Nota a “La veglia dei corpi” di Valerio Ragazzini

1700992854233

Intorno a due caratteristiche principali sembrerebbe ruotare l’impianto narrativo de “La veglia dei corpi”, raccolta di racconti di Valerio Ragazzini (ed. Tracce e Ombre, 2023; collana “Icari involati” diretta da Claudia Maschio e Franco Ceradini): la contrapposizione luce/buio e l’uso che l’autore fa del corpo, o meglio, dei corpi. È nella luce che, in base alla vulgata, risiederebbe la verità, la versione più autentica dell’animo umano. Ma è sempre così? È soprattutto tra le pieghe del buio, nel luogo in cui dominano l’oscurità e l’ignoto, che si celano segreti interiori, lati indicibili della nostra volontà, aspetti non considerati del desiderio, forze ancestrali di cui avevamo perso le tracce; lì dove l’uomo è più vero, nudo perché non visto, non esposto al giudizio della luce, in netto contrasto con quei dogmi religiosi che esaltano la luminosità che avvolge chi vive nella grazia di Dio. Cantava Battiato: “La notte, non mi piace tanto, l’oscurità è ostile a chi ama la luce.” E il buio, prima o poi, raggiunge tutti per dare una lezione, come ricordato nell’epigrafe pasoliniana della raccolta. “Era il buio a farsi denso e molta gente temeva di diventare parte di quell’oscurità” (pag.16): nel film “Vanishing on 7th Street” questo timore diventa pericolo concreto; il buio inghiotte letteralmente le persone, simbolismo horror che descrive perfettamente le paure antichissime di un’umanità drogata di luce elettrica, di comodità tecnologiche dipendenti da un onnipresente efficientismo luminoso.

Poi ci sono i corpi: umani, sovrumani, angelici, apparentemente morti (adagiati “nell’ozio delle cose inanimate che si fingono vive”, pag. 81), grotteschi, troppo assurdi per esistere veramente, fatti di cera a suggerire moderne idolatrie, rinvenuti nella torba di una palude, vecchissimi e immortalati in ritratti pittorici che ricordano quello del Dorian Gray di Oscar Wilde, incartapecoriti ma con ancora un flebile respiro, corpi suicidari o appena nati dal terreno come tuberi… Corpi che forse simboleggiano i probabili e variegati destini evolutivi dell’Homo Sapiens. Corpi che interrompono la normalità (e a volte la noia) di vite semplici, ordinarie, storicamente irrilevanti; corpi miracolosi, surreali, immersi con una tale naturalezza nella vita quotidiana dei personaggi al punto da risultare, alla fine, normali, appartenenti al quotidiano. L’autore è capace di far convivere in perfetta e parallela sincronia il reale e l’irrealtà, il routinario e l’eclatante, il regolare e il fantastico, il decadente e il positivo; e lo fa senza passaggi sconvolgenti o coup de théâtre, senza utilizzare finali con effetti speciali: il miracoloso raccontato con semplicità e senza soluzione di continuità.

Filigrana di questi sette racconti è un surrealismo pirandelliano caratterizzato da una quotidianità capace di accogliere l’eccezione dal piano naturale delle cose, il fantastico che non abbaglia mai del tutto i suoi personaggi; un onirico perfettamente calato nella veglia, nel consueto; un macabro mai irriverente o esagerato. Con uno stile sobrio, che esclude qualsiasi penetrazione da parte di fronzoli narrativi ma che in alcune descrizioni mostra venature distopiche e post-apocalittiche come se riguardassero un presente a noi estraneo o un futuro molto simile all’oggi, Ragazzini ci racconta (e ci stimola a ricercare?) lo straordinario che potrebbe convivere tra le pieghe della nostra esistenza e che spesso non notiamo perché distratti da una visione eccessivamente razionalistica della realtà e del mondo. L’autore, senza compiere troppi sforzi grazie alla sua abilità narrativa, ci accompagna verso una necessaria “sospensione dell’incredulità” (suspension of disbelief), in assenza della quale qualsiasi terreno fantasioso sarebbe impraticabile.

Michele Nigro

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.