Nota a “A un ricordo da te” di Selene Pascasi

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Nel capitolo intitolato “Il cervello di mio padre” (dalla raccolta di saggi “Come stare soli”, Einaudi 2003), lo scrittore americano Jonathan Franzen scrive: “… riesco a vedere la mia riluttanza ad applicare il termine ‘Alzheimer’ a mio padre come un modo per proteggere la specificità di Earl Franzen dalla genericità di una malattia nominabile. […] E, laddove dovrei riconoscere che, sì, il cervello è un pezzo di carne, sembro invece conservare un punto cieco nel quale inserisco storie che enfatizzano gli aspetti dell’io legati all’anima.” Le nostre personalità non sono degli “insiemi circoscritti di coordinate neurochimiche. Chi vorrebbe vedere la storia della propria vita in questo modo?”. Eppure di questo mondo senza memoria e in preda alla cancel culture, in cui sono i social a ricordarci sulle loro timeline cosa abbiamo fatto o detto cinque anni fa o frange di negazionisti mettono in discussione fatti storici innegabili, l’Alzheimer sembrerebbe rappresentarne la sarcastica nemesi.

Ribellandosi alla convinzione di essere fatti di sola biologia, Franzen, affidandosi a Platone, rispolvera con urgenza il concetto di scrittura come la “stampella della memoria”, esaltando la solidità e attendibilità delle parole sulla carta, confermando il desiderio di registrare le storie in maniera indelebile, di annotarle con parole permanenti. Può la poesia svolgere questa funzione anche se in maniera diversa?

Nella silloge A un ricordo da te (Scrivere Poesia Edizioni di Pietro Fratta, 2022), Selene Pascasi non persegue obiettivi storici o biografici; con versi delicati e lapidari, congela preziosi sprazzi di vita privata, deposita attimi irripetibili e drammatici, prepara le carte per annotare “i racconti che svaniranno” o salvare il salvabile, importante per l’anima, “prima che l’infinito / ci avvolga”, costruisce ponti tibetani tra il passato della persona cara assistita durante il declino (la “stagione lenta d’oblio”) e il suo doloroso presente che tanto somiglia a quello di un’anima mai nata (“Analfabeti di storie. / Andiamo via restando.”). Si sobbarca “fardelli di passato”, esamina la bizzarra sospensione di chi pur morendo interiormente continua a vivere in “ergastoli coscienti”, e al contempo esamina se stessa mentre attende “invano un cenno”, le proprie reazioni all’involuzione di chi ama; la scrittura poetica è cronaca privata, sussurrata e mai debordante, che in un certo modo vendica l’assenza neurologica dell’altro fissando per entrambi (per “quell’ultimo noi”) frammenti esistenziali che altrimenti andrebbero perduti.

L’autrice “Andando contro tempo / correndo via lontano da te”, da un presente assurdo e doloroso, cerca di recuperare uno spazio-tempo ideale, ma di fatto irrecuperabile (“Ti ho visto / sprofondare nel vuoto / indicare gesti ai pensieri / approdare sfinito / sulla riva dei ricordi”). Non resta che la fede in una dimensione altra, “oltre il ponte del respiro”, lì dove “annienteremo le distanze”, non solo quelle neurologiche, terrene, condizionate da sensi fallaci e coscienze claudicanti, bensì quelle cronologiche, per ritornare ai giorni vissuti insieme, quelli che sembravano perfetti, intoccabili, in piena presenza d’animo. Nel ritrovarsi in uno “spazio tra di noi” che “avrà di nuovo / la tua voce e le mie parole”. Forse solo chi è cosciente del tempo e ha memoria, soffre per la perdita di storia personale: chi percorre la strada della malattia irreversibile è “senza nostalgia del ritorno” perché non riconosce più il punto in cui ritornare. In quelli che li accompagnano nel loro “incedere obliquo”, tuttavia, c’è sempre la speranza di scorgere “sentieri di luce / nelle solitudini della memoria” o “l’illusione dello scacco / alla precaria memoria”. Unica alternativa al “commiato muto” che “lega il tuo ponte al mio” è, e sempre sarà, la Poesia che frequentando per sua natura l’indicibile e praticando il non detto, più di altri linguaggi (forse solo la musica gioca ad armi pari con la scrittura poetica!) riesce a entrare persino nella dimensione, per noi sconosciuta, di chi memoria più non ha.   

Michele Nigro

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