Nota a “Come fosse luce” di Rita Pacilio

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Si esce cosparsi di immagini, di combinazioni linguistiche che mai debordano in virtuosismi poetici fini a se stessi, di vita sbattuta in faccia, di luci e ombre esistenziali, dalla lettura delle poesie di Rita Pacilio; se poi l’immersione avviene nell’ambito di un viaggio antologico come nel caso della raccolta “Come fosse luce” (Macabor, 2023), la sensazione di esperienza totalizzante e avvolgente risulta essere ancora più intensa.

Si tratta di un excursus che non dà tregua al lettore: il susseguirsi di versi così descrittivi (pur senza alcun intento didascalico) e intensi nel loro realismo immaginifico (“Mi sforzo di conciliare vita e spirito / capire quanto sia reale l’invisibile”), rende impossibile ogni tentativo di adeguamento a una linea stilistica confortante (come in tanta scialba poesia contemporanea a uso e consumo di chi necessita di istantanee parole consolatorie!), a un racconto-unguento che guarisca rapidamente la pelle dell’anima e metta a riparo da scottanti cambi di rotta dell’esistenza. È una poesia che affonda le mani nella vita personale dell’autrice, come è ovvio che sia, e in quella dell’intera umanità, maltrattata, dimenticata, abusata, amata e odiata, uccisa e protetta, torturata e desiderata: quello che fuori ne viene tirato è un ritmo di metafore ben costruite, schiaffi leggiadri che possono condurre il lettore verso una bellezza sublime o nell’inferno di alcune condizioni reali. L’accostamento, in tanti passaggi “geniale”, tra parole, crea alchimie che risuonano nella mente e nel cuore di chi si immerge nella poetica di Rita Pacilio (“sottana boscosa”, “lampioni spogliati come donne”, “luce elastica”, “labbra foreste”, “singhiozzo grasso”, “dissotterrare l’infinito”, “il melograno rotto singhiozza colori”, “ombre zitte”, “ronfo lucidato”…: solo alcuni esempi prelevati da un paniere di combinazioni ben più ampio): tentare di domare questa alchimia è inutile; lasciarsi trasportare — come in una danza di parole — dal flusso descrittivo dei suoi versi è l’unica via percorribile. Descrittivi sì, belli da sentire, ma compresi nell’economia di una trama indicibile, universale, che appartiene a tutti e a nessuno, che è personale dell’autrice ma è anche storia dell’umanità, e che per questo motivo diventa canto di ognuno.

La cifra evocativa di questa poesia non conosce luoghi da poter indicare, situazioni riconoscibili, anche quando così sembrerebbe: ciò accade perché a essere tirata in ballo è la condizione umana generale in tutta la sua bellezza, la sua storicità e anche in tutta la sua tragedia quotidiana, comune, che appartiene a ogni tempo (“Lo so, potresti sfidare la gravità / del tramonto / farti strada aperta e maestra oppure non sapere / niente dei tremila anni stropicciati dal tempo”). La poesia di Rita Pacilio è fatta di lampi dal taglio dolce, si comincia a sanguinare dopo un po’, a distanza di alcuni minuti dopo averne apprezzato le fattezze sonore, gli accostamenti ispirati, le ondulazioni ritmiche, le rivelazioni di ciò che è verità nascosta dalla logica dei discorsi vuoti che dominano l’odierna comunicazione dell’ovvio. È la giusta cura per combattere una certa prosa poetica, un antidoto alla “poesia facile” imperante: anche quando sembra condurre verso la spiegazione di un fatto, a salvarci, virando dalla rotta iniziale, è l’originalità di un linguaggio che non assicura comodità di significati. Per fortuna…!

Michele Nigro

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