Psicogeografia agostana

Ma quando si ha la fortuna di poter sperimentare la dolce solitudine metropolitana, allora succedono cose interessanti: il quotidiano diventa insolito; l’ovvio acquista un fascino non calcolato; le strade abituali e semi-deserte usate come assolati laboratori psicogeografici, forniscono elementi di studio in altri momenti dell’anno difficili da captare. Svuotata dalla gente che di solito anima i negozi aperti e le vie di comunicazione, la città effettua in maniera inesorabile la sua autodiagnosi di ‘claustrofobia architettonica’: capiamo finalmente come un meccanismo feroce di palazzi e lingue asfaltate e trafficate possa influenzare nell’intimo il pensiero (e le azioni) dell’uomo inconsapevole. Solo grazie allo svuotamento atipico possiamo valutare quelle forme urbane che a lungo andare fanno male (o bene) all’animo di chi vi abita. Siamo ciò che mangiamo. Scriviamo, pensiamo come ciò che abitiamo: un livello superiore del discorso che ci porterebbe verso quella che io definisco “psicogeografia della scrittura”…

N I G R I C A N T E

“Tutta mia la città!”

La crisi economica avrebbe determinato le nuove scelte turistiche degli italiani, ma io non ci credo. È sempre esistito uno zoccolo duro di ‘custodi della città’ durante il periodo estivo. Essere insensibili al richiamo nevrotico dell’uscita turistica a tutti i costi rappresenta la scelta cinica e anticonformista dell’uomo metropolitano: una presa di posizione filosofica ed esistenziale che va oltre la mera disponibilità economica. Una filosofia del recupero che non interessa solo gli oggetti, ma anche i luoghi e certi stati d’animo dimenticati, ad essi legati. Si sceglie l’immobilità come se fosse un pacchetto turistico acquistato in agenzia. Un’immobilità che diventa l’occasione per un’esplorazione accurata (e rivalutazione) del proprio ecosistema inflazionato; una non-partenza che paradossalmente è motivo di scoperta. Il contrasto tra immobilità e vitalismo isterico, magistralmente rappresentato nel film cult di Dino Risi “Il sorpasso”, esiste dal momento in cui è esistito il…

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Scrivere nella città lineare

Ma che cosa significa vivere in una Città Lineare? La ciclicità permette ad ognuno di noi di ritornare al punto di partenza: in una città lineare ciò non è possibile perché il “punto di partenza” è ignoto. Vivere in un luogo simile esige una certa dose di fede: non si può conoscere tutto, ma si può accettare tutto. Una sana ignoranza viene sorprendentemente contrapposta alla sicurezza positivista di quella rigida fantascienza tecnologica dove tutto doveva essere coerente e dimostrabile – seppur in un contesto di doverosa sospensione dell’incredulità! E gli abitanti sembrano rassegnati a questa linearità imperante, anche se ogni tanto uno di loro tenta qualche romantico esperimento: “No, quella carrozza viaggiava ancora verso Ponente attraverso la nostra imperscrutabile Città dopo due settimane. Ne sono convinto. E’ stato allora che mi sono veramente impaurito. L’enormità della nostra terribile esistenza mi sopraffece. Da allora non sono più quello di prima.”

N I G R I C A N T E

Dopo aver letto il racconto lungo “Un anno nella città lineare” (A year in the linear city – 2002) dello statunitense Paul Di Filippo, si ha come la sensazione di trovarsi nel bel mezzo di un “cambio d’aria”: vi ricordate quando a scuola (quando le classi erano numerose e l’anidride carbonica prodotta dai giovani cervelli in attività aumentava in maniera esponenziale durante le ore di lezione) ad un certo punto della mattinata il maestro ordinava all’alunno che sedeva sotto la finestra di aprire le ante per far entrare l’aria nuova? Leggere lo scrittore postmoderno Di Filippo dà la sensazione del nuovo che avanza: un nuovo che nasce dal felice incontro tra postmodernismo letterario e fantascienza.

Mi potrei soffermare sull’ambientazione fantastica e surreale creata dalla sua penna d’artigiano; potrei offrirvi delle pennellate recensorie sulla improbabile città descritta in questo racconto lungo o sulle verità escatologiche possedute da una strana popolazione…

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