Tre inediti letti da Rodolfo Lettore…

Tre miei inediti letti magistralmente da Rodolfo Lettore… che come sempre ringrazio!

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E il giorno della fine non ti servirà la laurea

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E il giorno della fine non ti servirà la laurea 

Tempo fa risposi alle domande di un questionario proposto a più persone da una studentessa (il cui nome per questioni di privacy ovviamente non mi è possibile rivelare) in procinto di preparare una tesi di laurea sul periodo sperimentale del cantautore Franco Battiato e sul mio rapporto con lo stesso in qualità di ascoltatore/estimatore di lungo corso. Il titolo dell’intervista sopra riportato, parafrasi di un verso di un brano di Battiato, è di mia invenzione e non riguarda la tesi di laurea dell’intervistatrice e tesista. 

Esperienza con Franco Battiato

(Intervistatrice/tesista) Da quanto tempo ascolti la musica di Franco Battiato?

(Michele Nigro) Dalla fine degli anni ’70. Ma più consapevolmente dall’inizio degli ’80.

Qual è il tuo album o periodo preferito di Franco Battiato tra quelli che spaziano dall’avanguardia elettronica al pop e alla musica classica? (Se ne hai uno)

Premesso che secondo me ‘tutta’ la produzione artistica di Battiato è stata sperimentale se confrontata con il cantautorato “standard” dell’epoca, e anche dopo, posso affermare che ho amato e amo in particolare il periodo pop ovvero quello durante il quale Battiato veicolò tematiche lontane dalla cultura di massa grazie a una musicalità non più d’avanguardia, di nicchia, ma accessibile a quasi tutti gli ascoltatori.

Come hai vissuto il passaggio di Franco Battiato da un genere all’altro durante la sua carriera? Hai preferenze per uno stile musicale specifico tra quelli sperimentati dall’artista?

Non mi sono mai lasciato influenzare dai cambi di rotta del Maestro: ho ancora oggi difficoltà a collocare i singoli brani nei vari album, anche cronologicamente, perché seguo una lettura trasversale di tipo tematico e non in base al genere o al periodo, pur distinguendone ovviamente le diversità. Torno a ripetere: il pop, anche quello più tendente allo sperimentalismo, ha rappresentato a mio avviso lo stile più vincente dal punto di vista comunicativo.

Qual è la canzone di Franco Battiato che senti rappresenti meglio il suo sperimentalismo musicale? Perché?

Credo che “L’era del cinghiale bianco” (che dà il nome anche all’album che lo contiene) sia il brano da cui tutto è scaturito, il primum movens. Non solo perché segna il passaggio discografico dallo sperimentalismo al pop, ma per gli accostamenti strumentali (ad es. violino con batteria e chitarra elettrica) che caratterizzeranno in seguito una convivenza tra diversità anche su altri livelli…

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Personaggio: FRANCO BATTIATO

Hai mai assistito ad un concerto di Franco Battiato? Se sì puoi elencare quali.

Sì, a molti. Il primissimo fu subito dopo il terremoto dell’80 in Irpinia: venne a suonare in provincia di Potenza, a Ruoti per essere precisi, con la formazione dell’epoca (Pio, Destrieri, ecc.). Ero piccolo: fu una rivelazione che tuttavia “esplose” in seguito, nella maturità. Dopo c’è stato un certo periodo di lontananza: mancai ad alcuni suoi tour, per poi riprendere a seguirlo fino alla fine. Di concerti ne ricordo uno in particolare di piazza – gratuito – ad Anagni per i 700 anni dallo schiaffo di Anagni, il 7 settembre 2003. Fu memorabile… Poi c’è stato (vado in ordine sparso spulciando tra i biglietti conservati) l’Apriti Sesamo Live (Auditorium Conciliazione Roma 2013), a Ercolano nel 2011, all’Arena del mare a Salerno nel 2013, Franco Battiato e Alice nel 2016 a Roma (Auditorium Conciliazione), all’Ippodromo delle Capannelle Roma 2011, Fleurs Tour a Napoli nel 2002… Impossibile ricordarli tutti; molti furono anche concerti di piazza o di fine anno sempre in piazza (uno tra tutti un 31 dicembre a Salerno); sempre tra quelli di piazza ne ricordo uno ad Avellino (non ricordo l’anno) in cui, stando sotto il palco, ammirai un Battiato in piena forma che suonava la sua chitarra elettrica (come poi non avrebbe più fatto rientrando in una veste più classica e sobria: per capirci, il Battiato che cantava seduto tranquillo sul tappeto)… L’ultimo a cui ho assistito, prima di quelli in cui cadde rovinosamente, è stato a Napoli in piazza Plebiscito: era già un Battiato “distratto”, disinteressato a ricordare i testi, direi “etereo”, dalla voce insicura e debole, diretto ormai verso un suo mondo interiore da cui non sarebbe più riemerso.

Hai mai avuto la possibilità di interagire con Franco Battiato? Se sì racconta l’esperienza.

Non l’ho mai inseguito per un selfie, per costringerlo a un dialogo, per esprimergli pensieri profondi, come molti suoi estimatori più coraggiosi e sfacciati di me hanno fatto nel corso degli anni… L’ho avvicinato solo una volta per avere un suo autografo sul libro “Attraversando il bardo” abbinato all’omonimo documentario in dvd. L’occasione si presentò in Cilento (Campania) nel 2015 durante un pubblico dialogo tra lui e Ruggero Cappuccio; ti allego il link all’evento.

Cosa rappresenta per te Franco Battiato? Quali emozioni o pensieri evoca nella tua mente?

Pur essendo stata una presenza virtuale, distante, per i motivi che ho già illustrato nella risposta precedente (non ho mai amato “pedinare” i personaggi famosi, amo di più la casualità degli incontri), Battiato è stato per me una guida spirituale, un Maestro, un “padre”, un ricercatore puro, ma prim’ancora è stato un colto indicatore di percorsi geografici e interiori, un istigatore a ricerche “altre”… In alcuni periodi della mia vita è stato anche un ottimo “antidepressivo” perché mi ha offerto un punto di vista alternativo, sollevandomi da certi “sbalzi d’umore”…

Perché secondo te è importante parlare di Franco Battiato oggi?

Perché, senza preoccuparmi di esagerare, posso dire che Battiato farà parte della “musica classica” del futuro; non è importante parlarne perché scomparso e quindi per tenere accesa la luce sul suo operato: non ha bisogno di questo tipo di agevolazioni perché a volte mi capita di sorprendere giovanissimi ascoltarlo in piena autonomia. Quindi c’è speranza per il domani. Credo sia importante parlare di lui oggi affinché le tematiche culturali, spirituali, veicolate dalla sua musica, restino sempre tra le priorità di chi compie un certo tipo di ricerca su se stesso e sul mondo.

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Nello scenario italiano chi era Battiato per te e per l’opinione pubblica? C’era già una consapevolezza, diffusa o individuale, che si stava assistendo ad una vera e propria avanguardia musicale?

I più attenti musicalmente hanno subito captato il cambio di passo e l’hanno continuato a seguire in quel senso. Lego i suoi primi brani pop a epoche fanciullesche della mia vita, quindi Battiato è entrato a far parte di un substrato culturale di stampo popolare e oggi mi è difficile scindere quell’esordio dal mio vissuto: la consapevolezza su “basi scientifiche”, almeno per me, è giunta forse dopo, leggendo libri su di lui, andando a spulciare sue indicazioni al di là dei motivi musicali ma “analizzando” direttamente i testi. Temo che per altri, invece, questa consapevolezza non sia mai arrivata: Battiato per alcuni resta inaccessibile e indecifrabile, quindi ci si limita a citarlo decontestualizzando alcuni stralci dei suoi testi solo per far vedere di conoscere qualche suo ritornello. Questa consapevolezza è stata ritardata appositamente dallo stesso Battiato, credo, proprio perché scelse di utilizzare un veicolo pop: solo chi si è soffermato sulla sua opera andando al di là dei ritornelli ballabili, è riuscito forse a cogliere l’intento avanguardistico di Battiato anche da un punto di vista filosofico e spirituale.

Adesso prova delle sensazioni diverse quando ascolta i dischi di Battiato rispetto alla prima volta?

No, devo dire che alcuni brani che avrò ascoltato forse migliaia di volte non mi stancano mai e conservano una “freschezza rinnovabile” che non ho saputo riscontrare in altri cantautori. Anzi, il riascolto serve a scoprire nuove angolazioni sonore che erano state trascurate. Se invece vogliamo riferirci al riascolto all’indomani della sua dipartita da questo pianeta, allora tiriamo in ballo sensazioni che non si limitano alla nostalgia e alla malinconia, ma si caricano di una responsabilità maggiore perché si è consapevoli di riascoltare un cantautore che non vedremo mai più dal vivo e che non uscirà mai più con un suo nuovo album di inediti (nonostante l’intelligenza artificiale ci aiuti a sfornare ancora oggi brani dei Beatles raschiati da fondi discografici!)

In riferimento al tema della politicizzazione: com’era considerato Battiato rispetto agli altri cantautori dell’epoca?

La politicizzazione della ricerca musicale di Battiato è stato sempre un fenomeno che mi ha divertito; Battiato è stato “strattonato” dalla destra e dalla sinistra, un po’ come è successo a Tolkien, conteso dai neofascisti dei campi Hobbit e dal panecologismo hippie… Battiato ha sempre volato al di sopra di ogni catalogazione politica e si è occupato di cose alte e altre, nonostante si dica sempre che “tutto è politico!”. Chiaramente alcune prese di posizione, durante certi periodi storico-politici del paese, lo hanno collocato automaticamente in una precisa fascia: basti pensare a brani come “Povera patria” e ad alcune accuse certamente non velate contenute nell’album “Inneres auge”. Se c’è stata politicizzazione, è stata indiretta; a differenza di altri cantautori  ̶  come De Gregori, Venditti, De André, Claudio Lolli, Guccini… ̶  schierati politicamente in maniera più evidente, Battiato ha cercato, prim’ancora di accodarsi a un’ideologia partitica interessata a proporre un sistema politico in grado di cambiare la società, di modificare il proprio mondo, quello individuale, interiore. Battiato non giudicava la politica in sé ma le variegate (e molto spesso discutibili) tipologie umane che vi si affacciavano per coltivare interessi privati. Durante la sua unica esperienza politica presso la Regione Sicilia, qualcuno scherzosamente lo definì “assessore alle meccaniche celesti”: epiteto che a lui piacque moltissimo e che trovò divertente. Non esitò un solo istante a lasciare l’incarico quando si accorse (come forse aveva già previsto) che stava diventando un “gioco” estraneo alle sue corde.

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Quando ti sei reso conto della potenza della musica di Franco Battiato?

Quando sono stato male e ho sentito che la sua musica mi ha risollevato indicandomi percorsi interiori alternativi…

Considerando la lunga carriera del cantautore, considerando la variegatura nei temi e nei modi, come si è evoluto il tuo rapporto con l’artista?

La parte iniziale e centrale della sua carriera è stata, ma non solo per me, sicuramente la più interessante; anche i suoi ultimi lavori sono stati degni di nota ma già rappresentavano un “testamento” (citando il titolo di un suo brano), una exit strategy non solo esistenziale ma anche artistica… Spesso ho criticato l’eccesso di antologie sfornate dai suoi produttori per battere cassa: ho apprezzato di più il Battiato di quando aveva il pieno controllo della sua produzione. Salvo questi particolari ininfluenti posso dire che il mio rapporto con Battiato è stato sempre di forte curiosità e di affetto: ogni uscita di inediti era una sfida, uno studio, un confronto con altri estimatori… L’uscita di un suo album non lo vivevo come un appuntamento discografico e basta: era la voce di un amico che mi raggiungeva con parole nuove, di una guida che mi proponeva nuove vie da percorrere, che mi dava nuovi impliciti consigli di vita…

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Tornano in voga

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Tornano in voga
i campi di cotone
gli schiavi a ore
nel far west del disincanto.

Quale distratta discendenza
si prenderà cura e fastidi, lontane
scadenze nel tempo che non vivremo
per queste ossa di casa e memorie
delle tue foto ormai tarlate da occhi
e dolori tramandati?

Non dovremmo più scrivere
per immagini e sprazzi vaganti,
solo il linguaggio, la sua voce
è la ricerca dell’umanità poetante.
Non dovremmo più sperare
nella parola che cura e consola
ma nell’eternità che dimentica.

(ph M.Nigro©2023)

Le case sono guardiani

il corridoio

Le case sono guardiani
di aliti impermanenti,
testimoni muti e fedeli
come i vuoti corridoi di Scola
le sue famiglie e i passaggi
di generazione in estinzione,

lì sopravvivono antiche passioni
per dirsi ancora vivi negli anni
e foto che non rispondono
al matto saluto di ritorno da fughe.

Vegliate, anime non liberate!
sui rimorsi per uno stolto esistere
sulle stanze silenti di vite passate
sul ricordo di voci, le vostre, che non tornano
sul nostro andare sconsolato e testardo.

(immagine tratta dal film “La famiglia” di Ettore Scola – 1987)

Chini sull’abisso

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Chini sull’abisso, increduli e vivi
cerchiamo voci senza ritorno
in stanze vuote, colme d’infinito
dove latita il senso, persa è la chiave
del nostro essere qui, non più figli
se non di Dio.

Si aggrappa a un chiaro lascito
a una fede nella presenza a venire
quel che sopravvive in noi,
ai ricordi sparpagliati nella mente
agli oggetti che pungono il cuore
a una vaga volontà di andare oltre
di ricominciare senza un’origine
svuotati, senza meta ormai,
senza più storia alle spalle
senza terra sotto i piedi
senza un faro silente e forte
in questo mare triste
che è ancora vita.

a mia madre

(ph M.Nigro©2022)

“Vite parallele”: puntata dedicata a “Pomeriggi perduti”

 

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Come preannunciavo tempo fa qui, è andata in onda su Radio Giano il 2 dicembre la 16ª puntata del programma “Vite Parallele”, dedicata alla raccolta “Pomeriggi perduti” e alla mia poetica in generale, realizzata in compagnia della simpatica e competente conduttrice Catia Simone e dell’amico istrionico Vincenzo Pietropinto.

Per ri-ascoltare la puntata in podcast: clicca QUI!

Buon ascolto!

Gli alberi nell’alta curva

Tavernier

Gli alberi nell’alta curva
mi hanno detto nel vento
che presto reclameranno
tra le foglie cadenti
anche l’ultima anima di madre,

non c’è pensiero nel mio andare
solo immagini antiche e lievi
per gli occhi sul cammino

assorbire il non detto
lasciarsi penetrare dal muto sapere
di familiari strade testimoni
che tutto conoscono
e conservano in sagge radici
per quando tornerò
di nuovo orfano
a cercare carezze al tramonto.

(immagine: Mattino autunnale, Andrea Tavernier; FONTE)

“Analogico”, booktrailer #1

Booktrailer per la raccolta “Pomeriggi perduti”

“Analogico” (pag. 67)

Una rinnovata
infanzia analogica
ho sognato,
racconti a corto raggio
sapienze locali
su panchine sconnesse,
un segnale scorticato
come acqua piovana
riscopre terreni ignoranti.

Parole dette in faccia
saliva schizzata e
contatti umani,
segugi fiutano fatti
domande da strada
e notizie lente
che vanno a vapore
metro dopo metro,
a rivivere
velocità preindustriali,
fantasie forzate
dal non visto luminoso
al di là della collina.

Ritornerà il mistero perduto
e avrà il sapore ingenuo
delle dolci sere di primavera
sprecate in provincia.

voce: Michele Nigro
musica: Lento assai, Giampaolo Stuani (by Jamendo)

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“Ottobre è… poesia”: presentazione della raccolta “Pomeriggi perduti”…

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Una bella serata, una presentazione soddisfacente, un bel pubblico (nonostante le partite di calcio in tv) e dei “supporter” di prima scelta. Un grazie particolare va al Prof. Vincenzo Pietropinto per avermi affiancato e condotto nella presentazione della mia raccolta “Pomeriggi perduti” (uscita nel 2019 e andata subito a sbattere contro il muro del “lockdown” e delle successive restrizioni sociali), al vulcanico promotore culturale Gregorio Fiscina per tutto l’aiuto di questi mesi (e quindi alle testate giornalistiche, alle radio e alle tv da lui contattate che hanno diffuso la notizia dell’evento), al “padrone di casa” Franco Crispino, organizzatore da ben 15 anni della Rassegna Letteraria “Settembre Culturale al Castello” (quest’anno contrassegnata da una inedita “diramazione” poetica fino a un estivo mese di ottobre, intitolata proprio “Ottobre è… poesia”), che mi ha aperto le porte dell’Aula Consiliare “A. Di Filippo” del Comune di Agropoli

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I primi 50 anni de “I giardini di marzo”

versione pdf: I primi 50 anni de “I giardini di marzo”

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Io e questo brano dell’immortale Lucio Battisti siamo quasi coetanei — la differenza è di un anno — ma entrambi ci sentiamo ancora “giovani” e in gara: ciò accade perché, come nel caso de “I giardini di marzo” scritta insieme al grande Mogol, le tematiche che la animano sono attuali, inossidabili, riguardanti l’umano e quindi non sorpassabili. Ho sempre pensato che il testo di questa canzone fosse un chiaro manifesto poetico non nel senso prettamente musicale — sulle differenze strutturali tra poesia e canzone si è già discusso ampiamente, anche se la poesia o “lirica” deriva proprio dal canto che nell’antica Grecia era accompagnato dal suono della lira — bensì da un punto di vista intimistico, psicologico.

Il carretto passava e quell’uomo gridava “gelati!”
Al ventuno del mese i nostri soldi erano già finiti
Io pensavo a mia madre e rivedevo i suoi vestiti
Il più bello era nero coi fiori non ancora appassiti

Il carretto è l’elemento iniziale che squarcia il velo della memoria: un ricordo giovanile — quello di un uomo che grida “gelati!” — irrompe nel presente a sottolineare una condizione passata, una precarietà economica che non precludeva a una sorta di felicità semplice, essenziale; la visione di un abito materno, tra i tanti affioranti dall’archivio-armadio, che conserva ancora una freschezza intatta, legata a un’epoca di giovinezza non ancora appassita. A volte è strano pensare che anche un genitore, oggi invecchiato, stanco, fisicamente in declino, abbia vissuto un’età verde, rigogliosa, splendente, proprio come quella vissuta da noi cosiddetti giovani. La cosa ci fa indirettamente male perché è la prova che tale ciclo, terminante si spera con un bel tramonto, toccherà a tutti, indistintamente: il genitore è solo la testimonianza più evidente che abbiamo a portata di mano.

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All’uscita di scuola i ragazzi vendevano i libri
Io restavo a guardarli cercando il coraggio per imitarli
Poi, sconfitto, tornavo a giocar con la mente i suoi tarli
E la sera al telefono tu mi chiedevi “perché non parli?”

Anche il ricordo di una certa “precarietà esistenziale” torna nel presente con tutta la forza di cui dispone: non bisogna mai dimenticare come si è stati, cosa siamo stati, l’impreparazione all’esistenza, il timore di confrontarsi con chi appariva più determinato, con i coetanei che sapevano vendere e vendersi senza esitazione sul mercato delle opportunità; ci sono epoche della nostra vita in cui possiamo solo osservare gli altri, registrare i loro movimenti “vincenti”, studiarne le capacità per poi, forse, riprodurle in un possibile futuro ricco di coraggio e di autodeterminazione. Quando si è giovani la mancanza di slancio può essere interpretata, da se stessi e dagli altri, come una sconfitta sul campo perché non si posseggono ancora gli strumenti per accettare la propria diversità, la propria unicità, per riciclarla verso campi applicativi più soggettivi e meno standardizzati: se in un primo momento l’imitazione (e non l’emulazione che rappresenterebbe già uno stadio evolutivo più auspicabile) sembra essere l’unica strada percorribile per non farsi notare e giudicare, e soprattutto per sopravvivere in un mondo che va veloce e non aspetta nessuno, in seguito — non da un giorno all’altro ma coltivando pazientemente la propria personalità e non quella di qualcun’altro visto in tv o sui social — viene a maturare l’idea che l’imitazione è inutile e dannosa, e che l’unica cosa saggia da fare è diventare se stessi. Nel frattempo si torna a “giocare” — così come da giovani di gioca con altri giochi — con la mente che propone fantasie autodistruttive, ipotesi paranoiche, tarli prodotti dalla disistima che scavano nella direzione sbagliata… Ma sono “giochi” da assecondare, che fanno parte di un gioco ancor più grande, incomprensibile durante certe epoche della vita. Bisogna solo giocare e basta! Ci sarà tempo per rivalutare gli “idoli” imitati, per decostruire l’impatto emotivo di certi “tarli”. Nel frattempo, dinanzi alla nostra presunta mancanza di determinazione e organizzazione, quelli che ci amano e sono in apprensione per noi, non possono non domandarci “perché non parli?” ovvero perché non vivi, non ti getti a capofitto nel mondo e nella vita, perché non rischi, non ti racconti, non ti esprimi con i tuoi mezzi linguistici, non importa se acerbi, spuntati, zoppicanti. Insomma “parla cazzo!”, dici qualcosa… Sembra di assistere alla bellissima scena “maieutica” tratta dal film di Sorrentino “È stata la mano di Dio”, quando Antonio Capuano dice a Fabietto: “‘A tiene ‘na cos’ a raccuntà? Forza, curaggio. A tiene o no ‘na cos’ a raccuntà? Tien’ ‘o curaggio ro ddicere. E te vuo’ movere o no?”. Il silenzio è sì importante, soprattutto quando prevale l’esigenza di dover raccogliere le idee e le forze prima di esordire con la propria espressività: non è il silenzio dello sconfitto dalla vita (come troppo facilmente pensano certi detrattori), ma è la pausa — per alcuni lunga, per altri breve — che precede il canto (quello libero!), l’espressione sentita e non casuale del proprio mondo interiore.

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Che anno è, che giorno è?
Questo è il tempo di vivere con te
Le mie mani come vedi non tremano più
E ho nell’anima
In fondo all’anima cieli immensi
E immenso amore
E poi ancora, ancora amore, amor per te
Fiumi azzurri e colline e praterie
Dove corrono dolcissime le mie malinconie
L’universo trova spazio dentro me
Ma il coraggio di vivere quello ancora non c’è

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La presenza nell’assenza: un anno senza Franco Battiato

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La presenza nell’assenza: un anno senza Franco Battiato

“… Percorreremo assieme le vie che portano all’essenza…”

Ho sempre avuto un approccio da “archivista” nei confronti della morte: di quella di un parente, di un amico… Superato un comprensibile momento iniziale di smarrimento per la dipartita, senza perdermi d’animo, anzi con ancor più lena, ho sempre dato spazio a una conseguente opera di “raccolta e archiviazione” di tutti quegli elementi esistenziali che hanno caratterizzato un vissuto comune, un cammino condiviso: stampare il dialogo di una chat, elencare date cruciali, raggruppare foto, raccogliere materiale… per me rappresentano gesti naturali del post-mortem. Come a voler congelare non il momento della morte in sé, quanto piuttosto il percorso concreto, tangibile, che l’ha preceduto; un appiglio materialistico sull’abisso, un modo per dire a se stessi che nulla, neanche una briciola, andrà perduta di quel che è stato fatto insieme; per non darla vinta alla morte che livella – lei sì, archivista definitiva e inesorabile! -, che chiude a ogni possibilità di proseguimento di un discorso tra viventi che emettono suoni. Allora ci si affida alla stampa dei reperti per averli sottomano nei giorni successivi alla tumulazione, alla tecnologia che conserva negli hard disk pezzi di testimonianze anche frivole di ciò che è stato, alle registrazioni per quando verrà a mancare il ricordo della voce, alle immagini catturate da un vivere quotidiano senza cronaca, almeno per noi “comuni mortali” non famosi. Tutto viene sigillato in scatole, poi seppellite in armadi, in attesa di quei giorni in cui c’è più bisogno di ravvivare memorie, di ricordare fatti ricoperti dalla polvere ma non dimenticati, spostati dalla visuale ma non cancellati. Qualcuno dice che esagero a conservare tutto, che dovrei lasciar andare, che dovrei fare space clearing: ma non c’è ossessione nel mio conservare, c’è solo previdenza, cura museale per vite poco importanti agli occhi della Storia. Si conserva il passato perché il nostro cervello, giustamente, per fare spazio alle urgenze del presente, lascia andare fisiologicamente molti dati considerati “inutili” alla quotidianità.

Quando, però, ad “abbandonare il pianeta” è una persona altrettanto cara e preziosa come Franco Battiato, che non ha bisogno di “archiviazioni” d’urgenza, come nel caso del parente o dell’amico sconosciuti alle cronache, in quanto la sua stessa esistenza artistica è stata produttrice naturale di tracce non solo sonore, si finisce con l’interrogarsi sul reale significato della “presenza nell’assenza” di un personaggio pubblico di tale calibro, che ha avuto e ha un impatto umano, spirituale e artistico, diverso rispetto a quello di altri nomi altrettanto autorevoli del cosiddetto “mondo dello spettacolo”. Nomi di personaggi estinti, cari a un popolo in fila sotto il sole per salutare il feretro, osannati e pianti, certo, ma la cui essenza va ad affievolirsi, oserei dire naturalmente, nel corso del tempo: questi passanti, a maggior ragione, sono bisognosi di archivi e teche Rai da rispolverare.

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Battiato, invece, si fa ricordare con una forza crescente proprio nel silenzio e nella distanza; più si lascia sedimentare l’evento umano della sua morte, più la sua essenza risale attraverso i mesi e le distrazioni come un “rigurgito spirituale”. Battiato non apprezzava gli archivisti; raccomandava sempre di non raccogliere ossessivamente tutto su di lui: interviste, foto, video, bootleg, “rubriche aperte sui peli” di Battiato e “reliquie” varie… Ci preparava, già allora, alla ricerca dell’essenza, al non attaccamento alle cose e ai corpi cantanti. Anche l’Egitto, con le sue piramidi e le sue meraviglie, prima o poi verrà ricoperto nuovamente dalle sabbie, e i musei perderanno i propri reperti custoditi gelosamente: la materia è destinata a dissolversi, come le onde in uno stagno o quelle sonore di una canzone. Ma l’essenza no, quella permane anche senza l’ausilio degli oggetti archiviati: come nel film “Padre” di Giada Colagrande, la presenza dell’estinto (interpretato proprio da Battiato) si fa ancor più viva e significativa – per comodità cinematografiche si identifica questa presenza attraverso la figura ormai folcloristica del classico fantasma – all’indomani della sua dipartita: ed è un esserci discreto, non spaventevole, silenzioso (silenzio a cui Battiato, per questioni private non da tutti rispettate, ci aveva già consegnati molto tempo prima di attraversare “la porta dello spavento supremo”). “Un giorno senza tramonto / le voci si faranno presenze”: è la scoperta dell’essenza nell’assenza, anche dell’assenza in vitam. Una scoperta che può essere fatta solo se si ha il coraggio, a un certo punto, di abbassare l’audio dei vari tour commemorativi, degli affollati e umanamente comprensibili concerti-evento per onorare il grande artista, e di affidarsi seppur dolorosamente alle sole registrazioni discografiche di una voce destinata a non ritornare, mai più, per come eravamo abituati a percepirla, ovvero attraverso i limitati sensi umani: la voce del padrone di un corpo disfatto, che non rivedremo mai più muoversi, cantare, scherzare, suonare, danzare su un palco come negli anni gloriosi e spensierati dei live in giro per il mondo e dei nostri viaggi in vista di concerti estivi, tra piazze e cavee. “Spensierati” fino a un certo punto: la musica di Battiato solo in superficie lasciava spazio a un goliardico citazionismo all’apparenza slegato e al cazzeggio cuccurucucheggiante dei fine concerto sotto i palchi; in realtà i testi e la musica di Battiato, come ben sa chi l’ha musicalmente frequentato, scavavano in profondità, mutavano inesorabilmente l’animo dell’ascoltatore, si prendevano il loro tempo, disseppellivano angolazioni interiori non catalogabili, di quelle che ci invitavano e ancora c’invitano al viaggio in paesi che tanto ci somigliano: territori spirituali ma anche geografici; a volte prima geografici e poi spirituali.

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Viaggiare con Battiato nelle cuffie, colonna sonora di traversate solitarie in territori non per forza mistici, a volte popolari, turistici, affollati come i mercati arabi in paesi stranieri o il “suk palermitano” di Ballarò, perché Battiato rappresentava e rappresenta l’esperimento riuscitissimo di una ricerca superiore fatta con mezzi appartenenti alla cosiddetta “musica di comunicazione”, non per forza di consumo (pur essendo stata anche di consumo), e che diede vita a un inedito, colto e ossimorico “pop elitario”. Così come fanno certi vaccini di ultima generazione, veicolava “frammenti genetici” di insegnamenti sconosciuti e antichissimi attraverso l’involucro “innocuo” del mezzo sonoro: l’obiettivo non dichiarato era quello di creare un’immunità (mai “di gregge” perché Le aquile non volano a stormi, ma amano e difendono la propria individualità) agli “urlettini dei cantanti”, al facile consenso dato ai tormentoni estivi dalla vita effimera, a un cantautorato nostrano incapace di offrire strade culturali alternative o esotiche, quando non addirittura esoteriche. Ha portato, musicalmente parlando, l’Alto alla portata di quasi tutti, senza mai scendere a compromessi con il Basso, con gli istinti un po’ bestiali e i desideri mitici dei suoi stessi fan che sistematicamente – per nostra fortuna – ignorava, con i “livelli inferiori” della condizione umana che aspirano a una facile fruibilità del mezzo. Ha seguito e rispettato i propri interessi culturali e non quelli suggeriti dal mercato, pur avendo venduto milioni di copie. E soprattutto ci ha fatto comprendere che tentare di modificare i massimi sistemi – primi fra tutti quelli politici! – è inutile oltre che pretestuoso, e che è ben più arduo ma spiritualmente soddisfacente (Battiato sarà sempre il nostro “Assessore alle Meccaniche Celesti”!) impegnarsi a cambiare il proprio microcosmo interiore, a rendere migliore ciò che abbiamo a portata di mano in noi stessi. Engagez-vous!

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“Il passaggio degli angeli”, dal romanzo di Périer ai film di Wenders

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“… Ma questi miracoli in pieno giorno
Solo in poesia possono ancora stupire…”
(Il passaggio degli angeli – Capitolo XIII)

C’è un libro dietro gli angeli berlinesi del regista Wim Wenders, immortalati nei film “Il cielo sopra Berlino” (1987) e “Così lontano così vicino” (1993): il titolo è “Il passaggio degli angeli” (Le Passage des anges), romanzo del 1926 scritto dal belga francofono Odilon-Jean Périer; anche se definirlo romanzo è limitativo: si tratta infatti di prosa poetica in salsa — direbbero, forse, gli appassionati del genere — urban fantasy, la cui architettura ricorda, è vero, il racconto lungo, interrotto di tanto in tanto da versi a corredo di un’atmosfera “magica” e gravida di eventi, ma che dalle regole del romanzo si svincola con maestria fin dalle prime pagine. Périer, prima di ogni altra cosa, è un poeta surrealista, cercatore di una purezza angelica oltre le umane imperfezioni. La città descritta in questo romanzo breve è una città in perenne attesa di una svolta: “Attendono tutti un temporale, una soluzione.” Il tono è sibillino, imprevedibile, istintivo, come se fossero gli occhi del poeta a scrivere direttamente su carta e non la sua mente. È la storia sovrannaturale e bizzarra di tre angeli — Alpha, Michel e Misère — scesi in una città senza nome (perché la storia è adattabile a tutte le città passeggiate dai poeti, prim’ancora che alla Bruxelles di Périer) a osservare la vita insignificante e assurda degli umani: “Infine apparvero gli Stranieri. […] Tutti avevano visto degli angeli, ma nessuno credeva agli occhi del vicino. Quei personaggi misteriosi si presentavano con naturalezza, come degli amici che si ritrovano nel momento del bisogno. Se ne stavano in piedi sugli alberi, seduti sui bordi dei tetti, in fila, senz’ali, magri, decenti, vestiti di grigio perla o d’azzurro. […] Chi li aveva incontrati […] parlava di poesia, di amore, di libertà.” Solo i forti e i filosofi troppo saggi non li vedono, mentre “Tutte le ragazze avevano già il loro angelo, amico intimo.”

Odilon-Jean Périer
Odilon-Jean Périer

Le città da sempre hanno bisogno di miracoli: “Miracolo a Milano” (1951) di Vittorio De Sica, Il miracolo della 34ª strada” (1947) di George Seaton… C’è bisogno di interrompere il dominio asfissiante della ragione e del positivo, per dare spazio — sospendendo momentaneamente l’incredulità — al meraviglioso, al surreale, al sovrannaturale, all’incredibile possibilità di una visione dall’alto. Ma gli angeli di Périer, al contrario, si lasciano miracolare, si calano nell’umanità, assecondando la Legge Marziale degli spiriti solidi, perdendo ben presto la loro divinità; non è una sconfitta, un difensivo lathe biosas epicureo o un mimetizzarsi per timidezza (“dei veri angeli non hanno bisogno dell’aureola”), bensì è il prezzo dello scambio: “degli angeli non scendono sulla terra senz’apportarvi dell’incertezza”, senza alterare gli schemi delle umane sicurezze e dei poteri; in cambio imparano tutto o quasi sui pregi e difetti della specie ospitante (“C’è molto da fare, molto da sperimentare, qui… […] Ci è permesso d’esaminare da vicino le loro gioie, le loro cerimonie.”), diluendosi in essa, innamorandosi, ascoltando le domande e i desideri del mondo, simulando una vittoria dei filosofi saggi e dei realisti che amano il buon senso, il visibile e la scienza: “Non pensavano più in alcun modo a volar via. Molti di loro avevano messo su un po’ di pancia…”.

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I tre angeli sperimentano l’amore e il piacere (“Michel, con le lacrime agli occhi, dovette arrendersi a quell’amore terrestre”; mentre Misère conosce Christine Ègalité, la fanciulla armata del Circo Jacques: anche ne “Il cielo sopra Berlino” di Wenders c’è una ragazza, Marion, che lavora nel circo ma è una trapezista che indossa finte ali d’angelo), la sensualità e la bellezza, la violenza che lascia cicatrici, gli scrupoli e la perdizione, la vita coniugale e la carnalità occasionale, la libertà e il disprezzo per la saggezza dei vecchi, la religiosità morbosa e l’idolatria (le strutture sociali e culturali della nazione si allineano alla religione ufficiale e al Maestro di turno), l’ebbrezza del consenso popolare, il possesso e la gelosia, la pressione dei doveri di un soldato, la noia e il dolce far niente (“aveva il tempo di cogliere con agio la vita terrestre, ammirando le vetrine, inseguendo le ragazze, toccando ogni cosa”). Il futile e la bassezza morale: per dimenticare di provenire dal cielo e avere la sicurezza, una volta per tutte, di essere diventati uomini. Lo scopo di questa full immersion nell’umanità è quello di salvarla dall’inerzia, dalla codardia e dalla cauta disperazione, dagli “artifici della gentilezza e del linguaggio”: “Uomini! Ci sono delle cose da fare nella vita di un uomo, e voi rapidamente vi decidete a dormire, senza indugi: ah, come rinunciate senza pena al vostro bel potere…”. La bellezza dell’esistere prevale su ogni falsa religione: solo la poesia può farsi garante di questa bellezza. Non mancano i dubbi e un senso di straniamento: “Che cosa siamo venuti a fare qui? […] Un bel mattino ci troviamo in piedi tra delle strane bestie, graziose e folli, seducenti. Perché noi tre, tra tutti gli angeli?”. Il romanzo fantasioso e magico di Périer diventa filosofico (anche se l’Autore ci avverte che il suo scritto non ha motivazioni profonde, obiettivi edificanti o simboli da cercare): forse per comprendere il senso del nostro esistere qui e in questo modo, per riconquistare le ragioni del nostro esserci, bisogna diventare, o almeno sentirsi, un po’ come degli angeli calati per caso in una realtà aliena e riuscire a stupirsi (“Vedo la città in cui abito; com’è strana…”) anche delle cose più scontate, a riscoprire e quindi riscoprirsi, a sperimentare con una curiosità primordiale; stupore e curiosità fanciullesca che nel primo film “angelico” di Wenders sono ben rappresentate dalle parole di una poesia di Peter Handke, (contestato) Premio Nobel per la letteratura nel 2019 e collaboratore ai testi del regista, intitolata “Elogio dell’infanzia” (Lied vom Kindsein) e che del film ne costituisce la filigrana (una sorta di poesia-copione) su cui si innestano le immagini di un regista istintivo e privo di un piano ben preciso:

“… Quando il bambino era bambino,
era l’epoca di queste domande:
perché io sono io, e perché non sei tu?
perché sono qui, e perché non sono lì?
quando comincia il tempo, e dove finisce lo spazio?
la vita sotto il sole è forse solo un sogno?
non è solo l’apparenza di un mondo davanti al mondo
quello che vedo, sento e odoro?
c’è veramente il male e gente
veramente cattiva?
come può essere che io, che sono io,
non c’ero prima di diventare,
e che, una volta, io, che sono io,
non sarò più quello che sono?…”

Ma non tutti ce la fanno a riprendere il candore delle domande ancestrali, neanche tra gli angeli: c’è chi “vuole inebriarsi della stupidità del mondo”, chi si dà alla politica, chi si illude con un’attività senza rischi come il cinema che simula la vita vera (“… nulla è più buffo del fatto di vedere gli uomini evolvere in funzione dei sogni che gli si attribuiscono.”)… Si cerca di capire se abbiamo perso la nostra originalità: “Sono ancora l’angelo che ero?”. Forse gli esseri umani sono tutti angeli caduti in terra e divenuti immemori della propria spiritualità. Per agire sulla Storia bisogna fare delle scelte, manifestarsi, perché “… l’errore è di restare un angelo tra queste persone. Tutto è facile, — per me solo. Ma se mi occupassi della gente? Se tentassi d’animare uno dei tanti imbecilli… […] Scopro le vie deserte della mia città. […] Domani comincerò ad agire sugli uomini.” Occuparsi di Politica, scegliere l’anarchia anche se un po’ fuori moda: l’astensionismo e l’antipolitica per giungere, paradossalmente, al vero senso dell’uomo politico che non delega, libero ma in prima linea. Forse alla fine il vero miracolo è ritornare a vedere la bellezza naturale delle cose e della realtà con occhi umani: “Chi ha mai creduto ai miracoli? Non accade nulla. È la mezzanotte di una giornata come le altre…”.

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“Elogio dell’infanzia”, di Peter Handke

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Elogio dell’infanzia

Quando il bambino era bambino,
camminava con le braccia ciondoloni,
voleva che il ruscello fosse un fiume,
il fiume un torrente
e questa pozzanghera il mare.

Quando il bambino era bambino,
non sapeva di essere un bambino,
per lui tutto aveva un’anima
e tutte le anime erano un tutt’uno.

Quando il bambino era bambino
non aveva opinioni su nulla,
non aveva abitudini,
sedeva spesso con le gambe incrociate,
e di colpo si metteva a correre,
aveva un vortice tra i capelli
e non faceva facce da fotografo.

Quando il bambino era bambino,
era l’epoca di queste domande:
perché io sono io, e perché non sei tu?
perché sono qui, e perché non sono lì?
quando comincia il tempo, e dove finisce lo spazio?
la vita sotto il sole è forse solo un sogno?
non è solo l’apparenza di un mondo davanti al mondo
quello che vedo, sento e odoro?
c’è veramente il male e gente veramente cattiva?
come può essere che io, che sono io,
non c’ero prima di diventare,
e che, una volta, io, che sono io,
non sarò più quello che sono?

Quando il bambino era bambino,
si strozzava con gli spinaci, i piselli, il riso al latte,
e con il cavolfiore bollito,
e adesso mangia tutto questo, e non solo per necessità.

Quando il bambino era bambino,
una volta si svegliò in un letto sconosciuto,
e adesso questo gli succede sempre.
Molte persone gli sembravano belle,
e adesso questo gli succede solo in qualche raro caso di fortuna.

Si immaginava chiaramente il Paradiso,
e adesso riesce appena a sospettarlo,
non riusciva a immaginarsi il nulla,
e oggi trema alla sua idea.

Quando il bambino era bambino,
giocava con entusiasmo,
e, adesso, è tutto immerso nella cosa come allora,
soltanto quando questa cosa è il suo lavoro.

Quando il bambino era bambino,
per nutrirsi gli bastavano pane e mela,
ed è ancora così.

Quando il bambino era bambino,
le bacche gli cadevano in mano come solo le bacche sanno cadere,
ed è ancora così,
le noci fresche gli raspavano la lingua,
ed è ancora così,
a ogni monte,
sentiva nostalgia per una montagna ancora più alta,
e in ogni città,
sentiva nostalgia per una città ancora più grande,
ed è ancora così,
sulla cima di un albero prendeva le ciliegie tutto euforico,
com’è ancora oggi,
aveva timore davanti a ogni estraneo,
e continua ad averlo,
aspettava la prima neve,
e continua ad aspettarla.

Quando il bambino era bambino,
lanciava contro l’albero un bastone come fosse una lancia,
che ancora continua a vibrare.

(immagine dal film Il cielo sopra Berlino, Wim Wenders, 1987)

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Il giorno dei vivi

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La casa risuona di nuovo come allora
vapori ottobrini e ospiti inattesi
inviti contaminati d’altri evocano
risa dimenticate nel tempo, e le vicine campane
a scandire il desinare frettoloso dei nevrotici
zii mausolei, comiche cugine zitelle in trasferta
mobili tarlati, scampati alle bombe, bagnati di liquori
caduti per scosse di terra in moto
e lesioni alla natura dei lenti,

non più tavoli giovani
divisi dai grandi, buoni e cattivi
parenti frizzanti o muti,
riesumando echi stagionati tra le mura
succedono generazioni
accadono reunion smussando perdite

si riciclano i sopravvissuti
tra fritti e bolliti d’antan
pranzi sotto i ritratti austeri
degli estinti in qualche modo
nel vociare presenti
ai raduni di famiglia.