Provocatoriamente vorrei esordire affermando che quest’opera di Davide Rocco Colacrai non è una raccolta di poesie, anche se il tono è altamente poetico, bensì di una sorta di ballate (come il nome della collana di Le Mezzelane edizioni in cui è stata pubblicata); o meglio, si tratta di un canzoniere composto da “brani”, storie raccolte nel mondo e nel tempo che diventano inevitabilmente storie personali, individuali, sussurrate al singolo lettore.
Prosa poetica o poesia prosaica? Non siamo interessati a una “tassonomia” della parola ma ai suoi effetti musicali sull’animo di chi legge: i testi di Colacrai ricordano indirettamente i monologhi teatrali improntati su vicende storiche (più ironici e meno poetici) di Marco Paolini; il ricorso abbastanza frequente al refrain (strumento tipico delle ballate e figura retorica in poesia) ricorda invece il teatro di Ascanio Celestini (che porta il refrain a un uso, a volte, esasperante ma ipnotico ed efficacissimo nel sottolineare la filigrana del fatto raccontato). Anche se i refrain di Colacrai, per fortuna, non riproducono l’insistenza cadenzata del più famoso “alle cinque della sera” di Federico García Lorca.
“[…] La chiamavano la pazza.
Ricordo che aveva gli occhi grandi, azzurri di cristallo, / nei quali pulsava fortissimo il cuore / come pulsava la luna quando scioglieva le briglie / al suo violino / affinché vincesse il buio.
La chiamavano la pazza. […]”
(da Concerto per Tchaikovsky – assolo di donna dal Gulag; pag. 55)
In un’epoca di poesie facili e consolatorie, la poesia dell’Autore di questa raccolta non è mai medicamentosa, rassicurante, ma tende giustamente a far sanguinare, a bruciare la pelle del lettore con parole vive, mai scontate, che non si accomodano e non fanno accomodare. È come se le storie del mondo avessero deciso di farsi raccontare e musicare in un testo che non soffre affatto della centralità dell’autore (salvo alcuni componimenti in cui si omaggiano figure familiari e care, e quindi personalissime e non mimetizzabili). In questi versi l’Autore scompare, si diluisce nel mondo, nelle sue storie, nei fatti raccontati; si annulla per farsi umanità orante, usando parole non ricercate ma lineari, facenti parte di un discorso: i versi sono lunghi – hanno voglia di spiegare, di descrivere – senza mai perdere però la poeticità che li ha creati. Ed è un bene per la poesia quando ciò accade. Alcune poesie di questo libro ricordano gli epitaffi dell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters: un risarcimento postumo a personaggi estinti, dimenticati, o anche famosi; a volte si tratta di risarcimenti collettivi (come nel caso della poesia dedicata alle vittime della Strage dell’Hotel Rigopiano o di Shatila).
È un diario pubblico in poesia che prende vita grazie a fatti di cronaca, a eventi storici conosciutissimi (ma anche meno noti o sfiorati da pochi, legati a un vissuto privato), e riesaminati dalla sensibilità e dalla versificazione dell’autore: pagine storiche appartenenti a tutti, che diventano inevitabilmente anche fatti personali, aderenti ai propri ricordi. Colacrai sembra voler rispondere in termini poetici alla classica domanda retorica del tipo: “dove ti trovavi e cosa hai pensato quando uccisero Borsellino o quando avvenne la strage di Ustica?”. E nel porre indirettamente queste domande, che in attesa di risposte esigono un risveglio di coscienza, diventa egli stesso testimone oculare, protagonista, vittima, “cantando” al posto dei morti e di chi non può più testimoniare o raccontarsi. L’autore è cantore della storia ufficiale che grazie alla poesia diventa storia personale, intima; da storia di plurali, collettiva, diventa storia del singolo, dell’individuo-lettore che a quel punto non può più restare in disparte, distante o addirittura indifferente.
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