“Crimes of the Future”: tra nuovi vizi e nuove carni

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Crimes of the Future

Ritmo lento, film a tratti soporifero, trama non articolata e scene ridotte all’osso, azione quasi inesistente… Ma si tratta del nuovo, atteso capolavoro del maestro del genere body horror David Cronenberg e quindi un suo perché il film “Crimes of the Future” ce l’ha, deve avercelo, ed è forte nel suo essere semplice e contorto allo stesso tempo. La specie umana sta evolvendo, in cosa precisamente è difficile da stabilire, se non attraverso gli strumenti immaginifici della fantascienza: nuove funzionalità, nuovi organi non previsti – quasi sempre tumori solidi – crescono nel corpo di alcuni esseri umani – come accade al protagonista Saul Tenser (Viggo Mortensen) -, forse indotti a formarsi da un subconscio che materializza istinti repressi e desideri o più probabilmente a causa di inquinamento e scelte ecologiche scellerate compiute da un’umanità segnata, ridotta di numero e impoverita.

L’asportazione di questi “ospiti” organici diventa pubblica performance artistica ad opera della bella Caprice (Léa Seydoux), ex chirurgo prestato all’arte concettuale; l’autopsia in vitam, un ricercato gesto artistico eseguibile da pochi per la soddisfazione collettiva; l’autolesionismo è erotico e le ferite di un bisturi sono come pennellate d’artista: l’uomo ha imparato a giocare col proprio organismo, le proprie malattie e di conseguenza con le proprie emozioni. Come chiaramente si afferma nel film: “la chirurgia è il nuovo sesso!”. Avendo azzerato nel corso degli anni ogni forma di dolore (la sovraesposizione informativa e il consumo di massa di arte e cultura ci renderanno insensibili?), l’umanità così anestetizzata deve ora cercare nuove soglie di piacere da condividere in un amplesso sociale, esplorare nuovi confini corporali da oltrepassare, assaporare nuove sfide evolutive delimitate da un labile confine legislativo… Ma non tutti sono disposti ad accettare queste mutazioni: all’inizio del film una madre uccide, soffocandolo con un cuscino, il proprio figlio ghiotto di plastica perché non riesce ad accettare questa sua “mostruosità alimentare”. Forse un riferimento alla nostra convivenza forzata con plastica e microplastiche che stanno di fatto inquinando terra e oceani, e a un nostro possibile futuro da plasticofagi? Già oggi un certo mercato alimentare propone raccapriccianti “alternative proteiche”!

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Il richiamo dalla vita bassa

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Il richiamo dalla vita bassa
è un afrore profano di chiese
una danza di bianche pelli
rivestite d’afa e dolci voglie
mogli sognate e giovani madri,

“abbandonerai un giorno
la dimora delle parole che scavano
e ti unirai ai sensi ignoranti,
sarete una sola carne analfabeta
un unico testo non scritto!”

Posa il libro chiuso sulla pancia di lei,
sale e scende al suo respiro presente
come letture d’istinto che salvano vite,

ma intanto bastone della vecchiaia
ti spezzi al passo lento di pazienze estive,
altri ritmi rispettosi sfiorano di sera
il tuo tempo che sfiora e passa.

Pax in tavola

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Sull’annosa diatriba tra efficiente salutismo estetico e intellettualismo passivo,
se sia più nobile e bello rimanere in forma per la guerra, e morire in perfetta
salute fisica, o godersi la vita nell’ombra e gozzovigliando andarsene felici e
malaticci. Ovvero se l’idealismo, la felicità, il coraggio e l’intelligenza siano
sempre incompatibili con l’inestetismo e il non interventismo.

Pax in tavola

a Mario Monicelli e Vittorio Gassman

Sacrificar lo ventre alla beltà
è come sputar fin su lo crocifisso
la vita è bella nella sazietà
non per morir nella battaglia d’Isso.

Entrar dentro la bettola coi compari
senza sporcar di schiuma il grugno
è ‘n po’ come girar per lupanari
senza fornir la potta al terzo pugno.

Abili guerrieri, servi e frati in arme
lasciate in terra spada, scudo e lancia.
Per lo martirio siete già in allarme
e non prestate orecchio al suon di pancia?

Per divenir concime il tempo abbonda
non disdegnate tavola e cantine.
Voglio una barba che di vino gronda
e non sentirmi lesto al fosso affine.

Prodi crociati che v’allenate in piazza
non canzonate il lardo che m’adorna.
Meglio morir col cibo e la sollazza
più tòsto d’esser bardo che non torna.

(tratta dalla raccolta “Nessuno nasce pulito”, ed. nugae 2.0 – 2016)

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Su “È stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino

versione pdf: Su “È stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino

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“La realtà è scadente”

(Fabietto)

Al di là dell’autobiografismo “in ritardo” – anche se c’è sempre qualcosa di personale persino in film la cui trama è all’apparenza lontana dal privato del regista -, È stata la mano di Dio” di Sorrentino è una bella elegia filmica sulla nascita di una scelta artistica: la propria.

“Ce l’hai una cosa da raccontare?” la domanda cardine del film. E cos’è che ti spinge o ti spingerà a raccontarla attraverso la cinepresa (o un romanzo, ricordando il più recente Sorrentino romanziere)? Basta il “dolore”, quest’entità ispiratrice non ben definita e di fatto non definibile, per scegliere di trasporre l’esistenza reale che non ci piace sotto forma di riduzione cinematografica? Se non ci fosse stato l’evento luttuoso, l’impeto sarebbe stato lo stesso? Quella idea embrionale di “fare il regista di film” avrebbe sostenuto le distanze? Forse sì ma in maniera diversa: non lo sapremo mai. Ed è giusto non saperlo perché le esistenze non si basano sui “se fosse” ma su ciò che appare concretamente davanti agli occhi, in questo caso, dello spettatore. L’idea abbozzata e maldestra, come il primo sesso fatto con l’anziana vicina di casa che fa da “nave-scuola”, per realizzarsi avrà bisogno di ben altre esperienze, di vero sesso con ragazze desiderate, di gambe che hanno voglia di andare, di esistenza da macinare altrove. Di fede: come quella nel “munaciello” e in una zia che si fa passare per pazza gabbando una realtà scomoda e violenta; di fede in cose di cui vergognarsi, lontanissime, non credute possibili dagli altri (e forse anche da sé stessi), come il voler fare cinema. Fantasticherie giovanili che pian piano diventano esigenze esistenziali, modi vitali per tradurre il reale amaro in qualcos’altro.

Il dolore non è completo se non è abbinato al comico che nasce anche nei momenti più tragici: passare dalla disperazione alla risata è la commedia della vita che può ispirare un film, una storia da scrivere, una musica; è il vissuto sublimato in arte.

I familiari e i parenti – proprio come la città di Napoli che basa la sua bellezza su un’atavica contraddizione che non può essere compresa e accettata da tutti, se non viene vissuta e metabolizzata – sono al tempo stesso spassosi e drammatici: la quotidianità è un continuo e sorprendente psicodramma da cui trarre impulso creativo.

La propria materia umana è ancora, giustamente, acerba, non modellata, imbevuta di indecisione: anche imparare a piangere diventa una conquista interiore importantissima e interessante. Fino a quando ci si potrà isolare dal mondo nascondendosi sotto le cuffie di un inseparabile walkman? Si diventa curiosi sperimentatori di sé stessi e del mondo circostante: il dolore apre canali sensoriali ed emotivi straordinari, sprona sensibilità che in seguito serviranno a penetrare in modo originale e non convenzionale in quell’umanità ridotta in pellicola. C’è sete di vita e di libertà: anche dall’amicizia con un malavitoso, poco raccomandabile in base a un buonsenso comune, si attinge a piene mani e sospendendo il giudizio; la conoscenza diretta della realtà, quella che brucia sulla pelle scarificata dalla sofferenza, prevale sulla morale e soprattutto sul moralismo. Il dolore permette all’uomo sensibile di continuare a stupirsi e a considerare il “mistero” lì dove le persone appagate e asintomatiche non vedono nient’altro che una stanca realtà.

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Allons enfants

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La preghiera del mattino al dio sesso
è un cero senza fiamma
per battesimi silenti,
segno della croce prima del sonno
e pugno chiuso alla levata

cerchiamo un salterio all’alba
che canti le storture
indigerite dell’esistere
o una tarda rivoluzione
sanguinaria d’inverno
più mite d’estate

oscillo tra mani giunte
e la calda stretta su fredde armi
che tacciono da troppo
troppo tempo
nelle sagrestie del non detto.

Nota a “Julius Evola (Vita Arte Poesia Eros come Pensiero e Virus)” di Vitaldo Conte

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Fa bene Vitaldo Conte a parlare di “tabù” nel suo “opuscolo-ebook” dedicato a Julius Evola (Tiemme Edizioni Digitali, 2021): tenuto in disparte durante periodi storici nevralgici del nostro paese, per poi essere ampiamente “riutilizzato” in qualità di punto di riferimento filosofico da una certa parte politica per fini ideologici, riscopriamo attraverso questa piccola ma intensa raccolta di saggi e interventi di Conte, un Evola pittore e poeta pressoché sconosciuto, un Evola prodromico al ben più noto filosofo, da scoprire o riscoprire. Oserei dire un Evola finalmente deideologizzato.

Evola era ed è un artista e filosofo scomodo, “pericoloso” e “maledetto”, controcorrente – occupandosi di alchimia, di trascendenza e di Metafisica del sesso -, persino antipatico e quindi ostracizzato; criticò il Fascismo e da questo fu sistematicamente distanziato, per poi essere riletto dalla “… gioventù alternativa dell’area di destra, negli anni ’50 e ’60, dopo decenni d’assenza di pensiero…”. Un po’ come è accaduto allo scrittore inglese Tolkien, al quale ancora oggi tirano la giacchetta da destra e da sinistra, ognuno in base alle proprie esigenze ideologiche. Il Tolkien delle “… radici profonde che non gelano…”, per intenderci, riciclate per accompagnare dal punto di vista letterario certi rigurgiti neofascisti della contemporaneità.

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“Amore e Morte” di Calcedonio Reina, su Pangea.news

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Il mio articolo “Amore e morte” di Calcedonio Reina (già pubblicato su “Nigricante”qui, e in seguito ripreso anche su questo blog, qui) è stato riproposto su Pangearivista avventuriera di cultura e idee, “una delle migliori rassegne culturali in Italia”, curata dal giornalista, poeta, scrittore e critico letterario Davide Brullo e che da sempre pubblica articoli interessanti e culturalmente stimolanti.

Per leggere l’articolo: QUI!

Lamento degli amnesici mascherati

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Siamo stati forgiati nella fucina della solitudine,
non chiediamo aiuto mentre affoghiamo
non emettiamo suono alcuno
perché preferiamo il silenzio anche in punto di morte.

Senza chiedere l’elemosina del consenso
maciniamo chilometri dolenti
tra gli inciampi del buongiorno
e gli inganni della sera,
coltiviamo amori insonni
come lucciole per un domani dei sensi.
Ma è il confine della vita persa e dei colori cangianti
a sembrare invalicabile
nel via libera a singhiozzo dei prudenti.

La vita originale è perduta ormai,
non ricordiamo più il volto della città consueta
le priorità naturali dell’esistere,
spacciamo per grasse libertà
quel che resta del nulla decantato
sul fondo dell’abitudine.
È una sirena non di mare
questa musica nuova e stridente
che sfreccia tra i nostri sabati.
Non ricordiamo più
la via della facile speranza
quando la donavano a grappoli
agli angoli delle strade di ieri.

È strana quest’atmosfera
di finta salvezza sul finale
di battaglie private intrecciate a telegiornali
di catastrofe pulita, inodore
e di morti non visti, né toccati.

Malediciamo i colpi della vita
ma con l’altra metà del cuore
li benediciamo come maestri, alla fine,
da accogliere con il sorriso rassegnato
sull’uscio della disperazione fatta casa.

I passi solitari nella città mascherata
verso mete non desiderate
e i bocconi di fiele ingoiati a comando
con l’abitudine scandalosa del prigioniero
che chiama ‘mondo’ i suoi metri quadrati
nel corso degli anni condannati,
saranno le assurde nostalgie
del futuro, in tempi di insperata serenità:
è incredibile come l’essere umano
si affezioni ai travagli dell’esistere
e ai muti maltrattamenti del quotidiano.
Non siamo cronaca, ma solo crocifissi senza sangue
dispersi tra la folla del solito,
siamo le bianche vittime
delle silenti frustate della vita.

Risponderemo colpo su colpo
con la mente e il coraggio del cuore
finché ce la faremo,
siamo organizzati nei cunicoli della storia
per affrontare gli accidenti notturni
e le ingiustizie del mattino.
Siamo aperti alla nera fantasia
degli educati tribolamenti
e all’estro dell’imprevisto che bagna il bagnato,
nutrimento sono per noi
il malanno dei cari
e le noie del prossimo,
le cadute di stile e dei gravi
e le grigie notizie dal mondo.
A chi ci affidiamo non è ben chiaro,
ma abbiamo fede nell’infedeltà del cammino.

Un giorno, forse, torneremo a desiderare
le cose che oggi abbiamo dimenticato
per disabitudine a quel che dovrebbe essere
o per una salvifica amnesia: nel non ricordo s’acquieta il dolore.
Sarà bello e spietato come un matrimonio incosciente ma agognato
all’indomani di guerre mondiali finite e lasciate andare.

Tramonta, falso sole di clausura!
Lasciateci liberi di non tornare a vivere,
di tornare a risorgere un giorno
insieme a quest’umanità martoriata dai numeri
ma ancora distratta da futili motivi serali.
Uniremo i nostri dolori domestici
a quelli di tutte le nazioni del pianeta,
torneremo alla sorgente della speranza
anche quando ci saranno musica e balli per tutti
come se nulla fosse accaduto,

alla fonte di quel silenzio che salva
quando i mondi sono spenti e chiusi.

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(immagine: dal film “Matrix”)

Egoico

Sarai padre di te stesso
in questa gelida landa
d’anarchiche infedeltà

costante è la vertigine
sul bordo mai sereno
di silenti battaglie
dall’alba all’imbrunire.

T’affidi ai santi della sera
come all’amata dell’anno
ma forte è l’egoico strappo
nell’occhio stanco e guerriero
bastante a sé stesso.

Vespri erotici

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È l’erezione vespertina
tra l’omelia e la comunione
a disfare i piani di dio
sul finire della domenica.

Il nudo contorto, pelle su pelle
nella mente distratta dalla carne
residua immagine infoiata
dalla notte dei peccati
s’intromette audace e sincera
fra le parole sante del pastore
alle pecore illuse d’essere salve.

Avverto il respiro voglioso e antico
dell’ancella mascherata,
è incenso che promana da vulva benedetta
quello che precede la preghiera
dello spirito, indifeso
è il corpo che crede di credere,

non serve fustigarlo al tramonto
per dissetarlo all’alba,
il vangelo dei sensi
parla all’esistenza infedele
attraverso le umide labbra celate
di desideri terreni.

Immagino il sesso nascosto
anche se abbassi lo sguardo
dinanzi al tabernacolo, contrita
non mi dissuadono
le gesta di martiri eremiti,
non ho voglia di salvarmi

succhiando le vette carnose
dei tuoi seni eretici di non madonna
attendo futuri diluvi in cui affogare.

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“Nato il Quattro Luglio”, di Ron Kovic

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Gli ideali politici, religiosi, filosofici, anche quelli più strutturati, prima o poi, cadono inesorabilmente dinanzi alle esigenze naturali dell’esistenza, agli istinti semplici che ci definiscono in qualità di esseri basilari, di animali. Possono cadere lentamente, senza far rumore, con una gradualità pacifica che nasce da un contro-ragionamento deciso e anch’esso ben costruito nel tempo, oppure accompagnati da uno schianto tremendo, da un dolore lancinante, da una sconfitta personale che si propaga come un violento incendio a una visione generale del proprio mondo valoriale che sembrava inattaccabile. L’autoreferenzialità di chi vuole diventare a tutti i costi il numero uno, il campione degli interventisti, l’eroe di riferimento della comunità, il paladino della propria chiesa, deve cedere il passo alla verità di una realtà non voluta ma reale, all’assurdità dell’errore che ci rende tragicamente ridicoli, alla caducità del proprio corpo rotto, al limite difficile da accettare di una gloria presunta e immaginata attraverso i fumetti e il cinema, alla pochezza che c’è nell’essere semplicemente umani e vincibili.

“Perché la vita non è come nei film: la vita è più difficile!” rivela con disincanto un personaggio del film Nuovo Cinema Paradiso al suo giovane amico che si affaccia alla disillusione della vita. In un mondo innamorato della parola resilienza, Ron Kovic (nella foto sopra, con in mano la bandiera americana rovesciata, FONTE), autore e protagonista del romanzo autobiografico “Nato il Quattro Luglio”, rappresenta l’ideale di resiliente, di uomo spezzato nel corpo e nel cuore che, dopo aver incassato un duro colpo dalla vita che egli ha scelto e aver ingoiato una sconfitta irreversibile, comincia un doloroso, catartico e interessante viaggio di decostruzione delle proprie convinzioni politiche, patriottiche, religiose, sociali… Come una sorta di San Francesco del XX secolo, Ron Kovic parte per la guerra in Vietnam pieno di fede cristiana, di genuino e baldanzoso patriottismo anticomunista e di goliardica sicurezza nella propria posizione nell’universo, per poi ritornare a casa ferito nel corpo e nell’anima ma con una nuova visione di se stesso e dell’umanità che pensava di dover difendere da un nemico costruito a tavolino.

È il potere taumaturgico della sconfitta che apre nuovi canali interiori, che rovista tra i ricordi d’infanzia per cercare di salvare il buono sopravvissuto alla tragedia, che resetta le convinzioni di chi non ha mai provato la vera perdita. E se le convinzioni sono state poste nei luoghi alti e inaccessibili dell’immagine che si ha di sé, più forte sarà il tonfo prodotto quando, cadendo, raggiungeranno il suolo. A differenza di un altro “famoso” reduce, John Rambo – frutto però della penna e dell’immaginazione di David Morrell -, Ron Kovic, anche a causa del proprio handicap irreversibile che lo costringe su una sedia a rotelle, sublima la propria rabbia, e l’indignazione nel non essere compreso dai propri connazionali e trattato con dignità da quello stesso governo che lo ha spedito in guerra, prima in un’umile, appartata, umana disperazione e in seguito in forza sociale, in una voglia di riscatto da vivere non in solitudine ma insieme agli altri fratelli reduci. Ron Kovic passa dalla ricerca spasmodica e tutta personale di una normalità che è ormai solo un ricordo, all’accettazione piena e rassegnata di una condizione insanabile che diventa protesta politica, lotta aperta verso certi capisaldi ideologici coltivati in passato con ingenua e cieca determinazione, manifestazione pubblica di un dissenso non più privato per cercare di evitare ulteriori dolori a una generazione decimata, di bloccare il ritorno in patria di altri corpi spezzati, rotti come giocattoli dimenticati, sospesi in una non vita seppur vivi.

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L’Italia s’è Destà!

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Chi mi legge da queste parti o sui social sa che sono il primo a prendere per i fondelli gli esagerati del politically correct, dei #metoo delle soubrette cadute in disgrazia per farsi pubblicità nel mondo dello spettacolo, ecc. ma stasera (15/6/2020, n.d.b.) è andata in onda una puntata di Tg2 Post che mi ha fatto addirittura rimpiangere le puntate preoccupanti del periodo “emergenza covid”. La brava conduttrice del programma, la giornalista Manuela Moreno che seguo sempre con piacere per la sua professionalità e simpatia, si è trovata a gestire (e, in quanto donna, avrebbe potuto gestire un po’ meglio e in maniera meno accondiscendente!) un manipolo di difensori ad oltranza dell'”innocuo” e innocentissimo giornalista Indro Montanelli che, poverino, fu costretto – obtorto collo – a seguire senza fiatare, e su ordine dei superiori, le usanze locali in materia di connubi con bambine. “Oh, s’usava così! Che volemo fà? Volemo offenne a tribù etiope? No, nun se po’!”
Gli intervenuti (di alcuni non mi sono stupito, di altri francamente sì, confermando la teoria dell’opportunismo di appartenenza alla categoria da sfoderare quando bisogna fare quadrato intorno a un pilastro storico della propria professione) hanno a turno assolto – con tesi a dir poco discutibili e raccapriccianti (tra cui il “madamato” riesumato da Travaglio, il castigatore della vita sessuale di Silvio Berlusconi, e la presunta intelligenza della Dandini che ride mentre ascolta il racconto di Montanelli, tirata in ballo da Sallusti che usa materiali di sinistra per difendere tesi di destra, altro miracolo di questi tempi!) – il grande giornalista e “letterato” adducendo la motivazione che si trattava della cultura dell’epoca e di quella particolare regione del mondo, che non si può giudicare oggi un fatto “decontestualizzandolo” dal periodo storico in cui il buon Montanelli era immerso fino ai capelli. Che gli imbrattatori milanesi, che non giustifico e non difendo, sono solo dei disadattati perdigiorno dalla vernice facile, sinistrati più che di sinistra, e storicamente ignoranti. Della serie: quando il soggetto è indifendibile, puntare tutto sul presunto disagio sociale del “nemico”. Si è passati dalla difesa – giusta! – del film “Via col vento” che non va decontestualizzato, e che resta tuttavia solo un film tratto da una narrazione frutto anch’essa della fantasia dell’autrice, alla difesa di un PEDOFILO REALE, e un razzista di fatto (indipendentemente dalla “precocità” sessuale e bellezza della bambina etiope di nome Destà), le cui gesta “matrimoniali”, a dire degli intervenuti, non vanno decontestualizzate. Mi pare, signore e signori, che qui si pecchi un po’ di eccesso di non decontestualizzazione!

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Burqa virale: la rivincita degli sguardi

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“Burqa virale”

(La rivincita degli sguardi)

Bizzarra è la vita.

Criticavamo fino a poche settimane fa (e a dire il vero sarebbe bene continuare a farlo anche nei giorni a seguire) la scelta pseudoreligiosa e culturale di una certa parte di mondo, di coprire il corpo e soprattutto il volto delle proprie donne, di negarli alla pubblica vista per un male interpretato rispetto divino e per proteggere – dicono – il gentil sesso dal disonore di una tentazione e dagli sguardi voluttuosi della metà maschile del cielo. Dal “semplice” velo (hijab) al burqa, diverse sono le gradazioni intermedie di annullamento della persona femmina: in alcuni casi, dal momento che gli sguardi da soli – se la donna ci sa fare – possono fare comunque non pochi “danni” in chi si abbandona al dolce linguaggio degli occhi, si sono inventati una finestrella che simula la grata attraverso la quale le nostre monache di clausura potevano partecipare senza muoversi dal convento, non viste, alle funzioni religiose celebrate nella chiesa sottostante. Secondo i maschi teocratici la donna (ovvero la sua personalità) non sarebbe annullata da tale “moda” antica, anzi aumenterebbe il proprio potere nel difendersi, nell’osservare il mondo senza essere scrutata in maniera indecente. La donna, “angelo della casa”, in versione 41-bis portatile.

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Poesia senza mecenati

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Poesia senza mecenati

 

“… Clamori nel mondo moribondo…”

(Franco Battiato)

Esistono, forse da sempre, due tipi di poesia: c’è una poesia famosa, sostenuta e promossa dalle masse (anche da quelle che non l’hanno mai letta e non sanno nulla di poesia), che motiva i mecenati e attira i “fan”, acclamata e distribuita per inerzia, spinta più da clamori sociali e da partiti presi che da un’effettiva validità letteraria; una poesia cosiddetta “civile” – figlia anch’essa del “pensiero unico” applicato alla letteratura? -, incentivata dalle vicende personali dell’autore e dal presenzialismo che ne consegue, il cui testo passa in secondo piano perché il primo piano è occupato dalla figura del personaggio, dalla sua immagine eclatante che rappresenta la novità, lo scandalo, lo strappo alla normalità, il gap epocale, il politicamente corretto in cerca di consensi attraverso i versi di una poesia.

Molteplici i fattori che possono corroborare una poetica famosa: una diversità generica, un percorso di riassegnazione sessuale (transgenderismo), un handicap fisico o mentale, un diverso orientamento sessuale, un’ingiustizia sociale subita, una disabilità relazionale, un qualcosa che prima di assestarsi in ambito poetico sia in grado di circolare tra la gente per mezzo dell’informazione generalista. È il fatto in sé che lo richiede, non è il poeta che ricerca (almeno non inizialmente) un certo clamore mediatico. A passare, a bucare lo schermo poetico, è la mancata accettazione della diversità divenuta – ahinoi! – tema principale di una ricerca disoggettivizzata, attraverso il racconto poetico della discriminazione vissuta o del percorso psicofisico personale, e non la poesia. La poesia, quella vera, è stata già uccisa molto tempo prima della pubblicazione del libro famoso.

Il “successo poetico” che ne consegue è effimero, anche se quantitativamente consistente dal punto di vista editoriale; si tratta di un successo studiato a tavolino e fortemente voluto da potenti mecenati già affermati in ambito letterario, decisi a lanciare un nuovo “prodotto” in linea con i tempi: si potrebbe infatti parlare di instant poetry; è una poesia che ammira se stessa, è fine a se stessa e insegue se stessa, come nel simbolo dell’Uroboro o nel quadro intitolato “Noi, Vittorio Sgarbi” del pittore Rocco Normanno; una poesia buona per il divano della D’Urso o per la piazza de “I Fatti Vostri”, che non può occupare un tempo di senso sulle lunghe distanze ma che soddisfa l’esigenza del momento (del poeta e di altre persone che hanno vissuto un’esperienza simile o di lettori politicamente solidali ad essi), che segue la moda travestita da battaglia civile, descrivendo l’evento soggettivamente, senza donargli la necessaria universalità che trasforma una poesia in Poesia.

La poesia, è vero, nasce (anche) dall’esperienza esistenziale dell’autore ma di questa non ne dovrebbe mai diventare la schiava, almeno non apertamente, (così come non ne dovrebbero diventare schiavi i suoi lettori o il poeta stesso!), cercando sempre una rielaborazione più faticosa, spalmata nel tempo, resa impersonale e che non conduce a una comprensione facilitata delle istanze del poeta immediatamente riconoscibili nel verso o a un successo istantaneo ottenuto stimolando la “pancia” di un certo bacino di utenza.

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