
Che cos’è la napoletanità che, a detta di qualcuno, Sergio Castellitto non avrebbe saputo riprodurre, insieme al regista De Angelis, nella nuova versione filmica di “Natale in casa Cupiello” di Eduardo De Filippo andata in onda pochi giorni fa in televisione? È un cliché, un marchio di fabbrica, un mood antropologico che risponde a una genetica territoriale giustamente irriproducibile, un’atmosfera particolare che può essere ricreata solo da attori nati e cresciuti in determinate zone della Campania? Da campano non saprei dare una risposta univoca o forse ne potrei dare tante, perdendomi in un discorso lungo, retorico, nostalgico e quindi noioso. Eduardo è Eduardo: e questo è un dogma inconfutabile; così come Castellitto è Castellitto. Fermo restando che lo stesso Eduardo De Filippo ha messo in scena altre versioni teatrali della stessa opera che non mi hanno convinto, precedenti a quella che noi tutti ricordiamo e a cui siamo televisivamente affezionati e direi anche un po’ assuefatti, possiamo dire che “Natale in casa Cupiello” è ormai da tempo diventata opera universale; cosa s’intende per “universalità del teatro di Eduardo”? Che tutti possono metterlo in scena? No, significa che i contenuti umani, psicologici, filosofici, antropologici, culturali, addirittura quelli testuali, gergali e quindi teatrali, non appartengono più alla sola zona geografica che ha fornito l’imprinting decisivo all’opera stessa, ma al mondo intero; a tutto il mondo teatrale indipendentemente dalla formazione e dall’origine dell’interprete. Interprete e non imitatore. Non abbiamo bisogno di emulazioni dell’universo domestico cupiellano — caso mai fatte male; per questo ci sono delle ottime compagnie teatrali parrocchiali senza pretese con cui trascorrere ore piacevoli e divertenti —, bensì di interpreti universali che sappiano fare proprio, re-interpretandolo appunto, il messaggio drammatico di quest’opera. E sì perché “Natale in casa Cupiello” è un dramma travestito da commedia: la condizione dell’uomo che non riesce più a controllare la propria esistenza, o forse non è mai stato in grado di controllare, non può che essere una condizione drammatica interrotta da sprazzi di comicità spontanea recuperati grazie a un istinto primordiale che salva esistenze. E di questo spontaneismo comico i napoletani sono maestri, ma non gli unici sul mercato: ogni dialetto, ogni area popolare, indipendentemente dalla latitudine e dalla cultura predominante, possiede una propria zona franca, un colorito locale libero dalle pastoie del “bel parlato”, in cui giocano altre logiche linguistiche, altri schemi di pensiero più rapidi e spesso più saggi di certi sillogismi educati, condizionati dall’ufficialità culturale. Questi sprazzi comici, come grimaldelli dialettici tipici nel teatro eduardiano in cui il dialetto non prevale mai sulla “lingua nazionale” (da qui un altro punto di forza della sua universalità), dilatano le piccole ferite del quotidiano facendo colare in esse l’oro riparatore e tragico del dramma napoletan-shakespeariano: Luca Cupiello subisce la propria esistenza e quella degli altri, dei suoi cari; non pilota i destini di chi ama perché riesce a malapena a guidare sé stesso all’interno della propria dimora esistenziale; egli è ospite in casa propria, è tenuto all’oscuro delle trame, dei risvolti scomodi, è “figlio di famiglia”. Alla domanda su cosa stia accadendo si sente rispondere imperterritamente con un “niente… niente!”. La verità non si può conoscere; la comunicazione domestica è telegrafica, veloce e incomprensibile: gli interessati è come se volessero proteggere quel genitore-figlio dal dolore delle verità che attraversano il tessuto familiare, lasciando che si trastulli col suo passatempo preferito, il presepe, ultimo baluardo-rifugio di una genuinità assediata dalla realtà. Dirà lo stesso De Filippo, in un’altra commedia, per mezzo di un altro suo personaggio: A furia ‘e dicere “è cosa ‘e niente!” siamo diventati cos ‘e nient… È l’annullamento della personalità di un essere umano attraverso la finta semplificazione dei problemi o il loro oscuramento in nome di un dannoso senso di protezione. Al protagonista non gli resta che la difesa orgogliosa del brodo vegetale contro l’arroganza del brodo di gallina.
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