l’impressione che stavolta il flusso di coscienza, già presente nella tua poetica, abbia rotto gli argini, si sia liberato da alcuni freni inibitori per correre libero nelle praterie lessicali e sonore della parola. Potresti fornirci una tua chiave di lettura e a margine spiegarci anche questo titolo originale – che è il verso di un tuo componimento presente nella raccolta – abbastanza insolito per una silloge?

Grazie Michele per la tua amicizia che è già di per sé un dono. Ci tengo a dire di primo acchito questa cosa che esula dalla tua domanda, ma mi ronza in testa da tanto tempo. Ci sta in giro un equivoco di fondo sull’idea di creatività. Molti, fra cui mi ci metto per primo io, hanno pensato in passato e qualcuno lo pensa ancora, mi dispiace per loro, che la creatività sia quel piccolo bagliore, quella luce che ogni tanto si accende dentro ognuno di noi ed è questo un grande equivoco. Mi spiego, sono d’accordo con chi dice che senza quel bagliore, senza quella piccola luce che si accende dentro non ci può essere niente, questo sia in poesia ma anche in ogni campo della vita. Cioè quella luce è fondamentale, quel bagliore è importante, ma non basta. Bisogna studiare, studiare e studiare, dedicare tempo e passione a quello che si fa e poi disimparare. Per non tirarla a lungo anche un contadino conosce i tipi di piante, il tempo della semina, le fasi lunari, i tempi in cui certe piante vanno piantate, innaffiate e trattate, ma la sua conoscenza è pratica, l’ha appresa osservando e la mette in atto. Questa, secondo me, è la creatività, talento e tanto studio. Dato questo per assodato. Ho avuto la fortuna di poter scambiare qualche parola in questi anni con diversi amici, da cui ho appreso che non siamo padroni di ciò che diciamo, siamo parlati, siamo suonati, nel duplice senso di “emettitori” di suoni ma anche nel senso etimologico di “folli”. Infatti nel gergo comune si dice di una persona quando è fuori di sé che è suonato! E quindi ho iniziato questo cammino, avendo questa idea in testa. Il titolo è molto ironico in sé, però è anche al contempo un mio punto di vista, un’ammissione che finora tutto quello che ho detto era frutto di cavolate. Non siamo padroni di niente, tutto è già là, “… la mia testa sobria si occupa di attualità, dicevo da povero idiota, / tutto è già nell’anima e nel corpo…” così mi sembra che dico ad un certo punto. Devo tutto questo alle chiacchierate che faccio con tutti i miei amici, ma in particolare ad Alfonso Guida e a Tonino Zurlo, che lo so si infastidiranno quando e se leggeranno che ho detto queste cose, ma è così. È tutto un percorso da fare e io ho cominciato pochi mesi fa, nel mio misero tentativo di liberare la mia lingua, bisogna attraversare il deserto come dice Alfonso, in maniera seria e come dice Tonino in tono scanzonato.

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“Poesie sospese”, silloge terza

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“… poesiole, ricordi, esortazioni, esibizionismi, scherzose invettive, di sicuro poesiacce, donate a chi non può permettersi di giocare con le parole, di pagarle in prima persona, di viverle sulla propria pelle. […] Questa terza e ultima silloge della serie sospesa, sottotitolata “nuovi materiali per un futuro incerto”, in omaggio alla prima serie, è divisa in quindici tempi, quindici momenti eterogenei e di diversa ispirazione che vanno a chiudere un’esperienza di necessaria gratuità non richiesta. Non abbiamo dati sicuri sul domani, e forse è proprio da questo costante stato di precarietà che nasce la parola più libera, a volte la poesia più vera anche se meno bella…” (dalla Premessa)

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Robert Frost: due modi di tradurlo…

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Non sono un traduttore, non posseggo gli strumenti e le competenze necessarie per poter giudicare le altrui traduzioni; credo, tuttavia, di essere almeno un lettore curioso, attento quanto basta, che ama confrontare, allineare i testi per cogliere parallelismi, convergenze o divergenze, scelte traduttologiche lineari o ricercati “tradimenti”… Mi è capitato recentemente di mettere a confronto due raccolte di traduzioni (nate quasi insieme!) tratte dalla vasta produzione del poeta americano Robert Frost — conosciutissimo a livello “interplanetario” soprattutto per la sua The Road Not Taken (La strada non presa)—: la prima, intitolata Fuoco e ghiaccio, edita dalla ben nota Adelphi (2022), con traduzioni di Silvia Bre (e a cura di Ottavio Fatica); la seconda a cura dello scrittore, poeta e traduttore teramano Massimo Ridolfi, intitolata Il Contadino della Nuova Inghilterra – Into a life: Robert Frost – The Five Books & Twilight, volume primo Libro VI° – VII° (edita da Letterature Indipendenti; collana “Seguire le immagini” – 2022).

“Capro espiatorio” di questo mio gioco al confronto è la poesia To the Thawing Wind, dalla raccolta di esordio A boy’s will (1913), e già dalla traduzione del titolo si capisce a che tipo di “battaglia” assisteremo: se per la Bre è “Al vento del disgelo”, per Ridolfi la scelta cade su un meno “bello” ma più fedele “Al disgelante vento”. Chiaro è fin dall’epigrafe (affidata a Quasimodo) l’intento di Ridolfi: “… ho condotto queste traduzioni […] per un accostamento più verosimile a quei poeti dell’antichità che […] sono arrivati a noi con esattezza di numeri, ma privati del canto”. Seguendo questo “comandamento quasimodiano”, se per la Bre “loud Southwester” diventa “sonoro libeccio”, per Ridolfi è e resta “fragoroso Sudovest” (si veda la foto con le due traduzioni a confronto) che per un lettore non avvezzo all’approfondimento dei significati non corrisponderebbe all’indicazione di un vento (nonostante sia nota quasi a tutti la direzione del libeccio che è proprio da sud-ovest). Se per alcuni traduttori è più urgente risolvere i problemi di interpretazione al posto del lettore, per altri la priorità durante una traduzione ricade sul rispetto della fonte, anche a costo di rimetterci in bellezza sonora, in fluidità in fase di lettura. Sono scelte, entrambe valide, forse entrambe non criticabili in nessun caso.

E poi: “singer” per la Bre è “cantore”, che fa più bella figura in un contesto poetico (“Porta il cantore”), per Ridolfi è e resta “cantante” (“Porta il cantante”: come quando ci si procura un cantante per una serenata); “nester”: in questo caso, a differenza del vento, la traduttrice di Adelphi sceglie di sottintendere (“e chi fa il nido”), non specificando chi faccia il nido (esistono diversi tipi di animali che nidificano, non solo gli uccelli), mentre Ridolfi si mette al sicuro parlando chiaramente di “uccello migratore” perché l’associazione con il libeccio apre a qualcosa portato in volo, proveniente dall’aria, dal cielo, da lontano.

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“L’ultima muta” su Collettivo Culturale TuttoMondo

La mia poesia inedita “L’ultima muta” è stata pubblicata sul sito del Collettivo Culturale TuttoMondo:

Per leggerla: QUI!

“Collettivo Culturale TuttoMondo vuole essere un viaggio attraverso le varie forme dell’arte, della cultura e del costume. Parole e immagini che possano offrire bellezza, far nascere una riflessione, dare meraviglia in questo momento in cui la meraviglia sembra essere perduta e stimolare la curiosità e la voglia di guardare il mondo, a TuttoMondo, cogliendone tutta la bellezza di luci, colori e d’ombre…” (dal sito)

Avanzano, non per vergogna

Avanzano, non per vergogna
rossori autunnali di boschi spenti
e gialli d’ottobre a segnare
la vita in ritirata,

raggi d’alba infilzano
coltri di nebbie mattutine
sul cuore in ripresa
dopo notti d’inganno,
il peso, eredità del giorno prima
le notizie crudeli
mentre celebri il nome,
risale alla gola il “Che peccato!”
di una vegliarda morente
lungo sponde di futuro.

Non c’è unguento miracoloso
né luce per pagare il conto,
solo parole archiviate
private lacrime fatte di vino
a frantumare gli amati silenzi
a rendere eterno l’ormai condannato

a dirci contenti per un giorno
nel gorgo danzante di una fine prevista.

Patti

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La provincia è un vestito ristretto, non entra più
dopo sciagurati lavaggi in calmi vortici,
non c’è spazio invidiato che per pochi viscidi ego

muoviti verso l’estinta New York di Patti Smith
lì forse canterai al microfono di chi ti somiglia,
la poetessa del rock è in cerca di parole
nuove ma vissute, è bastato il silenzio di un lutto
[a trovarle

rimandi ancora la partenza per bagagli complicati,
vecchiaia e conti alla rovescia fin dall’embrione
vite concentrate in pochi disperati mesi,

conservi telefoni di chi è già morto prima del gran finale
foto nella scatola che mai più riaprirai,
collezioni rate di fiducia per giorni canuti che non vivrai.

Fenomenologia della “poesia facile”

versione pdf: Fenomenologia della “poesia facile”. Dalla neolingua alla neopoesia

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Dalla neolingua alla neopoesia

Ho assistito recentemente a una innovativa e coraggiosa trasposizione teatrale del famoso romanzo “1984” di George Orwell, già immortalato nella memorabile riduzione per il cinema del regista Michael Radford: inevitabilmente uno dei temi nevralgici ripresi anche dalla pièce è stato quello riguardante la cosiddetta neolingua inventata dall’autore di fantascienza britannico per descrivere il lento ma inesorabile processo di semplificazione del linguaggio, attuato dal partito del Grande Fratello, quale premessa per una decostruzione del pensiero critico nei confronti dell’ideologia dominante. Un’ideologia di regime bisognosa di pedine acritiche e non di uomini e donne pensanti. Eliminare quanti più termini è possibile dal vocabolario corrente per impedire sul nascere l’elaborazione di sillogismi e quindi di critiche in grado di mettere in difficoltà la presa diretta del dittatore sulle menti dei cittadini. La semplificazione del linguaggio per realizzare un più efficace controllo del pensiero della popolazione non è purtroppo solo un’invenzione di Orwell ma è stata nel corso della Storia anche una pratica ampiamente applicata; alcuni esempi attualizzabili: gli slogan propagandistici, le frasi a effetto per stupire l’elettore e parlare alla sua pancia, gli annunci lapidari non verificabili riguardanti opere pubbliche che non verranno mai realizzate…

È di questi giorni l’uscita nelle librerie dell’ennesimo best seller di un noto “poeta televisivo” che non fa mistero del proprio successo editoriale attribuendolo principalmente alle sue doti comunicative dirette, sincere, geo-onnipresenti, limpide, intorno a tematiche basilari, primitive, “domestiche” e a un suo stile poetico che potremmo definire “facile”, semplificato, consolatorio, medicamentoso come la panacea delle nonne realizzata con ingredienti casalinghi, non complessi, alla portata di tutti. A ogni pubblicazione di questo autore ne consegue un putiferio mediatico alimentato da critici indignati, da autori che non credono nell’autenticità letteraria di certi successi editoriali pompati dal marketing… A essere messa sotto accusa, ogni volta, è una non poesia che viene spacciata per Poesia e che misteriosamente (poi mica tanto misteriosamente, per motivi che diremo dopo!) riesce a raggiungere molti più lettori di quanto non faccia la “poesia vera”, quella riconosciuta dai manuali di metrica e dalla storia ufficiale della letteratura; quella degli autori che sgobbano su un verso per giorni e giorni, a volte per anni, (mentre il nostro, a dire degli invidiosi — anzi, lo dice lui stesso! —, le sue poesiole le concepirebbe in ascensore, in una sala d’attesa d’ospedale o in viaggio sul treno tra un reading pubblico, una soppressata da affettare e una lectio magistralis via Skype).

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A che serve fare poesia in giorni di guerra?

versione pdf: A che serve fare poesia in giorni di guerra?

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A che serve scrivere, fare poesia, mentre altrove la guerra domina la scena e le priorità sono altre? È difficile concentrarsi su ciò che all’improvviso – o forse lo è più di prima – diventa futile; soprattutto quando non si conosce profondamente il potere della parola e non si sa come usarlo. Contrapporre la poesia alla guerra, anche se del tutto inutile ai fini geopolitici e militari, diventa un dovere pubblico e non è più solo un diritto privato, un bene rifugio, un modo per lavarsi l’anima, o per evadere. È una “preghiera laica” da usare per controbilanciare la follia dell’umanità. Si continua a coltivare la bellezza per contrastare l’abbrutimento imperante, anche se l’informazione martellante riporta a ogni ora il confinato sul terreno coperto di sangue e neve sporca. Un terreno straniero, lontano ma vicino, familiare, con cui entrare in comunione per restare umani. La vita sorprende positivamente e a volte inganna, tradisce, pugnala alle spalle chi ancora si fida troppo del suo tocco che pensiamo essere eterno, idealistico. Il sogno e i progetti non possono e non devono essere messi da parte solo perché il mondo è diretto verso il dirupo del suo tempo, ma non si deve mai smettere di essere consapevoli che questa esistenza terrena non è una favola, bensì un dramma di tanto in tanto interrotto da intervalli di commedia agrodolce. Far convivere i progetti personali, anche quelli più colorati e spensierati, con la tragicità dell’esistenza: per riuscirci occorre essere sognatori, testardi, realisti quanto basta ma irremovibili sull’obiettivo. L’umana finitezza e la morte ci accompagnano lungo il cammino come fedeli amici che spronano quelli che si adagiano. Vivere il confino in un paese libero e senza guerra, mentre in altre nazioni si combattono battaglie reali e cruenti, avvicina con più forza l’autoesiliato a scegliere la via dell’arte, della parola poetica – per quel che gli è possibile –, della ricerca interiore con cui difendere la libertà di pensiero, sua e di chi non può più esercitarla. Coltivare innanzitutto per se stessi questi valori in contrapposizione ai tempi bui. La Storia non muta nei contenuti ma solo nelle forme: al di là di ogni facile fatalismo, la guerra – e più in generale la violenza in tutte le sue modalità organizzate – è statisticamente una costante nel cammino millenario dell’uomo, e nulla lascia intendere che vi potranno essere allentamenti sull’utilizzo di questa pratica autodistruttiva in futuro. Vi è, tuttavia, la possibilità di una scelta individuale, mai scontata, maturata in privato, che ognuno può compiere autonomamente per distinguersi dai tempi, per fare la differenza nel proprio piccolo. La Storia si ripete, ma nessuno è obbligato a ripetere la Storia. Sottrarsi alla partecipazione passiva, a una ciclicità a cui tutti sembriamo condannati, alla ripetizione in loop degli eventi: per farlo sono necessari conoscenza, studio della Storia, capacità di elevazione (e quindi di isolamento come forma di risposta) del proprio io al di sopra di entusiastici movimenti di massa di stampo interventistico. Non ultima, la poesia che favorisce l’estraneazione dalla follia. Il dottor Živago di Boris Pasternak, con i suoi protagonisti che rispondono al richiamo delle proprie passioni e della propria individualità muovendosi sullo sfondo di una società martoriata dalla rivolta e in profondissima mutazione, ci insegna che nonostante la Storia travolga tutti noi, in ogni epoca e con modalità che ci appaiono differenti, possediamo un mondo interiore che nessuna vicenda storica, nessuna guerra o rivoluzione potrà mai intaccare. La vera rivoluzione, quella delle scelte individuali, avviene nel silenzio dell’anima che desidera e cerca la resurrezione, stando in disparte ma attivamente, in quell’angolo individualistico da sempre ferocemente osteggiato dai totalitarismi della politica e del marketing.

(tratto da “Elegia del confino”, titolo provvisorio per un diario tra prosa e poesia di Michele Nigro, di prossima pubblicazione…)

versione pdf: A che serve fare poesia in giorni di guerra?

articolo pubblicato anche sul mensile “Oceano News”

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L’età dell’ironia

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Naftaline evaporano sotto forma d’insetti al naso,
il sorriso di una ritrovata donna, la ricerca della felicità
un libro già masticato da troppi inverni editati
mandarlo al macero visivo di lettori distratti,

farine di grilli per saltare la vecchiaia
altro che polvere di stelle da favole illuse!
Abbiamo avuto mille occasioni per sparire
ma insiste il dito opponibile sotto la lampada di Ritsos
lasciare almeno un verso animale,
una pensione di sincere intenzioni, un poetico rutto
nella notte indigesta delle parole in guerra.

(ph M.Nigro©2023; titolo: “Santo per caso!”)

Aspettando l’estate

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Attendo il tepore nell’andare lontano dal gelo
di morte, i primi veri respiri liberi su strade ferrate
verso la città che da sempre guarisce ferite
invernali, troppo aperte per non brillare al sole,

ma non dimentico le foglie cadute senza dolore
le lacrime che insegnano i modi della speranza
gli autunni amati e la pioggia di cieche parole.
Non lascio indietro quel che sono stato.

“Aspettando l’estate”, Franco Battiato

“Poesie sospese”, silloge prima

pdf scaricabile: “Poesie sospese”, silloge prima

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Poesie sospese, come i “caffè sospesi” a Napoli, offerte gratuitamente ai poveri in parole ma bisognosi istintivi di significanti, agli indigenti della città dell’anima, ai mendicanti del verbo che è balsamo scritto su carta effimera, ai cercatori inconsci di significato attraverso le poeticherie di altri avventori. Senza alcuna pretesa consolatoria o “farmacologica”, si tratta ancora una volta di poesie minori e pensieri minimi lasciati sul bancone di un “bar internautico” a chi è di passaggio e gradisce sorseggiare miscele inedite, a un lettore sconosciuto che va di fretta o che invece vuole concedersi qualche minuto di pausa per girare con il cucchiaino della riflessione i versi concepiti da altri; poesiole donate a chi non può permettersi di giocare con le parole, di pagarle in prima persona, di viverle sulla propria pelle. La filosofia, solidale e filantropica, dell’economia circolare applicata al poetare: continua l’avventura dei materiali di risulta riciclati in nome di una sostenibilità esistenziale.

Michele Nigro

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Darsi al mondo

Foto di Rachel Posner, moglie del rabbino Akiva Posner, ultimo rabbino di Kiel in Germania.

Quando riavrò il mio passo
libero saprò riconoscere
la vita di nuovo com’era?
Prima dell’inverno dentro
ritornare su vie di montagna
calpestare arsi foliage
dal sole distratto del profitto.

È un richiamo a restare quieto
sulle sicure carte dell’anima
questo dolore inedito
che apre a strane gioie
canali sensibili al tutto
a parole mai usate
a fare finta di niente
a un darsi al mondo
finalmente
disperato e umano.

(immagine: foto di Rachel Posner, moglie del rabbino Akiva Posner,

ultimo rabbino di Kiel in Germania)