3 domande (e una breve nota) a Mariano Lizzadro

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È un incontenibile flusso di coscienza, questa nuova e inebriante raccolta di componimenti del poeta lucano Mariano Lizzadro, che oltrepassa la diatriba stantia sul confine tra prosa e poesia. Nel pensiero fluido di Lizzadro tutto è poesia, tutto è immagine incandescente che prende vita dalla realtà dei sensi, dalle emozioni più intime di un animo poetico che come radar di carne e ossa tutto capta, tutto cattura come pellicola fotografica esposta all’esistenza. Lizzadro è un fiume silenzioso di parole che travolgono l’intimità quotidiana, apparentemente scontata o già conosciuta. La forza descrittiva di questa raccolta è assordante ed è catartica nel suo non lasciare tregua al lettore. La natura, gli elementi più semplici, la sensualità cercata o vissuta, tutto partecipa alla creazione di versi che fanno amare la vita, le sue disperate bellezze e persino il dolore più intimo e antico. Lizzadro parla della solitudine delle periferie, della malinconia serale e notturna, dei ricordi che torturano, ma un poeta non è mai veramente solo perché le sue parole sono lacci archetipici che lo legano alla terra, all’umanità, ai fatti crudeli del mondo, alle persone conosciute e sconosciute, ai fenomeni naturali che parlano dell’anima e all’anima. Come affermato dal grande poeta lucano Alfonso Guida in prefazione: “Qui, tra questi affreschi di silenzio, tra queste siepi di filo spinato, spunta la notte”. Ed è una notte che tormenta ma ispira, che mette a pensare con dolore ma eleva gli animi dell’autore e dei lettori. Lizzadro ringrazia le parole e le benedice perché lo liberano, lo definiscono, lo informano su sé stesso e sul mondo, senza mai pretendere di capire o capirsi. Ma le parole vogliono in cambio qualcosa, vogliono un giusto peso da dare al loro suono: se le nutri col giusto suono non sai dove possono portarti. Un poeta non può essere prigioniero dell’attualità perché appartiene a tutti i tempi e dimora in ogni dove, anche quando è “segnato da un limite”. (m.n.)

Mariano, leggendo la tua ultima raccolta – “La mia testa sobria si occupa di attualità” –, ho avuto come l’impressione che stavolta il flusso di coscienza, già presente nella tua poetica, abbia rotto gli argini, si sia liberato da alcuni freni inibitori per correre libero nelle praterie lessicali e sonore della parola. Potresti fornirci una tua chiave di lettura e a margine spiegarci anche questo titolo originale – che è il verso di un tuo componimento presente nella raccolta – abbastanza insolito per una silloge?

Grazie Michele per la tua amicizia che è già di per sé un dono. Ci tengo a dire di primo acchito questa cosa che esula dalla tua domanda, ma mi ronza in testa da tanto tempo. Ci sta in giro un equivoco di fondo sull’idea di creatività. Molti, fra cui mi ci metto per primo io, hanno pensato in passato e qualcuno lo pensa ancora, mi dispiace per loro, che la creatività sia quel piccolo bagliore, quella luce che ogni tanto si accende dentro ognuno di noi ed è questo un grande equivoco. Mi spiego, sono d’accordo con chi dice che senza quel bagliore, senza quella piccola luce che si accende dentro non ci può essere niente, questo sia in poesia ma anche in ogni campo della vita. Cioè quella luce è fondamentale, quel bagliore è importante, ma non basta. Bisogna studiare, studiare e studiare, dedicare tempo e passione a quello che si fa e poi disimparare. Per non tirarla a lungo anche un contadino conosce i tipi di piante, il tempo della semina, le fasi lunari, i tempi in cui certe piante vanno piantate, innaffiate e trattate, ma la sua conoscenza è pratica, l’ha appresa osservando e la mette in atto. Questa, secondo me, è la creatività, talento e tanto studio. Dato questo per assodato. Ho avuto la fortuna di poter scambiare qualche parola in questi anni con diversi amici, da cui ho appreso che non siamo padroni di ciò che diciamo, siamo parlati, siamo suonati, nel duplice senso di “emettitori” di suoni ma anche nel senso etimologico di “folli”. Infatti nel gergo comune si dice di una persona quando è fuori di sé che è suonato! E quindi ho iniziato questo cammino, avendo questa idea in testa. Il titolo è molto ironico in sé, però è anche al contempo un mio punto di vista, un’ammissione che finora tutto quello che ho detto era frutto di cavolate. Non siamo padroni di niente, tutto è già là, “… la mia testa sobria si occupa di attualità, dicevo da povero idiota, / tutto è già nell’anima e nel corpo…” così mi sembra che dico ad un certo punto. Devo tutto questo alle chiacchierate che faccio con tutti i miei amici, ma in particolare ad Alfonso Guida e a Tonino Zurlo, che lo so si infastidiranno quando e se leggeranno che ho detto queste cose, ma è così. È tutto un percorso da fare e io ho cominciato pochi mesi fa, nel mio misero tentativo di liberare la mia lingua, bisogna attraversare il deserto come dice Alfonso, in maniera seria e come dice Tonino in tono scanzonato.

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Fiorirà la poesia del giovane Eric Blair

A molti potrà sembrare scontato e facilmente conseguenziale, e per certi versi lo è, perché negarlo, approdare a questa raccolta poetica di Orwell dopo aver terminato la lettura del suo romanzo “Fiorirà l’aspidistra”, in cui si narrano proprio le vicissitudini esistenziali e i tormentati processi interiori di un trentenne poeta inglese – il protagonista Gordon Comstock – alle prese con un’impari battaglia anticapitalistica nei confronti del sistema socio-economico dominante e dei maledetti “quattrini” la cui cronica assenza nelle tasche del poeta è causa di innumerevoli impedimenti sociali e di insopportabili privazioni materiali. Alla fine Comstock capitolerà, accettando obtorto collo un “buon posto” e mettendo da parte la sua avventura da bohemien squattrinato, dinanzi all’amore per Rosemary e all’arrivo di un figlio inatteso… Tanti i temi toccati in questo romanzo: quello riguardante i falsi socialisti che vivono di rendita anche se predicano il marxismo; l’eterna diatriba tra idealismo e pragmatismo: l’autore sembra voler ricordare al lettore (ancora?) che “carmina non dant panem” e che molto spesso, per sopravvivere, la creatività dev’essere messa al servizio anche di ciò che non gradiamo fare…
È, nello specifico, un interessante romanzo di formazione soprattutto per chi fa o ha fatto esperienza editoriale con i propri scritti: le difficoltà legate all’atto creativo, le cadute d’umore causate dai numerosi rifiuti, la crescente consapevolezza di non essere tagliati per il mondo letterario… È più facile scrivere poesie quando si è poveri ma liberi o inquadrati nel sistema e con la pancia piena? La vita entra, quasi sempre senza bussare, nelle stanze delle nostre convinzioni con il chiaro intento di sbaragliarle, a volte salvandoci, altre volte sconvolgendoci e cambiando i nostri piani. Quanti scrittori hanno cominciato pensandosi “poeti” ma di fatto divenendo immortali grazie ai loro lavori in prosa? Orwell è stato uno di questi… Ma non pensate neanche per un istante che le poesie di Orwell siano disgiunte dal suo operato narrativo, dall’ideologia che ha animato in seguito i suoi romanzi più “famosi”. Non pensate che siano state solo un incidente.
Buona lettura!

Non tra i romanzi più noti dell’autore britannico Eric Blair (meglio conosciuto con il suo pseudonimo: George Orwell), in realtà “Fiorirà l’aspidistra” contiene già alcuni elementi prodromici che troveranno pieno sviluppo nei suoi titoli più celebri: la coltivazione del sogno individualistico quale unico strumento per salvarsi dallo schematismo di una vita borghese caratterizzata da basse aspirazioni e “piccole gioie quotidiane”; la lotta al conformismo dominante; la realtà come un muro di gomma che riporta il sognatore a una dimensione meno ambiziosa, più rinunciataria e per questo più solida se considerata dal punto di vista del buon senso comune…
Prima ancora di giungere al controllo asfissiante di un Grande Fratello distopico, Orwell sembra volerci suggerire che già esiste qui tra noi, nel nostro presente, un “controllore” dei nostri desideri che si chiama “conformismo”. Un’esistenza semplice non ha bisogno di grandi obiettivi per essere considerata degna di essere vissuta: proprio come la pianta dell’aspidistra, non necessita di particolari cure. Eppure, forse è proprio dalle piante semplici che nascono fiori e frutti inattesi…
Dirà Winston, il protagonista di “1984”: <<se c’era speranza, la speranza doveva trovarsi tra i prolet!>>. La stessa speranza che Gordon Comstock, protagonista di “Fiorirà l’aspidistra”, riscoprirà nella propria inattesa paternità (l’unico bene posseduto dal proletariato è appunto la prole): cedere alle piccole ma solide soddisfazioni di un’esistenza borghese può salvare dal vortice dei sogni insoddisfatti. I bisogni elementari e primordiali dell’uomo quali antidoti alla deviazione causata dai grandi obiettivi irrealizzabili…

Nota a “Come fosse luce” di Rita Pacilio

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Si esce cosparsi di immagini, di combinazioni linguistiche che mai debordano in virtuosismi poetici fini a se stessi, di vita sbattuta in faccia, di luci e ombre esistenziali, dalla lettura delle poesie di Rita Pacilio; se poi l’immersione avviene nell’ambito di un viaggio antologico come nel caso della raccolta “Come fosse luce” (Macabor, 2023), la sensazione di esperienza totalizzante e avvolgente risulta essere ancora più intensa.

Si tratta di un excursus che non dà tregua al lettore: il susseguirsi di versi così descrittivi (pur senza alcun intento didascalico) e intensi nel loro realismo immaginifico (“Mi sforzo di conciliare vita e spirito / capire quanto sia reale l’invisibile”), rende impossibile ogni tentativo di adeguamento a una linea stilistica confortante (come in tanta scialba poesia contemporanea a uso e consumo di chi necessita di istantanee parole consolatorie!), a un racconto-unguento che guarisca rapidamente la pelle dell’anima e metta a riparo da scottanti cambi di rotta dell’esistenza. È una poesia che affonda le mani nella vita personale dell’autrice, come è ovvio che sia, e in quella dell’intera umanità, maltrattata, dimenticata, abusata, amata e odiata, uccisa e protetta, torturata e desiderata: quello che fuori ne viene tirato è un ritmo di metafore ben costruite, schiaffi leggiadri che possono condurre il lettore verso una bellezza sublime o nell’inferno di alcune condizioni reali. L’accostamento, in tanti passaggi “geniale”, tra parole, crea alchimie che risuonano nella mente e nel cuore di chi si immerge nella poetica di Rita Pacilio (“sottana boscosa”, “lampioni spogliati come donne”, “luce elastica”, “labbra foreste”, “singhiozzo grasso”, “dissotterrare l’infinito”, “il melograno rotto singhiozza colori”, “ombre zitte”, “ronfo lucidato”…: solo alcuni esempi prelevati da un paniere di combinazioni ben più ampio): tentare di domare questa alchimia è inutile; lasciarsi trasportare — come in una danza di parole — dal flusso descrittivo dei suoi versi è l’unica via percorribile. Descrittivi sì, belli da sentire, ma compresi nell’economia di una trama indicibile, universale, che appartiene a tutti e a nessuno, che è personale dell’autrice ma è anche storia dell’umanità, e che per questo motivo diventa canto di ognuno.

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“Poesie sospese”, silloge terza

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“… poesiole, ricordi, esortazioni, esibizionismi, scherzose invettive, di sicuro poesiacce, donate a chi non può permettersi di giocare con le parole, di pagarle in prima persona, di viverle sulla propria pelle. […] Questa terza e ultima silloge della serie sospesa, sottotitolata “nuovi materiali per un futuro incerto”, in omaggio alla prima serie, è divisa in quindici tempi, quindici momenti eterogenei e di diversa ispirazione che vanno a chiudere un’esperienza di necessaria gratuità non richiesta. Non abbiamo dati sicuri sul domani, e forse è proprio da questo costante stato di precarietà che nasce la parola più libera, a volte la poesia più vera anche se meno bella…” (dalla Premessa)

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Robert Frost: due modi di tradurlo…

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Non sono un traduttore, non posseggo gli strumenti e le competenze necessarie per poter giudicare le altrui traduzioni; credo, tuttavia, di essere almeno un lettore curioso, attento quanto basta, che ama confrontare, allineare i testi per cogliere parallelismi, convergenze o divergenze, scelte traduttologiche lineari o ricercati “tradimenti”… Mi è capitato recentemente di mettere a confronto due raccolte di traduzioni (nate quasi insieme!) tratte dalla vasta produzione del poeta americano Robert Frost — conosciutissimo a livello “interplanetario” soprattutto per la sua The Road Not Taken (La strada non presa)—: la prima, intitolata Fuoco e ghiaccio, edita dalla ben nota Adelphi (2022), con traduzioni di Silvia Bre (e a cura di Ottavio Fatica); la seconda a cura dello scrittore, poeta e traduttore teramano Massimo Ridolfi, intitolata Il Contadino della Nuova Inghilterra – Into a life: Robert Frost – The Five Books & Twilight, volume primo Libro VI° – VII° (edita da Letterature Indipendenti; collana “Seguire le immagini” – 2022).

“Capro espiatorio” di questo mio gioco al confronto è la poesia To the Thawing Wind, dalla raccolta di esordio A boy’s will (1913), e già dalla traduzione del titolo si capisce a che tipo di “battaglia” assisteremo: se per la Bre è “Al vento del disgelo”, per Ridolfi la scelta cade su un meno “bello” ma più fedele “Al disgelante vento”. Chiaro è fin dall’epigrafe (affidata a Quasimodo) l’intento di Ridolfi: “… ho condotto queste traduzioni […] per un accostamento più verosimile a quei poeti dell’antichità che […] sono arrivati a noi con esattezza di numeri, ma privati del canto”. Seguendo questo “comandamento quasimodiano”, se per la Bre “loud Southwester” diventa “sonoro libeccio”, per Ridolfi è e resta “fragoroso Sudovest” (si veda la foto con le due traduzioni a confronto) che per un lettore non avvezzo all’approfondimento dei significati non corrisponderebbe all’indicazione di un vento (nonostante sia nota quasi a tutti la direzione del libeccio che è proprio da sud-ovest). Se per alcuni traduttori è più urgente risolvere i problemi di interpretazione al posto del lettore, per altri la priorità durante una traduzione ricade sul rispetto della fonte, anche a costo di rimetterci in bellezza sonora, in fluidità in fase di lettura. Sono scelte, entrambe valide, forse entrambe non criticabili in nessun caso.

E poi: “singer” per la Bre è “cantore”, che fa più bella figura in un contesto poetico (“Porta il cantore”), per Ridolfi è e resta “cantante” (“Porta il cantante”: come quando ci si procura un cantante per una serenata); “nester”: in questo caso, a differenza del vento, la traduttrice di Adelphi sceglie di sottintendere (“e chi fa il nido”), non specificando chi faccia il nido (esistono diversi tipi di animali che nidificano, non solo gli uccelli), mentre Ridolfi si mette al sicuro parlando chiaramente di “uccello migratore” perché l’associazione con il libeccio apre a qualcosa portato in volo, proveniente dall’aria, dal cielo, da lontano.

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“Anarcometaverso”, per “Delle Eloquenti Distopie” vol.2

Latitante da molti, troppi anni dal genere fantascientifico sia in qualità di lettore che di scrivente, alcuni mesi prima dell’estate 2023 sono stato invitato dallo scrittore romano Sandro Battisti (già co-fondatore del movimento artistico-letterario denominato Connettivismo) a partecipare con un mio racconto inedito a un’antologia per la collana da lui curata per la Delos Digital. Inizialmente scettico sulla riuscita di un mio ritorno nel genere, ho accettato con riserva: quindi ho cercato dentro di me, ma anche un po’ fuori, nella vita quotidiana e nella cronaca, un’idea sufficientemente originale per fornire alla mia partecipazione un minimo di qualità stilistica e contenutistica; non è facile tornare a scrivere di argomenti che hai involontariamente snobbato per anni, perché catturato da altri interessi “letterari” che ti hanno di fatto portato lontano mille miglia da una materia che richiede “fedeltà” nel tempo e una certa attenzione nei confronti degli autori di un genere (o sottogenere) letterario e delle loro pubblicazioni. Proiettato in un mondo ormai non più mio, man mano che l’idea scelta per un probabile canovaccio si concretizzava sul monitor, però, ho capito che forse non avevo del tutto disimparato a “sospendere la mia incredulità”: d’altronde anche in poesia il poeta utilizzando un linguaggio decisamente non quotidiano tenta di trasportare il lettore verso mondi inverosimili, interiori, nel regno dell’indicibile, per descrivere a volte ciò che viviamo nella nostra realtà senza accorgercene. È nato così il mio racconto — che oso autodefinire postcyberpunk (in attesa di eventuali smentite da parte degli esperti del settore) — intitolato “Anarcometaverso” e incluso nel secondo volume dell’antologia “Delle Eloquenti Distopie” per la collana curata da Battisti “non-aligned objects” (edizioni Delos Digital). Buona lettura!

Ecco come il curatore Sandro Battisti annuncia sui social l’uscita dell’ebook, citando a sua volta l’editore Silvio Sosio che mi sento di ringraziare per questa bella opportunità:

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“Anime con vista” di AA.VV.

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L’antologia di poesie, ANIME CON VISTA, si presenta come un viaggio introspettivo, un’odissea nella quale i poeti esplorano il proprio mondo interiore con occhi attenti, scrutando e catturando emozioni, pensieri e ricordi profondi. Il titolo stesso, “Anime con Vista”, evoca l’immagine suggestiva di un’anima al balcone, una figura simbolica che si erge al di là della superficie della vita quotidiana per osservare il mondo con occhi penetranti. Questa immagine incarna il desiderio di andare oltre l’apparenza e di connettersi con l’essenza più profonda di sé stessi. È un invito a un viaggio interiore, a esplorare il proprio universo con curiosità e apertura. (il curatore)

CONTRIBUTI:
Diego Cocco, Stefania Giammillaro, Anna Martinenghi, Chiara Rantini, Jonathan Rizzo, Michele Nigro, Antonio Spagnuolo, Francesco Vitale, Nunzio Di Sarno, Francesco Randazzo, Stefano Tarquini, Nicola Galli, Matteo Piergigli, Ramona Paraiala, Ilaria Giovinazzo, Anna Rampini, Loredana Manciati, Alberto Barina, Maura Termite, Giuseppe Settanni, Alessandra Carnovale, Michele Piramide, Luca Ariano, Roberto Casati, Francesco Giovanni Bresciani, Cristiano Sormani Valli, Johanna Finocchiaro, Gennaro De Falco, Paola Puggioni, Gabriella Paci, Alessandro Barbato, Davide Uria, Laura Boscardin, Gianluca Ceccato, Andrea Ravazzini, Alberto Rizzi, Mariano Porru, Carolina Montuori, Mariangela Maio, Stefano Prandini, Manuela Cecchetti, Michele De Lucia, Sheila Moscatelli, Maria Teresa Zanca, Davide Cortese, Fabrizio Sani, Elisa Giusto, Claudia Olivero, Patrizia Masi, Ramona Oliviero, Giuseppe Carlo Airaghi, Valentina Pusceddu, Monica Fornelli, Gloria Frigerio, Antonietta Cianci, Michela Zanarella, Tiziana Aliffi, Alessandro Monticelli, Francesca Giustini, Simone Gastaldi, David Scarano, Lidia Novello, Francesco Farina.

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“Variatio. Letture e riletture” a cura di Giorgio Moio

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È in uscita un nuovo volume collettaneo di “Frequenze Poetiche” intitolato Variatio. Letture e riletture (pp. 236), a cura di Giorgio Moio. All’interno tre scritti che mi riguardano sia come recensore che come recensito:

Eufrasia Gentileschi, La suprema azione della poesia sul caos (pag. 22): recensione di Eufrasia Gentileschi alla mia prima raccolta poetica intitolata “Nessuno nasce pulito” del 2016…

Michele Nigro, A proposito di “Poesie sparse 1989-2008” di Giorgio Moio (pag. 69): una mia recensione a una raccolta di Giorgio Moio…

Davide Morelli, “Poesie minori. Pensieri minimi” di Michele Nigro (pag. 94): recensione di Davide Morelli alla prima silloge (2018) della trilogia “Poesie minori. Pensieri minimi”

Dalla nota del curatore: “Quando si parla di libri, al di là dei propri gusti di lettura, delle proprie scelte di lettura, che siano libri di poesie, di narrativa o di saggistica, lo si deve fare sempre in modo non superficiale, essendo un libro una summa di intelletto e sacrifici, strumenti indispensabili per la crescita dell’umanità. In questo volume si parla proprio di libri, una raccolta di recensioni a volumi (in particolare di poesia) recenti o un po’ datati, pubblicati su «Frequenze Poetiche» dal n. 1 (settembre 2017) al n. 36 (dicembre 2022). Lo scopo di raccoglierle in un unico volume – come per i precedenti – è quello di permettere, a chi fosse interessato, di avere un quadro esaustivo di questa ulteriore attività svolta dalla rivista in un unico volume; ma è soprattutto un modo per tenere viva la memoria, per rendere meno dispersivo l’impegno e il lavoro eseguito in questi anni, nonostante la rivista sia acquistabile sulla maggior parte degli store on line.”

PER ORDINARLO, contattare il curatore Giorgio Moio:

g.moio.piccola.biblioteca@gmail.com

Nota a “La veglia dei corpi” di Valerio Ragazzini

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Intorno a due caratteristiche principali sembrerebbe ruotare l’impianto narrativo de “La veglia dei corpi”, raccolta di racconti di Valerio Ragazzini (ed. Tracce e Ombre, 2023; collana “Icari involati” diretta da Claudia Maschio e Franco Ceradini): la contrapposizione luce/buio e l’uso che l’autore fa del corpo, o meglio, dei corpi. È nella luce che, in base alla vulgata, risiederebbe la verità, la versione più autentica dell’animo umano. Ma è sempre così? È soprattutto tra le pieghe del buio, nel luogo in cui dominano l’oscurità e l’ignoto, che si celano segreti interiori, lati indicibili della nostra volontà, aspetti non considerati del desiderio, forze ancestrali di cui avevamo perso le tracce; lì dove l’uomo è più vero, nudo perché non visto, non esposto al giudizio della luce, in netto contrasto con quei dogmi religiosi che esaltano la luminosità che avvolge chi vive nella grazia di Dio. Cantava Battiato: “La notte, non mi piace tanto, l’oscurità è ostile a chi ama la luce.” E il buio, prima o poi, raggiunge tutti per dare una lezione, come ricordato nell’epigrafe pasoliniana della raccolta. “Era il buio a farsi denso e molta gente temeva di diventare parte di quell’oscurità” (pag.16): nel film “Vanishing on 7th Street” questo timore diventa pericolo concreto; il buio inghiotte letteralmente le persone, simbolismo horror che descrive perfettamente le paure antichissime di un’umanità drogata di luce elettrica, di comodità tecnologiche dipendenti da un onnipresente efficientismo luminoso.

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11 haiku per 11 scatti, raccolta prima

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“… Ma l’haiku ha bisogno di immagini? No, è esso stesso  ̶  in perfetta solitudine  ̶  immagine dell’attimo, del non detto che si annida negli angoli delle 17 sillabe. Un’isoletta di poche lettere nel mare di vuoto tutt’intorno che vuoto non è mai; disciplina contro l’ipertrofia dell’ego che vorrebbe dire e scrivere di più…” (dalla Premessa)

per leggere GRATUITAMENTE la raccolta: QUI

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Breve nota a “La milionesima notte” di Carla Malerba

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Nella silloge La milionesima notte di Carla Malerba è contenuto tutto lo stupore dell’esserci nonostante il vissuto, della casualità dell’esistenza come dono da non sperperare; la bellezza del destino che terrorizza alcuni, è accompagnata dai dolci ricordi di un tempo che il tempo ha reso mitici come sprazzi sessantottini; la stagionalità degli amori consumati non causa nostalgia ma è musica sapiente per il presente; la notte non isola il poeta ma lo accudisce (perché egli sa che è destinato “a effondere parabole di luce” e che scrive “parole / che la mente illumina”). A spaventare e deprimere, invece, è la città con i suoi confini e le sue regole; mentre a salvarci è la semplicità degli elementi naturali: il buio, il ritmo circadiano delle abitudini, i piccoli lumi da seguire nella notte fatta di attese, i pleniluni, il vento autunnale, le ali sicure degli uccelli, il ripetersi dell’estate che riporta a galla antichi ricordi di “smarrite stagioni”… Tutto contribuisce a far riscoprire, ogni giorno, la caducità del vivere (“in questo percorso vano e breve”), il suo veloce svolgersi nei confini dati dal destino, e ogni volta a meravigliarsi come se si fosse appena nati. Il riverbero causato dal confronto dei tempi può avvilire o produrre una poesia che salva: opporsi al disgregarsi della memoria è inutile. Ma c’è speranza (la stessa “che bucherà la pietra sepolcrale”); si pretende il “diritto al sogno dell’estate”, a possedere “il liquido universo”; anche lo smarrimento di un attimo si ricorda con piacere, perché “quello che resta in fondo / è la poesia”, “l’essenza inarrivabile” ma solo sfiorata e mai del tutto catturata neanche dopo un milione di notti.

Michele Nigro

“Pomeriggi perduti” a Sant’Andrea di Conza

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Chi si trova in zona e ha piacere… “intervenghi”! 😁
Il “Salotto letterario”, iniziato ad Agosto, continua anche a Settembre… 😎
Una presentazione “in tandem” con l’autrice Milena Nigro, esperienza (almeno per me) insolita ma simpatica e originale, anche perché chi coordina l’evento – la scrittrice Maria Laura Amendola – sa il fatto suo!

Grazie al Comune, alla comunità e alla Pro Loco di Sant’Andrea di Conza… E grazie a Rossana Tobia-Vallario

Nota a “A un ricordo da te” di Selene Pascasi

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Nel capitolo intitolato “Il cervello di mio padre” (dalla raccolta di saggi “Come stare soli”, Einaudi 2003), lo scrittore americano Jonathan Franzen scrive: “… riesco a vedere la mia riluttanza ad applicare il termine ‘Alzheimer’ a mio padre come un modo per proteggere la specificità di Earl Franzen dalla genericità di una malattia nominabile. […] E, laddove dovrei riconoscere che, sì, il cervello è un pezzo di carne, sembro invece conservare un punto cieco nel quale inserisco storie che enfatizzano gli aspetti dell’io legati all’anima.” Le nostre personalità non sono degli “insiemi circoscritti di coordinate neurochimiche. Chi vorrebbe vedere la storia della propria vita in questo modo?”. Eppure di questo mondo senza memoria e in preda alla cancel culture, in cui sono i social a ricordarci sulle loro timeline cosa abbiamo fatto o detto cinque anni fa o frange di negazionisti mettono in discussione fatti storici innegabili, l’Alzheimer sembrerebbe rappresentarne la sarcastica nemesi.

Ribellandosi alla convinzione di essere fatti di sola biologia, Franzen, affidandosi a Platone, rispolvera con urgenza il concetto di scrittura come la “stampella della memoria”, esaltando la solidità e attendibilità delle parole sulla carta, confermando il desiderio di registrare le storie in maniera indelebile, di annotarle con parole permanenti. Può la poesia svolgere questa funzione anche se in maniera diversa?

Nella silloge A un ricordo da te (Scrivere Poesia Edizioni di Pietro Fratta, 2022), Selene Pascasi non persegue obiettivi storici o biografici; con versi delicati e lapidari, congela preziosi sprazzi di vita privata, deposita attimi irripetibili e drammatici, prepara le carte per annotare “i racconti che svaniranno” o salvare il salvabile, importante per l’anima, “prima che l’infinito / ci avvolga”, costruisce ponti tibetani tra il passato della persona cara assistita durante il declino (la “stagione lenta d’oblio”) e il suo doloroso presente che tanto somiglia a quello di un’anima mai nata (“Analfabeti di storie. / Andiamo via restando.”). Si sobbarca “fardelli di passato”, esamina la bizzarra sospensione di chi pur morendo interiormente continua a vivere in “ergastoli coscienti”, e al contempo esamina se stessa mentre attende “invano un cenno”, le proprie reazioni all’involuzione di chi ama; la scrittura poetica è cronaca privata, sussurrata e mai debordante, che in un certo modo vendica l’assenza neurologica dell’altro fissando per entrambi (per “quell’ultimo noi”) frammenti esistenziali che altrimenti andrebbero perduti.

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Prefazione a “Radical Machines” di Éric Brogniet

versione pdf: Prefazione a “Radical Machines” di Éric Brogniet (ed. Kolibris)

Prefazione a “Radical Machines di Éric Brogniet (ed. Kolibris)

I tempi sono più che maturi per una poetica dell’apocalisse in atto; l’uomo in trasformazione esige parole nuove, versi dirompenti e scomodi che rispecchino la dissacrazione  ̶  autorizzata da noi stessi  ̶  del corpo e della natura che dovrebbe animarlo. Possediamo il coraggio necessario per descrivere questa metamorfosi epocale della carne e dello spirito? E di usare senza esitazione i termini giusti per evidenziarla? Una descrizione che non può essere acritica perché nasce cruda, già sporca di orrori ed errori, capace di denunciare la strisciante ma inesorabile alterazione dell’umanità. Una critica al mondo moderno, avanzato, tecnologico, a un’umanità che si è liberata di se stessa, ovvero della propria aleatoria caratteristica umana, di quella naturalità pensata per la sua felicità, oggi rinnegata, sovrastrutturata, privata di quasi tutti i suoi segreti.

Per intenderci su cosa stiamo osservando da anni senza realizzarne la crudeltà, occorre una nomenclatura dell’orrido che sia libera di manifestarsi; serve adoperare sfumature fantascientifiche e descrizioni apocalittiche per denunciare una realtà che da tempo ha superato la fantascienza perché l’apocalisse è qui, è bella e realizzata, vissuta e accettata quotidianamente. Una disumanizzazione che alberga, ed è a suo agio, nei non-luoghi ipotizzati da Marc Augé (nelle sale d’attesa del Nulla!), nei templi incontestati della civiltà tecnologica, negli anonimi spazi della vita sociale. Troppo in profondità ha scavato la trivella scientifica dell’Homo sapiens confuso, bisognoso di comodità e instupidito dalla luminescenza degli schermi: il suo approccio insensato al reale lo ha reso mostruoso, portatore inconsapevole di tumori interiori e di una coscienza provvisoria; assuefatto a un’informazione deformata da un cancro del linguaggio e che distrae con slogan insignificanti; a una società analizzata, sorvegliata, vivisezionata, fornitrice spontanea di dati a grandi fratelli non bene identificati, condannata in metropoli-mattatoi di vonnegutiana memoria.

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“Il poeta è un detective senza padrone”: prefazione a “Studio realtà” di Rodrigo Garcia Lopes

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Prefazione a Studio realtà di Rodrigo Garcia Lopes (ed. Kolibris)

Il poeta è un detective senza padrone

L’intento è dichiarato in Appendice: <<indagare come avviene il processo di trasferimento dal mondo “reale” al mondo “poetico”>>. Fare in modo che la poesia continui a essere l’unica degna testimone di uno stupore nel vivere, nel registrare il valore del tutto attraverso la celebrazione dei particolari. Il come, non tanto il perché che è materia filosofica, distante dalla semplice meraviglia dell’osservatore. Non è uno studio pedissequo della realtà, ma è un imparare sulla pelle il sapere antico che sfiora ogni giorno l’essere umano, è scoprirsi moltitudine: solo con il poetare che capta le singolarità si può risalire a una “ragione”, che razionale non è, di ciò che siamo e vediamo; perché “il significato è quello che conta meno”. Cogliere i particolari (“L’azione era concentrata sull’individuazione dei dettagli”), i segni scontati, i dolori antichi diluiti nel presente, per un’indagine, priva di un fine preciso, sul reale: bleffa chi propone obiettivi tangibili, “efficienza aziendale”, programmi sensati, etimologie sicure: “la frase è una frode” e, per come ci viene raccontato, “il mondo è un parco giochi di bugie”. Amare non serve a niente se non si è in grado di lasciare un solo verso sulla pelle dell’amata: perché la poesia è scottatura inattesa, che corona l’esistenza del poeta e di chi gli sta accanto; è impossessarsi della profondità del vivere per un “adesso conquistato”: morire, in fin dei conti, è la parte più facile del cammino. È tenere in conto tutto con un linguaggio lento.

Studio realtà di Rodrigo Garcia Lopes è anche un imprendibile manuale di scrittura poetica per “innamorarsi di questi frutti della parola”, mai schiavi ma “istanti portatili”, liberi, nomadi nei nostri deserti quotidiani; mai prigionieri di convenzioni e convinzioni, avere fede nell’evoluzione (“la poesia è una / strategia di soprav- / vivenza”), nel Todo Cambia cantato da Mercedes Sosa, nel cambiamento non previsto e non riassumibile in una rima. La poesia è essere dove non si è, non dove è logico pensare di dover essere, anche se la vita a cui si è legati è una e una sola: è raggiungere l’insondabile con la fantasia (fare Fabula rasa del reale!) – travolgendo la razionalità di spazio e tempo, e quindi della Storia –, fissando sfumature nei versi ispirati da sensazioni vissute; è “sapere cosa ci dice ogni oggetto”, è baciare il momentaneo. È lo strumento che “scava l’inafferrabile”.

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