Prefazione a “I riflessi delle cose”, di Stefano Olmastroni

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Prefazione a I riflessi delle cose, di Stefano Olmastroni (ed. Kolibris)

L’etimologia della parola riflesso, luce che viene rinviata da una superficie brillante o diffondente, dipana l’antico dubbio tra la poesia creata da una forza ispiratrice, quasi prepotente, che scava nel profondo, e la poesia che raccoglie con semplicità, preleva dalla superficie delle cose gli echi di vite vissute. Che differenza c’è tra riflesso e ricordo? I ricordi sono prove archiviate di un’esistenza appartenente alla storia di tutti, di molti o di un singolo individuo; i riflessi rappresentano i segni ricercati nel presente, o ritrovati per caso, di un “eterno ritorno”, di un qualcosa che non è passato, messo da parte, ma è, “persiste accanto” e a volte fa paura, anche se si prova “a non fissare / i riflessi delle cose”. Tutto sarebbe più facile “se i morti ti potessero parlare”, se ci fosse un contatto diretto con il mistero della vita. Quanto è difficile arrivare al cuore delle cose, diventare estranei a se stessi per mezzo della poesia, gestire i postumi dell’amore e lo stupore sempreverde per l’“allora siamo davvero esistiti, l’uno per l’altra” o per il “se tu sia veramente esistita”, domare i riverberi di una vita passata che non ci lascia, le tracce dei protagonisti sulle cose toccate, animate nel quotidiano viversi. Sprazzi all’apparenza inconsistenti, futili, diventano materia solida, buona per costruire strutture di versi.

È un continuare a sfiorarsi e a sorprendersi nell’amare l’altro, come tra il bianco e il nero nell’Hiroshima mon amour di Alain Resnais, incontro tra diversità, vivendo “due presenti separati”, lasciando gli anelli (propri o di altre unioni) in città per essere anonimi e liberi, coltivando “visioni / che già non ci appartengono”, osservando “onde ormai passate / cancellate dal paesaggio”. C’è una geografia testimone dei vari momenti di un rapporto; l’inizio, il culmine dell’amore, il suo dispiegarsi al mondo, il diluirsi nel tempo, la sua fine: i luoghi e gli elementi naturali registrano tutto e marcano per sempre con le loro sembianze il carattere degli istanti vissuti, rispondendo “alla chiamata del tramonto”, lasciando impronte di sé come “un racconto calpestato / sulla sabbia”. E in ogni spazio terraqueo c’è un confine che separa l’asciutto dal bagnato; gli anni trascorsi a bagnarsi, a viversi, dall’asciutto da cui si osservano gli amori passati, finiti sulla riva come le onde di un lago; il sogno dalla vita reale.

Il tempo, amico fraterno o traditore? È “stato quello consentito per conoscersi / davvero?”. Non esiste una risposta certa a queste domande: dal tempo vissuto bisogna imparare a prelevare solo il buono rimasto, setacciare la pula dei ricordi, conservare le “impronte notturne / briciole di cibo”, allontanare rimorsi e rimpianti che oscurano la memoria positiva.

Cosa resta nel dopo, quando prevale un “senso incombente di pace”? Cosa di “quella storia / che ci piaceva tanto raccontare”? A volte la struttura del presente vacilla, percepisce la mancanza di un significante ormai assente, avverte l’inconsistenza della terra sotto i piedi che più non regge il peso dell’oggi, della storia personale che ha perso la sua trama, i punti di riferimento per navigare; perché “ti ho conosciuto in / un’epoca in cui tutto / ha un suo significato” e quando la creatrice di significato scompare, si compensa il vuoto raccogliendo riflessi e ricordi, fissando il tutto in una poetica dei momenti, delle esperienze, per dare un nome alla “ragione che ci aveva fatti incontrare” e non essere stati solo “polvere umana”. Perché, come cantava Paul McCartney in The long and winding road, “la strada lunga e tortuosa / che conduce alla tua porta / non scomparirà mai”. Solo la poesia può filtrare il senso più intimo, fatto di riflessi, di quel cammino lungo e tortuoso che conduce alla vera e intramontabile esistenza condivisa.

Michele Nigro

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