“Perfect days” e l’hic et nunc di Wenders

versione pdf: “Perfect days” e l’hic et nunc di Wenders

411459239_764522369042471_2290709551410277407_n

Quand’è che una vita può essere considerata “perfetta”? Quando soddisfa i parametri valutativi di un sistema videocratico-consumistico basati sull’arrivismo, sul potere dell’influencing e sul successo mediatico o quando rispetta un ecosistema interiore costruito lentamente e con pazienza negli anni? Questo film di Wenders, da più parti e a ragione considerato “poetico”, pone al centro di tutto la contrapposizione tra l’affanno di chi programma la vita futura e il carpe diem di chi sceglie di cogliere l’attimo offerto dal “qui e adesso”, senza preoccuparsi di quel che si dovrà fare domani.

Il protagonista Hirayama (Kōji Yakusho) ha rinunciato a “un altro mondo”, solo accennato nel film, per onorare quotidianamente — nel proprio mondo — la meraviglia dell’esserci, lo stupore per le piccole cose, il primo respiro profondo appena svegli (a svegliarlo non è lo stridore di una sveglia ma il fruscio di una scopa di saggina), attraverso un ritualismo routinario fatto di gesti ripetuti, di abitudini puntuali, di “piccole gioie quotidiane” come innaffiare piantine, sorridere al cielo uscendo di casa, ascoltare musicassette fuori moda, frequentare luoghi pubblici ormai familiari, rifarsi il letto con movimenti collaudati, dedicarsi meticolosamente al proprio lavoro…

Qualcuno potrebbe, con una punta di malizia, ipotizzare che in realtà Wenders si sia reso la vita facile scegliendo una società, una cultura, una tradizione comportamentale come quella giapponese per proporre la sua personale visione di una filosofia esistenziale tendente alla perfezione, dal momento che il modus vivendi del popolo nipponico (al netto delle deviazioni causate dalle influenze occidentali veicolate dalla globalizzazione) è già per sua natura meticoloso, rispettoso del bene comune al limite dell’autolesionismo e affetto da precisione maniacale non solo nei luoghi pubblici e di lavoro ma anche nella vita privata. Tuttavia il protagonista del film aggiunge a queste caratteristiche diffuse un proprio tocco personale: la ricerca della bellezza nelle piccole cose non può essere offuscata dalla routine di un lavoro che da molti potrebbe essere definito “umile” (e umiliante), non all’altezza di chi avrebbe potuto aspirare ad attività più “alte”. Hirayama ci insegna che non esistono lavori umili o non all’altezza di qualcuno, ma solo lavori che nobilitano chi li svolge se eseguiti con dignità e meticolosità, da contrapporre ai lavori fatti per tirare a campare, per sopravvivere e racimolare qualche banconota per uscire con la propria ragazza il sabato sera… Spetta al singolo individuo scegliere se trasformare la propria esistenza in un haiku di equilibrio e di perfezione, capace di congelare l’attimo in tutta la sua bellezza, o vivere una vita in modalità inerziale, senza meraviglia, senza una filigrana che può intravedersi solo in controluce…

Hirayama adora fotografare i particolari, le sfumature, i giochi di luce e ombre tra le foglie e i rami degli alberi, che poi non sono altro che le luci e ombre delle nostre esistenze: fotografie da archiviare in scatole numerate, anno dopo anno, come a voler conservare gli attimi perduti nel tempo che scorre, congelare gli sprazzi di bellezza irripetibili e unici colti per caso durante la pausa pranzo, mangiando un panino in un parco pubblico. L’anacronistica battaglia tra analogico e digitale suggella il distacco, vissuto in silenzio e con dignità, tra il proprio mondo e quello della famiglia di origine che ha scelto la modernità, la ricchezza agiata, gli affari: mondi che non s’incontreranno mai più o solo raramente, mondi che si ignorano per scelte radicali o per altre ragioni che nel film non sono spiegate perché quello di Wenders è un film senza trama cronologica, senza didascalie aggiuntive, ma è semplicemente un omaggio all’attimo, alla perfezione del gesto quotidiano, all’hic et nunc che esclude passati scomodi e futuri improbabili. Il passato di Hirayama bussa ancora alla sua porta sotto forma di una nipotina irriconoscibile perché cresciuta dall’ultima volta, ma grazie alla sua scelta irreversibile di vivere una vita semplice lo contiene ai margini, lo disabilita, lo esorcizza. Si intuisce una rottura netta con quel passato: la semplicità e la sequenza di gesti quotidiani rituali rendono inefficace una certa malsana complessità, immunizzano Hirayama dal rischio di ritornare a una condizione esistenziale ormai definitivamente rifiutata e lasciata alle spalle. Si intravede, tra le pieghe di alcuni dialoghi del film, il rapporto difficile con un padre ormai alla fine della vita: forse Hirayama, appartenente in passato a un sistema sociale competitivo e capitalisticamente agguerrito, ha scelto a un certo punto della propria esistenza di mettere fine al suo personale coinvolgimento in un gioco divenuto insostenibile. La scelta di pulire i bagni pubblici di Tokyo rappresenta la vidimazione ufficiale di un necessario e salvifico “passaggio al bosco” — per dirla alla Jünger — pur continuando a vivere e a lavorare immerso nel tessuto metropolitano della capitale nipponica, all’ombra della Tokyo Sky Tree.

Scegliere di vivere in un quartiere popolare, di essere una pedina semplice, un “ribelle” silenzioso e appartato, un lavoratore apparentemente destinato all’anonimato, ma che nel suo essere “nessuno” ha riscoperto la bellezza dell’essere in contatto con un “tutto” che è poi il mondo stesso: un mondo fatto di oggetti da pulire con piglio maniacale, di persone incontrate per caso, di piccole situazioni quotidiane da cui trarre insegnamenti semplici, genuini, delicati. È grazie alla “retrocessione” a livelli elementari che l’uomo libero entra in contatto con quella complessità che gli altri ormai hanno dimenticato di onorare nel corso delle loro esistenze frenetiche e distratte. La lentezza filosofica dell’analogico contro l’efficientismo distraente del digitale.

Gli spettatori più superficiali già gridano al “film noioso” ma di noioso c’è solo la loro assuefazione al clamore e agli effetti speciali di un certo cinema; Wim Wenders, con la sua “poetica delle città”, dopo Lisbona, Berlino…, stavolta approda (o meglio, ritorna) nella città simbolo di una società votata al raggiungimento di un efficientismo a volte opprimente, disumanizzante, che a noi occidentali sciatti e menefreghisti appare come un’esagerazione inutile; il giovane collega di Hirayama infatti consiglia di non pulire troppo accuratamente i bagni, dal momento che nel giro di pochi minuti verranno nuovamente insozzati dai passanti. Ma Hirayama, pur avendo scelto un’esistenza semplice, basilare, essenziale, è e resta fondamentalmente un giapponese all’antica, un tradizionalista della perfezione e della cura; applica l’arte dell’ikebana alla disposizione dei rotoli di carta igienica nei bagni pubblici, ha cura della cosa pubblica anche se il suo lavoro si trova nella parte più bassa della piramide occupazionale di una comunità veloce, nevrotica, indaffarata. Sembra che la scelta di quel mestiere sia funzionale a una catarsi personale, alla liberazione da una serie di catene sociali che gli avrebbero impedito (forse in un passato da imprenditore? Non lo sapremo mai…) di apprezzare i particolari dell’esistenza, quei minuscoli particolari che rendono la vita degna di essere vissuta.

“Perfect days” non è un film noioso perché nella ripetizione silenziosa delle abitudini giornaliere di Hirayama, nel suo parlare quanto basta, vi è un effetto purificatorio anche in chi è spettatore: Wenders diventa così un cantore dell’attimo, anzi degli attimi appartenenti a una vita anonima, per gli assetati di successo a una vita sprecata, non vissuta degnamente. La voce quasi assente di Hirayama, però, è sostituita da una colonna sonora proveniente dall’occidente e contenuta nelle sue “musicassette d’epoca”: se “Perfect day” di Lou Reed l’avevamo già apprezzata nel film “Trainspotting” di Danny Boyle durante la scena drammatica dell’overdose del protagonista Mark Renton, qui invece è la giusta traccia sonora di una speranza che ogni giorno risorge a vita nuova perché il giorno perfetto appartiene ai semplici, ai puri di cuore, a chi sceglie senza pentirsi una vita lineare, equilibrata, cadenzata da faccende che non aspirano al consenso universale ma al semplice soddisfacimento delle esigenze basilari di un individuo che vive felice nel suo micro-ecosistema. Nella meticolosità con cui Hirayama svolge il proprio lavoro, tuttavia, si intravede ancora una traccia di quel doveroso senso tipicamente giapponese di indispensabilità e responsabilità delle proprie azioni sul mondo: si può vivere una vita semplice ma le nostre azioni, le nostre responsabilità ricadranno sempre e comunque anche sugli altri, su chi riceve un beneficio dal nostro lavoro ben fatto. Non vi è approssimazione nel lavoro svolto perché ogni gesto fa parte di un sistema karmico che chiama ogni essere vivente, anche il più isolato e anonimo del pianeta, a dare il personale contributo a un equilibrio che coinvolge ognuno di noi. Alla luce di questa filosofia possono mai esistere lavori più “importanti” di altri o lavori meno degni? La dignità di un lavoro, di qualsiasi lavoro, è strettamente dipendente dalla forza morale del lavoratore.

Attraverso la fotografia Hirayama (o Wenders?) compie una ricerca interiore: se i suoi sogni in bianco e nero non possono essere controllati dalla volontà perché guidati dall’inconscio, con le sue foto in bianco e nero (scattate per mezzo di una macchinetta fotografica rigorosamente analogica con tanto di pellicola da far sviluppare ogni volta: anche questo divenuto gesto d’antan in un’epoca di feroce digitalizzazione dell’immagine) il protagonista di “Perfect days” ricerca e vuole riprodurre nei suoi scatti la sfumatura perfetta, il gioco di luce e ombra che intravede nella realtà quotidiana, durante la pausa dal lavoro: non tutte lo soddisfano, molte fotografie vengono immediatamente strappate perché non corrispondono all’oggetto della sua ricerca, solo le migliori vengono archiviate. Hirayama è un collezionista di attimi: non solo quelli vissuti in prima persona ma anche di quelli capitati agli altri; è capace ancora di fermarsi a sorridere con tenerezza per un gesto fugace, uno stato d’animo colto per caso sul volto di un passante, per la danza folle di un senzatetto, per il pianto di un bambino che si è perso… Il suo lavoro diventa così un’occasione per stare al mondo, nel mondo, e coglierne tutte le lente sfumature; per registrare quei particolari che sfuggono ai più.

Anche nella scelta dei libri, che legge puntualmente di sera prima di addormentarsi, vi è una cura del particolare, una ricerca dell’autore poco letto, delle parole dimenticate dalla massa che segue mode letterarie o non legge affatto; ma si schernisce se qualcuno lo definisce “intellettuale”. Tuttavia Hirayama non è un sempliciotto, un ingenuo scartato dalla società: è un cultore dell’essenzialità, del vuoto, un artista della sottrazione (“meno hai, più hai!” ha affermato Wenders in un’intervista), ed è saldamente al timone del proprio tempo e della propria esistenza scelta in prima persona e non subita. Scelte altrettanto incomprensibili da chi insegue, invece, il culto del successo, dell’accumulo materiale e sensoriale, del consenso mediatico, dell’arrivismo socio-economico divenuto comandamento imprescindibile. In quanti riuscirebbero a immaginare che dietro un “umile lavoratore” si nasconde un lettore di libri, un fotografo, un ascoltatore di buona musica, un cultore della bellezza?

versione pdf: “Perfect days” e l’hic et nunc di Wenders

Pubblicato anche su “La poesia e lo spirito”

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.