ANARCHIA E FUTURO NEL METAVERSO, INTERVISTA A MICHELE NIGRO a cura di Roberto Guerra

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“… Noi tutti siamo legati ai piaceri che il corpo ci dona in questa vita, oltre alle inevitabili sofferenze che fanno parte del “pacchetto” esistenziale. Nel mio racconto non mi riferisco indirettamente a una liberazione attraverso improbabili vie ascetiche, ma auspicherei almeno a una presa di coscienza della nostra condizione di consumatori: “abbandonare” ogni tanto il corpo per tornare a intercettare altre priorità “superiori”. Forse oggi essere “anarchici” significa acquisire questa consapevolezza? E l’”eversione” è tutto ciò che ci distrae dal progetto che un certo capitalismo ha pensato su di noi? Chissà… E l’”immersione nel virtuale” è la metafora laica di una sempre più urgente riscoperta spirituale da parte di un’umanità allo sbando?…”

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versione pdf: “Anarcometaverso”, intervista a Michele Nigro a cura di Roberto Guerra

vedi anche:

“Anarcometaverso”, videointervista a Michele Nigro, a cura di Franco Innella

“Anarcometaverso”, per “Delle Eloquenti Distopie” vol.2

Latitante da molti, troppi anni dal genere fantascientifico sia in qualità di lettore che di scrivente, alcuni mesi prima dell’estate 2023 sono stato invitato dallo scrittore romano Sandro Battisti (già co-fondatore del movimento artistico-letterario denominato Connettivismo) a partecipare con un mio racconto inedito a un’antologia per la collana da lui curata per la Delos Digital. Inizialmente scettico sulla riuscita di un mio ritorno nel genere, ho accettato con riserva: quindi ho cercato dentro di me, ma anche un po’ fuori, nella vita quotidiana e nella cronaca, un’idea sufficientemente originale per fornire alla mia partecipazione un minimo di qualità stilistica e contenutistica; non è facile tornare a scrivere di argomenti che hai involontariamente snobbato per anni, perché catturato da altri interessi “letterari” che ti hanno di fatto portato lontano mille miglia da una materia che richiede “fedeltà” nel tempo e una certa attenzione nei confronti degli autori di un genere (o sottogenere) letterario e delle loro pubblicazioni. Proiettato in un mondo ormai non più mio, man mano che l’idea scelta per un probabile canovaccio si concretizzava sul monitor, però, ho capito che forse non avevo del tutto disimparato a “sospendere la mia incredulità”: d’altronde anche in poesia il poeta utilizzando un linguaggio decisamente non quotidiano tenta di trasportare il lettore verso mondi inverosimili, interiori, nel regno dell’indicibile, per descrivere a volte ciò che viviamo nella nostra realtà senza accorgercene. È nato così il mio racconto — che oso autodefinire postcyberpunk (in attesa di eventuali smentite da parte degli esperti del settore) — intitolato “Anarcometaverso” e incluso nel secondo volume dell’antologia “Delle Eloquenti Distopie” per la collana curata da Battisti “non-aligned objects” (edizioni Delos Digital). Buona lettura!

Ecco come il curatore Sandro Battisti annuncia sui social l’uscita dell’ebook, citando a sua volta l’editore Silvio Sosio che mi sento di ringraziare per questa bella opportunità:

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Nota a “La veglia dei corpi” di Valerio Ragazzini

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Intorno a due caratteristiche principali sembrerebbe ruotare l’impianto narrativo de “La veglia dei corpi”, raccolta di racconti di Valerio Ragazzini (ed. Tracce e Ombre, 2023; collana “Icari involati” diretta da Claudia Maschio e Franco Ceradini): la contrapposizione luce/buio e l’uso che l’autore fa del corpo, o meglio, dei corpi. È nella luce che, in base alla vulgata, risiederebbe la verità, la versione più autentica dell’animo umano. Ma è sempre così? È soprattutto tra le pieghe del buio, nel luogo in cui dominano l’oscurità e l’ignoto, che si celano segreti interiori, lati indicibili della nostra volontà, aspetti non considerati del desiderio, forze ancestrali di cui avevamo perso le tracce; lì dove l’uomo è più vero, nudo perché non visto, non esposto al giudizio della luce, in netto contrasto con quei dogmi religiosi che esaltano la luminosità che avvolge chi vive nella grazia di Dio. Cantava Battiato: “La notte, non mi piace tanto, l’oscurità è ostile a chi ama la luce.” E il buio, prima o poi, raggiunge tutti per dare una lezione, come ricordato nell’epigrafe pasoliniana della raccolta. “Era il buio a farsi denso e molta gente temeva di diventare parte di quell’oscurità” (pag.16): nel film “Vanishing on 7th Street” questo timore diventa pericolo concreto; il buio inghiotte letteralmente le persone, simbolismo horror che descrive perfettamente le paure antichissime di un’umanità drogata di luce elettrica, di comodità tecnologiche dipendenti da un onnipresente efficientismo luminoso.

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Call Center, reloaded

versione pdf: “Call Center Reloaded”, di Michele Nigro

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Prefazione

“Call Center, alla ricerca del futuro ibernato”

di Roberto Guerra

Call Center, titolo iconico particolarmente azzeccato, è nato direttamente come libro elettronico (eBook) già alcuni anni fa: in certo senso sembrano passate decadi ma proprio la diversamente breccia temporale ne esalta oggi, nuova edizione e tradizionale cartacea, una certa lungimiranza previsionale.

Se il racconto narra poeticamente l’uomo automatizzato e robotizzato odierno, proprio i famosi Call Center ne testimoniano la quintessenza alla rovescia, esemplificano il paradosso sempre costante della rivoluzione tecnologica: il lavoro liquido estremo e la precarietà ormai generalizzata nella eterna quasi crisi contemporanea hanno nei Call Center, caratterizzati centralmente da tali dinamiche, quasi un perverso Tempio, accettato nella vita quotidiana come se nulla fosse, la normalità come patologia sociale condivisa e quindi non riconosciuta.

Simultaneamente i Call Center  simboleggiano, sempre al contrario, il computer mondo oggi letteralmente ibernato, sia le Macchine sia gli umani.

Come leitmotiv software costante nelle parole dell’autore, certa folle simbiosi strutturale contemporanea, economia-politica-tecnologia, l’attuale turbocapitalismo poco turbo e molto pietrificante come lo sguardo malefico di Medusa, ha degenerato il senso della tecnoscienza, letteralmente ucciso, appunto congelato, il futuro.

Le macchine a quanto pare non sono state inventate per liberare gli umani dal lavoro alienante o i computer per liberare l’Uomo come opera d’arte dal meccanicismo mentale e burotico, ma come sorta di gigantesche slot machine per Usurai 2.0, una assoluta minoranza, burattinai digitali quasi immateriali, come i famigerati Morlock con il popolo degli Eloi in The Time Machine di H.G. Wells, che condizionano o comandano nelle stanze dei bottoni, occidentali o meno.

Nigro si muove in un solco fantadispotico ben noto nell’immaginario scientifico e fantascientifico del Novecento: va da sé che conferma la cosiddetta science fiction, a pari di altri autori, come nuovo diversamente Post Realismo cibernetico; che è peraltro una delle vere news creative nella letteratura contemporanea, dimostrando la provocazione di un certo Marvin Minsky: “La fantascienza è la vera filosofia del nostro tempo”.

E nello specifico di Nigro la filosofia come Psicologia informatica, come ogni gioco sinaptico non lineare, ma transtemporale, come ottimamente si dilatano le pagine e le antitrame menu del libro, con flussi imprevedibili narranti, in una cifra dimensionale passato-presente-futuro, come poi nella Vita Reale, sia imprevedibile che interconnessa, come dissolvenze costanti (per la cronaca, stile prossimo a certa poetica sperimentale e d’avanguardia).

La stessa resilienza del protagonista, nella sua presa di coscienza e ribellione “fredda” all’ibernazione robotizzata e lavorativa, affiora come un puzzle nuovamente alla rovescia, un gioco di incastri a partire da un falso disegno alla partenza da smontare e ricomporre verso un nuovo futuro alternativo e umanizzante assolutamente inedito, senza mappe a priori di riferimento: Nigro è acuto nel far parlare il non detto della letteratura distopico-dispotica, non solo sintomo di certo spirito del tempo apparentemente senza vie d’uscita, ma necessario artificio di discesa nell’inconscio oggi techno, per captare nuovamente un Homme Robot creativo come specchio sinaptico del Corpo sociale.

In pillole, riassumendo e come da incipit, un lavoro narratosofico (non narratologico lineare…) che ha anche anticipato l’ulteriore degrado finanzocratico e nella grande macchina produttiva che ancora di più esige ricette di homme robot non autoalienato ma rebel rebel: oggi si parla di Big Data, Bitcoin e simili, di Algoritmi e Intelligenza Artificiale come registri di sistema per il lavoro 3.0, ma a quanto pare con ancora nuove dissipazioni di risorse tecnoscientifiche.

E visto l’andazzo, come andare su Marte e poi sul più bello dimenticarsi che ci abbiamo inviato delle scimmie con un pallottoliere per errore al posto di astronauti umani con Curiosity, concordiamo con l’autore se abbiamo beninteso: forse solo un vero default della Grande Macchina tecnoeconomica attuale, per istinto di sopravvivenza 2.0, potrebbe generare un nuovo turbocapitalismo non neoluddista, come suicidalmente un certo Green mistificante s’illude di fare, ma finalmente troppo umano o robotico complementare “più umano degli umani”.

 ♦

 

“Call Center – reloaded”

 di Michele Nigro

 

Il lavoratore, in particolar modo quello precario, va educato.

Così come il cucciolo di cane, appena giunto nella sua nuova dimora, deve essere prontamente educato nell’espletamento dei propri bisogni fisiologici in angoli ben precisi provvisti di fogli di vecchi quotidiani conservati all’uopo, allo stesso modo il lavoratore deve capire fin da subito che il suo comportamento non può tendere alla neutralità o alla riflessione (dannosa in ambito produttivo), bensì a un energico entusiasmo decerebrante capace di far ottenere al lavoratore il tanto agognato premio finale. L’allineamento, l’accondiscendenza, l’incondizionato assorbimento delle incontestabili direttive aziendali, la personalità solo abbozzata e mai eclettica, la disponibilità senza “se” e senza “ma”, l’assenza di cultura, la scaltrezza del venditore arabo, il carattere come forma di pressione, il rifiuto di proposte alternative, la repressione del confronto tra individui: questi sono solo alcuni dei cosiddetti “comportamenti premianti” che, se accettati fedelmente dal lavoratore, diventano vere e proprie armi per la conquista del successo aziendale.

Infilo il jack delle cuffie nella presa circolare della scheda audio come un duro, argenteo pene metallico che penetra, lucido ed elettrico, nell’orifizio acustico del mondo. Un filo abbastanza lungo mi concede un’impagabile libertà di movimento fino al muro alle mie spalle tappezzato di grafici colorati e motivanti sulla produttività dello scorso mese. Sono seduto su una comoda sedia girevole provvista di rotelle: divento uno yo-yo umano spingendomi all’indietro e ruotando; il filo è teso tra la mia testa e il computer della postazione. Conosco bene le misure del mio spazio lavorativo: mi fermo un millimetro prima di strappare via il jack. Poi ritorno fedele con le braccia sul tavolo del box dove mi aspettano i pieghevoli che illustrano le caratteristiche patinate dei meravigliosi prodotti da vendere e il decalogo delle cose da dire o da non dire pensati dall’intellighenzia aziendale.

Alcuni minuti prima, abbandonando il corridoio silenzioso nel fabbricato anonimo che ospita l’enorme call center in cui lavoro, mi ero immerso, puntuale come ogni pomeriggio, dal lunedì al sabato, nella chiassosa atmosfera alienante di quel nonluogo, come l’avrebbe definito Marc Augè.

“Buon pomeriggio, sono Marta!”

“Buongiorno, sono Giulio…!”

“Mi scusi se la disturbo, sono Roberta e le telefono perché ci risulta che…!”

“Sono Paola, Emilio, Giuseppe, Serena, Carlo… Sono la soluzione ai tuoi problemi, sono la fortuna che ti piomba in casa, sono la voce che attendevi, la chiave del tuo successo, sono il segreto che i tuoi vicini non vogliono svelarti, la risposta alla tua domanda. Sono la svolta che cercavi, la novità che bussa nel momento giusto, il tuo gentile consigliere pomeridiano, la tua scelta intelligente, sono il tuo assistente spirituale, il tuo miglior amico, sono il Presidente degli Stati Uniti d’America, sono Gesù Cristo, la Madonna. Se vuoi, se questo mi aiuterà a concludere un contratto, posso essere addirittura Dio!”

Lo chiamano ‘lavoro parasubordinato’: come se fosse una malattia infettiva incurabile presa sui confini venerei tra potere economico e popolo, durante un amplesso tra la ricchezza dei pochi e le illusioni delle orde di lavoratori-consumatori ipnotizzati da un benessere irraggiungibile. La mancanza di devozione mi corrode dall’interno; lavorare facendo finta di crederci: questo è il segreto.

Meravigliandomi, per l’ennesima volta, di quel vorticoso pollaio di succulente proposte lanciate nella rete telefonica, avevo raggiunto con passo veloce, attutito dalla moquette blu del pavimento, la mia postazione metamerica – il box numero 103 – e avevo inserito nel computer la password necessaria al conteggio personalizzato delle preziose ore di lavoro. Decine di voci squillanti e teatralmente rassicuranti, intorno a me, riproponevano, intrecciandosi l’un l’altra ma ognuna seguendo miracolosamente un proprio invisibile filo verso la meta contrattuale, un dialogo esistente tra cliente e teleoperatore, e testato dagli psicologi del marketing.

Tramonta il sole triste

d’inizio settembre

sui grigi parcheggi periferici

vuoti d’umanità vagante

tra lucenti vetri di bottiglia

e calme schegge di gioventù.

Sottofondo autostradale

per elettriche note di prova.

Le gru nel cielo rossazzurro

come plettri dolorosi

su anime solitarie

attendono il rock notturno.

Dall’alto, o dal basso, della sua laurea in Scienze Politiche mai usata, il mio vicino di box, inebetito dal turno di mattina che sta per terminare, m’invia un sorriso scialbo sperando in una mia amichevole risposta che l’incoraggi in zona Cesarini: se alla fine di questo mese non raggiungerà il numero di ‘pezzi’ prestabilito dalla Direzione, sarà silurato dai due impiegati gay dell’ufficio del Grande Fratello: meglio conosciuti come i “Dolce&Gabbana dell’Outbound”, Gigi e Lele, oltre a essere i sorridenti e ben vestiti addetti alle buste paga del call center, svolgono egregiamente, e non senza una comprovata dose di sadismo, anche la funzione di selezionatori. “Big Brother is watching you!”: il motto orwelliano che campeggia nel poster del loro ufficio trasformato in nido d’amore, non lascia spazio a dubbi. Compiere ‘carotaggi a campione’ sulla popolazione lavorativa del call center, in cerca di pedine improduttive da licenziare, rappresenta la loro specialità.

Esistono al mondo innumerevoli lavori, tanto assurdi quanto malpagati o con prospettive instabili.

La loro utilità è effimera come l’esistenza di un insetto: adulatori di casalinghe per via telefonica, assistenti all’eiaculazione di tori, livellatori di quadri storti, venditori di connessioni veloci in internet, riciclatori di pile scariche, smazzettatori di risme, salatori di arachidi, rappresentanti di chiodi porta a porta, psico-massaggiatori di piedi per mutilati, controbilanciatori di tubi, assaggiatrici di sperma, venditori di fumo per l’affumicatura dei salumi, sommozzatori di pozzi neri, smistatori di kipple, operatori di clisteri, lucidatori di ossa, collaudatori di giubbotti antiproiettili e bambole gonfiabili, venditori telefonici di righelli, svuotatori di portacenere, allevatori di grilli, mimo per trasmissioni radiofoniche, tester di deodoranti ascellari per uomini, domatori di fenicotteri, commercialisti per bancarelle di mercato, collaudatori di creme emorroidali, occupatori di parcheggi, collaudatori onanisti di profilattici, impacchettatori di regali per negozi, lab rats umani per case farmaceutiche, ricostruttori di reputazioni on line, massaggiatori di cani, buttadentro…

Il sottobosco lavorativo offre una vastissima gamma di occupazioni surreali e facilmente sostituibili: l’assoluta mancanza di diritti e la facile reperibilità di cosiddette ‘risorse umane usa e getta’, come lamette usate poco, infelici ma non ancora pronte a morire, rappresentano l’autentico propellente di quelle aziende che affidano la propria sopravvivenza a una delle carte vincenti della moderna economia: la precarietà del lavoratore.

La molla che fa scattare il meccanismo perverso della precarietà è il bisogno.

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“La pioggia nel pineto” di G. d’Annunzio, letta da Barbalbero

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E se la famosa poesia di Gabriele d’Annunzio intitolata “La pioggia nel pineto” fosse letta da Barbalbero?

Barbalbero (o Fangorn) – caratterizzato da una voce bassa e profonda e da una parlata lentissima, a sottolineare l’ampia disponibilità di tempo di un essere millenario – è un personaggio di Arda, l’universo immaginario fantasy creato dallo scrittore inglese J. R. R. Tolkien e compare solo nel romanzo “Il Signore degli Anelli”.

Lettura – rallentata con il programma Audacity – a cura di Michele Nigro.

Indiana Jones e l'”approccio americano” dalla geopolitica all’archeologia

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Chi non vorrebbe vivere una vita come quella di Indiana Jones? Avventurosa, culturalmente interessante, sessualmente soddisfacente e al tempo stesso indipendente, geograficamente movimentata, appagante dal punto di vista professionale e universitario? Lo so, è un archeologo immaginario, un parto della mente di quel genio prolifico che risponde al nome di George Lucas (e della regia altrettanto geniale di Steven Spielberg), e come ho avuto modo di ribadire per quanto riguarda i supereroi, nel post dedicato a Joker, e alla loro improbabile esistenza nel mondo reale, la stessa cosa dirò riferendomi al nostro archeologo giramondo: è molto improbabile che tutte queste virtù – “immortalità”, capacità di sopravvivere a situazioni intricate, sapienza da bibliotecario mista a un atletismo che rasenta l’autodistruzione adolescenziale, fortuna con le donne, tempismo sfacciato, ecc. – si materializzino in un’unica persona. Eppure dietro l’ovvia irrealtà del personaggio si cela una certa “americanità” che invece è realissima e storicamente documentata. Il modo in cui Indiana Jones approccia alla risoluzione dei problemi che incontra nel corso delle sue avventure è tipicamente americano, anzi sarebbe più corretto dire “statunitense”. Indiana Jones parte dal presupposto che per uno statunitense il mondo sia come la tavola di un immenso gioco di ruolo privo di regole in cui muoversi senza chiedere il permesso a nessuno, senza tenere conto delle leggi locali… Tutto sembra facile e aperto nel mondo di Jones, nonostante le fatiche delle sue gesta. L’importante è raggiungere il proprio obiettivo, agguantare l’oggetto prezioso che ha innescato l’impegnativa quest, in nome di un bene comune internazionale. In questo gli statunitensi sono bravi: far passare per battaglia universalmente necessaria, un qualcosa che interessa solo l’America, la sua gloria o quella di un suo singolo cittadino, la sua ricchezza museale, come in questo caso.

Indiana Jones apre porte, si cala con delle funi in meandri, sfonda pareti, s’arrampica in proprietà private, ammazza e insegue (o si fa inseguire da) i cattivi usando – rubandoli – tutti i mezzi (terrestri, acquatici e aerei) che trova a portata di mano, profana catacombe e città sepolte, usa femori di scheletri per fabbricare torce, danneggia pavimenti a martellate, deturpa monumenti in paesi stranieri (Italia compresa: vedi Venezia), agguanta, rubacchia, scippa, incendia per sbaglio, depreda, così come fanno i suoi avversari, però a fin di bene, sgraffigna, rimuove, dissacra, gratta via, sfregia se necessario, causa crolli, altera l’equilibrio di luoghi delicati che erano rimasti in santa pace fino al suo arrivo…

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“Joker” su Pangea.news

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Il mio articolo “Joker, perché i supereroi non possono esistere” (già pubblicato su questo blog, qui, con il titolo “Joker è tutti noi”) è stato riproposto su Pangearivista avventuriera di cultura e idee, “una delle migliori rassegne culturali in Italia”, curata dal giornalista, poeta, scrittore e critico letterario Davide Brullo e che da sempre pubblica articoli interessanti e culturalmente stimolanti.

Per leggere l’articolo: QUI!

Elogio del post apocalittico

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“Lo sa cosa facevo prima della guerra? Vendevo fotocopiatrici…”

                                                                                     (Generale Bethlehem, signore della guerra. Dal film “L’uomo del giorno dopo”)

Perché il sottogenere post apocalittico, sia letterario che cinematografico, ci affascina e attira molti di noi? Perché siamo dei convinti estinzionisti? Perché siamo talmente pessimisti sul futuro dell’umanità che non riusciamo a prospettare un avvenire diverso da quello catastrofico? Perché odiamo i nostri simili e auspichiamo uno spopolamento del pianeta, caso mai fantasticando su di noi che, rimasti soli soletti, avremmo tanto spazio a disposizione? Perché non si farebbe più la fila ai negozi e non si userebbe più il denaro guadagnato andando a fare un lavoro che non ci piace? Niente di tutto questo; se anche queste “idee” ci hanno sfiorato, è stato solo per un attimo, pensando soprattutto alle condizioni reali e poco romantiche in cui ci troveremmo a vivere se tutto ciò si avverasse.

Non starò qui a snocciolare titoli di romanzi fantascientifici o di film fortunati tratti dagli stessi e che da tempo seminano scenari surreali, sotto forma di immagini filmiche divenute cult, nel nostro affollato immaginario collettivo. È importante, invece, capire perché ci sentiamo terrorizzati e al tempo stesso attratti dalle gesta solitarie dell’uomo post apocalittico; perché il mondo, il nostro mondo, così come lo vediamo ridotto negli scenari post apocalittici descritti nei racconti e nelle pellicole, pur spaventandoci suscita in noi domande scomode a cui sentiamo di non potere sottrarci? Una prima risposta potrebbe essere: perché la condizione post apocalittica ipotizzata “per gioco” induce a riflettere sulla condizione quotidiana “reale”, socialmente strutturata, pensata da altri, accettata, interiorizzata, mai più messa in discussione una volta raggiunta la cosiddetta “età della ragione”.

Una popolazione mondiale decimata da una pandemia, un pianeta Terra distrutto e contaminato in seguito a una catastrofe nucleare… Molteplici sono le cause “inventate” (o profetizzate?) dagli scrittori che hanno impegnato le loro penne in questo sottogenere letterario: alla fine non importa sapere quale sia stata la causa che determina la drastica diminuzione della popolazione terrestre, la sua quasi estinzione o la sua mostruosa trasformazione in qualcos’altro. Quello che conta, ai fini narrativi e introspettivi, è la nuova condizione esistenziale con cui devono confrontarsi i pochissimi sopravvissuti (o il sopravvissuto): a volte le storie cominciano con un solo sopravvissuto che in seguito scoprirà di non essere l’unico ad avere superato indenne l’ora zero del nuovo corso storico. Generalmente, come c’insegnano romanzi e film, questa scoperta non porta a nulla di buono: l’equilibrio che il sopravvissuto solitario aveva conquistato faticosamente nel tempo, creando intorno a se un piccolo paradiso sospeso sulle macerie del mondo precedente alla catastrofe, viene alterato dall’arrivo di suoi simili in cerca di aiuto o di fisiologica compagnia. L’uomo non è fatto per stare da solo ed è bello scoprire che anche altri ce l’hanno fatta: soprattutto gli adulti, bloccati a metà tra due mondi, che hanno un ricordo ancora vivo dei propri cari di cui spesso ignorano il destino o del mondo popoloso prima della tragedia, dopo un iniziale disorientamento dovuto alla scoperta sconvolgente di non essere più soli, tendono a riaccendere una speranza che la forzata condizione solitaria aveva assopito ma non del tutto cancellato. Un ritrovarsi che, però, porta guai, che guasta i piani collaudati del solitario: lo stare insieme implica responsabilità che vanno oltre l’io bastante a se stesso. È così anche nel mondo sovrappopolato e pre-apocalittico.

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Joker è tutti noi

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[post a basso tasso di spoileraggio; tuttavia, per una migliore comprensione dello stesso, se ne consiglia la lettura dopo aver visto il film, n.d.b.]

Joker è tutti noi

I supereroi non esistono: non per le cose fantastiche che fanno e per i superpoteri improbabili che posseggono. Non possono esistere perché sono il frutto irreale di ciò che vorremmo essere, la condensazione in un’unica persona creata a tavolino del meglio dell’umanità, l’epicizzazione e la razionalizzazione dell’immagine di noi che vorremmo dare al mondo, l’idealizzazione di quella parte nobile della nostra anima che ancora riusciamo a considerare salva. Salva dal punto di vista della visione comune di quello che è il bene e il male: un limite che le sovrastrutture imposte dall’educazione e dalle regole di una parte della società che cerca di isolarsi dal marcio imperante, cercano di mantenere vivo. Il bene comincia, guarda caso, dove iniziano gli interessi dei pochi: il potere difende, grazie alle leggi e alle forze dell’ordine create per eseguirle, la propria stabilità, ma taglia i fondi che servono a proteggere e curare i più deboli. Il “reddito di cittadinanza della salute mentale” è poca cosa se confrontato con i mirabolanti progetti dei tanti imprenditori pronti a scendere in campo e ad impegnarsi in politica in prima persona.

C’hanno sempre fatto credere che i “cattivi” fossero i necessari alter ego dei protagonisti buoni, la “spalla” anti-idealistica per giustificare il bisogno cieco di servire il Bene, quello supremo, alto, così alto nei cieli da dimenticare, più in basso, lì dove viviamo noi, le cause del Male, sempre le stesse, apparentemente irrisolvibili; ce l’hanno fatto credere (è successo anche con certe pagine di storia scritte dai vincitori e assunte senza fiatare come farmaci alle scuole primarie) e invece è esattamente il contrario: ma ci accorgiamo di questa differenziazione forzata solo quando l’arte, il cinema come nel caso del film di Todd Phillips intitolato “Joker”, pellicola dedicata alla lenta evoluzione (per i meno audaci ‘involuzione’) psichiatrica del famigerato anti-eroe creato dalla DC Comics e magistralmente interpretato dal notevole Joaquin Phoenix, riesce a trovare il coraggio di essere politically incorrect e soprattutto a distaccarsi dalle regole non scritte dei cinecomics riguardanti il rispetto dei ruoli, della caratterizzazione dei personaggi e da altre catene narrative e cronologiche.

Nonostante la nostra speranzosa (a volte ingenua) reazione uguale e contraria, come c’insegna la fisica, nonostante “la risposta” che tentiamo di dare alla vita, alla fine non siamo nient’altro che il maledetto risultato dell’azione di forze esterne esercitate in maniera costante sul nostro corpo e sulla nostra mente (con buona pace del corredo genetico vincente di cui pochi fortunati sarebbero provvisti): il diverso, non per forza dal punto di vista mentale o sessuale – si può essere diversi in tantissimi altri, più o meno impercettibili, modi (lavoro assente o tipologia dello stesso quando c’è, disponibilità economica, fede religiosa, cultura etnica, lingua, gusti sportivi o assenza di gusti, fortuna con le donne o con gli uomini, modo di vestire, se vivi ancora con i tuoi, disabilità, capacità comunicative,… devo continuare?) – subisce questa pressione in maniera incidentalmente più dannosa. La sua congenita debolezza, i casi fortuiti e bizzarri della vita, la mancanza di quella che certi ricchi e fortunati radical chic travestiti da democratici chiamano – abusando del termine a fini propagandistici per mettere in mostra un paese vincente che in realtà non esiste – resilienza, rendono il diverso più esposto alle “intemperie” del vivere sociale, ai suoi repentini e poco gentili cambi di rotta: all’inizio della sventura a prevalere è ancora la gentilezza, il lathe biosas (“vivi nascosto”) di epicureana memoria che entra in conflitto con l’esigenza di far sapere al mondo che esisti (il from zero to hero dei terroristi radicalizzati, p.e.), il rifiuto delle armi quale mezzo non solo per difendersi ma anche per imporsi e pareggiare i conti, la caparbietà moraleggiante a non risolvere i problemi della vita adoperando la violenza, perché così c’hanno insegnato, seguendo la linea gialla tracciata sul pavimento che porta verso la tomba.

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