“Robert Frost: due modi di tradurlo…” su Navuss.it

Il mio articolo “Robert Frost: due modi di tradurlo…”, già apparso su questo blog (QUI), è stato ripubblicato su “Navuss”, periodico di attualità e di informazione diretto da Serena Suriani; la pagina culturale di Navuss è invece curata dal poeta, scrittore e traduttore teramano Massimo Ridolfi.

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Nota a “Come fosse luce” di Rita Pacilio

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Si esce cosparsi di immagini, di combinazioni linguistiche che mai debordano in virtuosismi poetici fini a se stessi, di vita sbattuta in faccia, di luci e ombre esistenziali, dalla lettura delle poesie di Rita Pacilio; se poi l’immersione avviene nell’ambito di un viaggio antologico come nel caso della raccolta “Come fosse luce” (Macabor, 2023), la sensazione di esperienza totalizzante e avvolgente risulta essere ancora più intensa.

Si tratta di un excursus che non dà tregua al lettore: il susseguirsi di versi così descrittivi (pur senza alcun intento didascalico) e intensi nel loro realismo immaginifico (“Mi sforzo di conciliare vita e spirito / capire quanto sia reale l’invisibile”), rende impossibile ogni tentativo di adeguamento a una linea stilistica confortante (come in tanta scialba poesia contemporanea a uso e consumo di chi necessita di istantanee parole consolatorie!), a un racconto-unguento che guarisca rapidamente la pelle dell’anima e metta a riparo da scottanti cambi di rotta dell’esistenza. È una poesia che affonda le mani nella vita personale dell’autrice, come è ovvio che sia, e in quella dell’intera umanità, maltrattata, dimenticata, abusata, amata e odiata, uccisa e protetta, torturata e desiderata: quello che fuori ne viene tirato è un ritmo di metafore ben costruite, schiaffi leggiadri che possono condurre il lettore verso una bellezza sublime o nell’inferno di alcune condizioni reali. L’accostamento, in tanti passaggi “geniale”, tra parole, crea alchimie che risuonano nella mente e nel cuore di chi si immerge nella poetica di Rita Pacilio (“sottana boscosa”, “lampioni spogliati come donne”, “luce elastica”, “labbra foreste”, “singhiozzo grasso”, “dissotterrare l’infinito”, “il melograno rotto singhiozza colori”, “ombre zitte”, “ronfo lucidato”…: solo alcuni esempi prelevati da un paniere di combinazioni ben più ampio): tentare di domare questa alchimia è inutile; lasciarsi trasportare — come in una danza di parole — dal flusso descrittivo dei suoi versi è l’unica via percorribile. Descrittivi sì, belli da sentire, ma compresi nell’economia di una trama indicibile, universale, che appartiene a tutti e a nessuno, che è personale dell’autrice ma è anche storia dell’umanità, e che per questo motivo diventa canto di ognuno.

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“Fenomenologia della poesia facile” su L’Age d’or…

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Il mio articolo “Fenomenologia della poesia facile” è stato pubblicato (con il titolo riportato in immagine) sul numero di febbraio/marzo 2024 (Anno V) di “L’Age d’or”, “… un blog-rivista online di cultura e società con l’intento di diffondere e sostenere il pensiero critico” curato da Marco PalladiniDésirée Massaroni che ringrazio… Purtroppo per esprimere questo pensiero critico (scambiato dal minus habens per invidia) in maniera coerente e senza ipocrisie si è costretti implicitamente a fare un po’ di book marketing e quindi di pubblicità involontaria a un “personaggio”, più che a un poeta, che invece meriterebbe l’oblio… 

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“Perfect days” e l’hic et nunc di Wenders

versione pdf: “Perfect days” e l’hic et nunc di Wenders

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Quand’è che una vita può essere considerata “perfetta”? Quando soddisfa i parametri valutativi di un sistema videocratico-consumistico basati sull’arrivismo, sul potere dell’influencing e sul successo mediatico o quando rispetta un ecosistema interiore costruito lentamente e con pazienza negli anni? Questo film di Wenders, da più parti e a ragione considerato “poetico”, pone al centro di tutto la contrapposizione tra l’affanno di chi programma la vita futura e il carpe diem di chi sceglie di cogliere l’attimo offerto dal “qui e adesso”, senza preoccuparsi di quel che si dovrà fare domani.

Il protagonista Hirayama (Kōji Yakusho) ha rinunciato a “un altro mondo”, solo accennato nel film, per onorare quotidianamente — nel proprio mondo — la meraviglia dell’esserci, lo stupore per le piccole cose, il primo respiro profondo appena svegli (a svegliarlo non è lo stridore di una sveglia ma il fruscio di una scopa di saggina), attraverso un ritualismo routinario fatto di gesti ripetuti, di abitudini puntuali, di “piccole gioie quotidiane” come innaffiare piantine, sorridere al cielo uscendo di casa, ascoltare musicassette fuori moda, frequentare luoghi pubblici ormai familiari, rifarsi il letto con movimenti collaudati, dedicarsi meticolosamente al proprio lavoro…

Qualcuno potrebbe, con una punta di malizia, ipotizzare che in realtà Wenders si sia reso la vita facile scegliendo una società, una cultura, una tradizione comportamentale come quella giapponese per proporre la sua personale visione di una filosofia esistenziale tendente alla perfezione, dal momento che il modus vivendi del popolo nipponico (al netto delle deviazioni causate dalle influenze occidentali veicolate dalla globalizzazione) è già per sua natura meticoloso, rispettoso del bene comune al limite dell’autolesionismo e affetto da precisione maniacale non solo nei luoghi pubblici e di lavoro ma anche nella vita privata. Tuttavia il protagonista del film aggiunge a queste caratteristiche diffuse un proprio tocco personale: la ricerca della bellezza nelle piccole cose non può essere offuscata dalla routine di un lavoro che da molti potrebbe essere definito “umile” (e umiliante), non all’altezza di chi avrebbe potuto aspirare ad attività più “alte”. Hirayama ci insegna che non esistono lavori umili o non all’altezza di qualcuno, ma solo lavori che nobilitano chi li svolge se eseguiti con dignità e meticolosità, da contrapporre ai lavori fatti per tirare a campare, per sopravvivere e racimolare qualche banconota per uscire con la propria ragazza il sabato sera… Spetta al singolo individuo scegliere se trasformare la propria esistenza in un haiku di equilibrio e di perfezione, capace di congelare l’attimo in tutta la sua bellezza, o vivere una vita in modalità inerziale, senza meraviglia, senza una filigrana che può intravedersi solo in controluce…

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“Variatio. Letture e riletture” a cura di Giorgio Moio

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È in uscita un nuovo volume collettaneo di “Frequenze Poetiche” intitolato Variatio. Letture e riletture (pp. 236), a cura di Giorgio Moio. All’interno tre scritti che mi riguardano sia come recensore che come recensito:

Eufrasia Gentileschi, La suprema azione della poesia sul caos (pag. 22): recensione di Eufrasia Gentileschi alla mia prima raccolta poetica intitolata “Nessuno nasce pulito” del 2016…

Michele Nigro, A proposito di “Poesie sparse 1989-2008” di Giorgio Moio (pag. 69): una mia recensione a una raccolta di Giorgio Moio…

Davide Morelli, “Poesie minori. Pensieri minimi” di Michele Nigro (pag. 94): recensione di Davide Morelli alla prima silloge (2018) della trilogia “Poesie minori. Pensieri minimi”

Dalla nota del curatore: “Quando si parla di libri, al di là dei propri gusti di lettura, delle proprie scelte di lettura, che siano libri di poesie, di narrativa o di saggistica, lo si deve fare sempre in modo non superficiale, essendo un libro una summa di intelletto e sacrifici, strumenti indispensabili per la crescita dell’umanità. In questo volume si parla proprio di libri, una raccolta di recensioni a volumi (in particolare di poesia) recenti o un po’ datati, pubblicati su «Frequenze Poetiche» dal n. 1 (settembre 2017) al n. 36 (dicembre 2022). Lo scopo di raccoglierle in un unico volume – come per i precedenti – è quello di permettere, a chi fosse interessato, di avere un quadro esaustivo di questa ulteriore attività svolta dalla rivista in un unico volume; ma è soprattutto un modo per tenere viva la memoria, per rendere meno dispersivo l’impegno e il lavoro eseguito in questi anni, nonostante la rivista sia acquistabile sulla maggior parte degli store on line.”

PER ORDINARLO, contattare il curatore Giorgio Moio:

g.moio.piccola.biblioteca@gmail.com

Appunti rozzi di un lettore de “Il dottor Živago” di Pasternak su Pangea.news

Il mio articolo “Appunti rozzi di un lettore de Il dottor Živago di Pasternak” (già pubblicato su questo blog, qui) è stato riproposto su Pangearivista avventuriera di cultura e idee, “una delle migliori rassegne culturali in Italia”, curata dal giornalista, poeta, scrittore e critico letterario Davide Brullo e che da sempre pubblica articoli interessanti e culturalmente stimolanti.

Per leggere l’articolo: QUI!

3 domande a Ilaria Cino

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a cura di Michele Nigro, per il litblog “Pomeriggi perduti”

Sei ritornata sulla scena “social”, dopo un periodo di quiescenza, con un tuo sito intitolato “Ilaria Cino – literature influencer”, di poesia e altre cose, in contrapposizione – ipotizzerei io – a un altro tipo di “influencing” che va di moda, ben più inconsistente e di cui troppo si parla. Ti racconti non solo con dei versi inediti ma anche attraverso sprazzi di prosa “sincera”, che non fa sconti innanzitutto a te stessa. Nella tua nota biografica affermi: “la poesia è stata quel mistero di silenzi che non mi ha lasciata sola davanti alle offese della vita…”. Quindi la Poesia può ancora avere – in maniera quasi “esoterica”, direi privata – una funzione salvifica in un mondo che non solo non legge, ma non considera quasi più i poeti se non quelli che fanno “spettacolo” per vendere più copie?

Come epoca, faccio parte di un novecento assente, di un “grido unanime” citando Ungaretti, spento con troppa semplicità. Di questo tempo buio molti ne portano i segni, le contraddizioni che non possono non accendere un poeta. Dobbiamo rassegnarci al “pianger l’aer et la terra e ‘l mar devrebbe l’uman legnaggio” di Petrarca o riconsiderare il fallimento? Come figlia del novecento assente, tento la risposta. Il fenomeno di “influencing”, da te citato, sociologicamente lo valuto. Comunque è un prodotto mediatico dal basso che ha avuto un senso per molti, durante i picchi della pandemia. La poesia ha sempre avuto un ruolo, non salvifico, ma che risponde ad un intimo agire delle Muse, come ribadito da Rilke nelle “lettere a un giovane poeta”, o se vuoi solo per l’Inno a Satana del Carducci, e del verso “e corre un fremito/d’imene arcano”. È stato utile? lo si conosce?

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Ci sono più scrittori che lettori…

versione pdf: Ci sono più scrittori che lettori…

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Circola ormai da anni il mantra litanico “ci sono più scrittori che lettori!” (che viaggia in coppia con “oggi tutti scrivono!”), non lontano dalla realtà dei fatti, ma che andrebbe analizzato con più attenzione perché l’esperienza storica ci insegna che spesso gli slogan, quando sono inflazionati da un uso improprio, rischiano di perdere il loro potenziale comunicativo ed “educativo”, se ne hanno uno. Nell’analizzare tale slogan, cercheremo parallelamente possibili soluzioni al problema evidenziato dallo stesso e formuleremo riflessioni, a volte ironiche, che ci aiutino a capire un po’ di più l’articolato universo dei libri e dei loro fruitori.

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Fellini e l’elogio alla pagina bianca

versione pdf: Fellini e l’elogio alla pagina bianca

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In un sistema produttivistico che obbliga a un efficientismo artistico, il giorno libero dal set, il buio delle idee, la pagina bianca, la confusione mentale ed esistenziale, l’ozio non creativo, rappresentano una salvifica benedizione, sono gli elementi di uno stato di grazia che se inizialmente deprimono e abbattono la voglia di fare dell’artista, in seguito rivelano la loro necessaria funzione risanatrice, di pausa dal mondo, di punto di vista alternativo. E se fosse la fine delle idee, dell’entusiasmo, dell’energia vitale? Se questa depressione ipocondriaca che prende il posto del successo fosse una nuova e permanente condizione interiore da accettare e fare propria? Le domande si fanno insistenti così come le richieste dall’ambiente a cui si appartiene; la lacune esistenziali, il groviglio di contorsioni, di acrobazie autoassolutorie e di alibi in cui l’essere umano si intrappola con le proprie mani, diventano la nuova verità a cui è difficile non credere. Ma i sogni, i desideri e le fantasie a occhi aperti riportano l’uomo sbandato verso un inconscio a cui è difficile mentire: le voci interiori sono vere nella loro assurdità, e torturano l’essere che crede di usare attivamente la propria coscienza, di dominare la vita con la forza di volontà. Si vive di collaudate facciate più o meno accettate perché comode, si scende a compromessi con tutti ma allo stesso tempo si fugge da tutti e da tutto, da se stessi, dalle responsabilità, dagli affari di chi ha puntato su di noi… Qualcuno, però, ha il coraggio di dire: “Sei libero, ma devi scegliere. Non c’è più tanto tempo!”. La fine si avvicina: non siamo immortali e l’orologio ci pugnala alle spalle secondo dopo secondo, ora dopo ora; bisogna compiere delle scelte, selezionare le priorità, recuperare ciò che conta nella vita. Ma più tentiamo di soddisfare queste priorità e più ci incartiamo in noi stessi, più ci allontaniamo dal gesto draconiano e liberatorio; più cerchiamo di dare risposte a chi ci insegue, più rischiamo di dimenticare la nostra anima, i nostri obiettivi interiori. Arriva il momento salvifico della rinuncia, del dire a se stessi la verità; il coraggio di gettare la spugna e rivelarsi deboli ma veri, e ritrovare il coraggio di ricominciare aprendosi a un aiuto, a una seconda possibilità, alla riscoperta della parola “insieme”. Abbattere il castello di menzogne, affrontare i conflitti nascosti nel cuore e trascinati dall’infanzia, aprire le mani in segno di resa e riconquistare l’entusiasmo perduto, la genialità creatrice che rianima. Le proprie debolezze, i propri fantasmi, diventano così alleati, personaggi da rivalutare positivamente, protagonisti di una pellicola non ancora girata: tutti parte di un enorme spettacolo circense chiamato “vita”. Ma per scoprire questo nuovo copione e scoprirsi, bisogna avere il coraggio di rinunciare a insistere, di autocensurarsi, di vivere il silenzio, di ritornare a guardare senza paura il foglio bianco, di non sentirsi artisti necessari ma in bilico e inutili, di strappare il foglio su cui è riportata un’idea che non ci convince totalmente, di mandare tutti a casa, di smontare la scena che non ci appartiene più; perché a volte “distruggere è meglio che creare” in un mondo ipocrita e autoreferenziale che crede di sfornare il romanzo necessario, il film necessario, l’album musicale necessario… Rinunciare al tutto per rivalutare il nulla. Il film non ancora prodotto — e che sarà il più bello — è quello che parla di noi, della nostra più scomoda intimità, delle nostre paure e dei nostri desideri, del nostro sentirci inutili, delle debolezze che danzano con noi in un cerchio finale e risolutivo. Tenendosi per mano, assecondando una musica allegra e al tempo stesso malinconica: la colonna sonora di un circo che felicemente sta per chiudere i battenti.

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Nanni Moretti, tra etica ed estetica

versione pdf: Nanni Moretti, tra etica ed estetica

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Che a Nanni Moretti non andassero a genio molte cose dell’epoca in cui vive, l’avevamo intuito da tempo. La critica alla contemporaneità (e l’autocritica) che partendo da Ecce bombo passa per Palombella rossa, Caro diario e Aprile, trova forse una piena maturità nel suo ultimo film intitolato Il sol dell’avvenire. Una critica all’etica politica, artistica, sociale; una critica all’estetica cinematografica, morale, sentimentale. Nanni Moretti, ancora una volta, parla di se stesso, usa se stesso e la sua esperienza privata e professionale per evidenziare, non senza un’immancabile dose di ironia, le parti indigeste dell’esistenza e dei difficili rapporti interpersonali, gli elementi insopportabili delle scelte altrui, le sfumature su cui molti non si soffermano per pigrizia mentale e morale. Al di là delle “larussate” sul 25 aprile, su via Rasella e sulla presunta assenza del termine “antifascismo” (o meglio, del suo significato ideologico) nella Costituzione Italiana, questo film del regista romano rimette in moto la voglia non dico di “fare politica” ma almeno di interessarsi a essa dopo un’epoca di governi multicolori e quindi amorfi, appiattiti dal punto di vista partitico, e trasformati in un “circo” mediatico senza sostanza. Ma il Nulla che tutto semplifica, persiste ancora nelle cose amate dal protagonista Giovanni: persino la violenza, nelle scene di un certo cinema contemporaneo, è stata semplificata, predigerita, de-estetizzata dalle esigenze del marketing “netflixiano”. Nelle trame dei film (anche in quelli concepiti per illustrare la storia politica), l’amore, ovvero l’individualismo, vuole a tutti i costi prevalere sulla politica, scavalcando i copioni e le rigide direttive del regista; c’è bisogno di stupire e non di far pensare: persino gli oggetti del nostro presente invadono prepotentemente la scena storica riprodotta sul set; il ricordo politico di un’epoca è costantemente minacciato dalla modernità.

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Fenomenologia della “poesia facile”

versione pdf: Fenomenologia della “poesia facile”. Dalla neolingua alla neopoesia

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Dalla neolingua alla neopoesia

Ho assistito recentemente a una innovativa e coraggiosa trasposizione teatrale del famoso romanzo “1984” di George Orwell, già immortalato nella memorabile riduzione per il cinema del regista Michael Radford: inevitabilmente uno dei temi nevralgici ripresi anche dalla pièce è stato quello riguardante la cosiddetta neolingua inventata dall’autore di fantascienza britannico per descrivere il lento ma inesorabile processo di semplificazione del linguaggio, attuato dal partito del Grande Fratello, quale premessa per una decostruzione del pensiero critico nei confronti dell’ideologia dominante. Un’ideologia di regime bisognosa di pedine acritiche e non di uomini e donne pensanti. Eliminare quanti più termini è possibile dal vocabolario corrente per impedire sul nascere l’elaborazione di sillogismi e quindi di critiche in grado di mettere in difficoltà la presa diretta del dittatore sulle menti dei cittadini. La semplificazione del linguaggio per realizzare un più efficace controllo del pensiero della popolazione non è purtroppo solo un’invenzione di Orwell ma è stata nel corso della Storia anche una pratica ampiamente applicata; alcuni esempi attualizzabili: gli slogan propagandistici, le frasi a effetto per stupire l’elettore e parlare alla sua pancia, gli annunci lapidari non verificabili riguardanti opere pubbliche che non verranno mai realizzate…

È di questi giorni l’uscita nelle librerie dell’ennesimo best seller di un noto “poeta televisivo” che non fa mistero del proprio successo editoriale attribuendolo principalmente alle sue doti comunicative dirette, sincere, geo-onnipresenti, limpide, intorno a tematiche basilari, primitive, “domestiche” e a un suo stile poetico che potremmo definire “facile”, semplificato, consolatorio, medicamentoso come la panacea delle nonne realizzata con ingredienti casalinghi, non complessi, alla portata di tutti. A ogni pubblicazione di questo autore ne consegue un putiferio mediatico alimentato da critici indignati, da autori che non credono nell’autenticità letteraria di certi successi editoriali pompati dal marketing… A essere messa sotto accusa, ogni volta, è una non poesia che viene spacciata per Poesia e che misteriosamente (poi mica tanto misteriosamente, per motivi che diremo dopo!) riesce a raggiungere molti più lettori di quanto non faccia la “poesia vera”, quella riconosciuta dai manuali di metrica e dalla storia ufficiale della letteratura; quella degli autori che sgobbano su un verso per giorni e giorni, a volte per anni, (mentre il nostro, a dire degli invidiosi — anzi, lo dice lui stesso! —, le sue poesiole le concepirebbe in ascensore, in una sala d’attesa d’ospedale o in viaggio sul treno tra un reading pubblico, una soppressata da affettare e una lectio magistralis via Skype).

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“Pomeriggi perduti” sul blog La casa del vento

Grazie a “La casa del vento”…

La casa del vento

MICHELE NIGRO

POMERIGGI PERDUTI

Kolibris, 2019

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…Arditi tizzoni ardenti schizzati dal braciere/di Poesia/ustionarono la pelle della dimenticanza/…

Corposa, coinvolgente, con un risuono classico di fondo la raccolta di poesie Pomeriggi perduti del poeta campano Michele Nigro, convinto sostenitore del valore della poesia, parola-verbo d’anima che registra il tempo e i tempi, eternandone gli attimi comunque e nonostante, anche a sua insaputa.

“Non sarà ora che le vedrai/mentre ti chiedo di leggerle/ma in un giorno qualunque/venute fuori per caso…/ritornerai su parole ignorate/ come è normale che sia/ da rimasticare/eppure sempre presenti/tra pazienze impolverate/e le cose da fare/senza pretese, a sperare di essere/
se stesse, nient’altro che verbi d’anima/amate per quelle che sono/umili/silenziose/già eterne a loro insaputa”.
 (Poesia a sua insaputa)

“ …la Natura/cattiva e giusta/inventò la Morte. /Ma l’uomo/condannato a finire come tutte le cose finite/scoprì il sacro fuoco della parola./Arditi tizzoni ardenti schizzati dal braciere/

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Nota di Franca Canapini a “Pomeriggi perduti”

versione pdf: Nota di Franca Canapini a “Pomeriggi perduti”

Una gradita e ricca nota di lettura della poetessa toscana Franca Canapini alla mia raccolta “Pomeriggi perduti”

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… Arditi tizzoni ardenti schizzati dal braciere / di Poesia / ustionarono la pelle della dimenticanza…

Corposa, coinvolgente, con un risuono classico di fondo la raccolta di poesie Pomeriggi perduti del poeta campano Michele Nigro, convinto sostenitore del valore della poesia, parola-verbo d’anima che registra il tempo e i tempi, eternandone gli attimi comunque e nonostante, anche a sua insaputa.

“Non sarà ora che le vedrai / mentre ti chiedo di leggerle / ma in un giorno qualunque / venute fuori per caso…/ ritornerai su parole ignorate / come è normale che sia / da rimasticare / eppure sempre presenti / tra pazienze impolverate / e le cose da fare / senza pretese, a sperare di essere / se stesse, nient’altro che verbi d’anima / amate per quelle che sono / umili / silenziose / già eterne a loro insaputa”. (Poesia a sua insaputa)

“… la Natura / cattiva e giusta / inventò la Morte. / Ma l’uomo / condannato a finire come tutte le cose finite / scoprì il sacro fuoco della parola. / Arditi tizzoni ardenti schizzati dal braciere / di Poesia / ustionarono la pelle della dimenticanza.” (Fuoco eterno)

Invano si cerca un filo conduttore tra un testo e l’altro della raccolta. Ogni poesia si presenta in se stessa compiuta, con le sue argomentazioni e la sua forma, adattata al sentire del momento. Colpisce il discorso spesso serrato e ipotattico, colpiscono le numerose metafore, talvolta estreme. Il filo che potrebbe unire le singole opere può essere, come afferma lo stesso Nigro in un’intervista, la vita. La sua/nostra vita fatta di esperienze, emozioni, ricordi, pensieri, visioni critiche della società contemporanea, il tutto espresso con virile spietato realismo.

In Epitaffio, dedicata a Edgar Lee Masters, si presenta come un poeta “appartato”, proiettando se stesso in  Herman Coluccio, un personaggio di fantasia:

… “Qui Herman Coluccio,

seduto in quest’angolo

del West virginia

guardando le case

dei vivi, le cose dei morti

e la campagna dei padri

in ogni stagione voluta da Dio,

ha forse vissuto

le ore più serene

(non diciamo felici)

della sua apparente-

mente

inutile esistenza

in compagnia delle fredde stelle

e di un sigaro infinito

fumante parole”.

 

C’è miglior epitaffio

Per un poeta appartato?”

In effetti, scorrendo i vari testi, emerge la figura di un uomo che vive in un luogo che sente poco stimolante, ma che, nella sua ricercata solitudine, si tiene in costante dialogo con i vivi e con i morti, con la gente semplice e con i grandi della letteratura; e, come Herman Coluccio, si concede il piacere di trascorrere “pomeriggi perduti” in compagnia di un sigaro infinito, fumante parole.

Ci dà conto del suo approccio all’esistenza l’ex ergo con i versi di Walt Whitman che invitano ad accettare il potente dramma della vita solo per il semplice fatto di esserci e poter ad essa apportare un verso: una specie di nichilismo attivo, quindi, che gli permette di dedicarsi alla letteratura e alle cose del mondo, nonostante sappia che non c’è niente per cui davvero valga la pena muoversi.

E allora eccolo “apportare versi alla vita”.

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