Albeggiare pallido e assorto

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Nelle albe di lavoro
è una dolce spada
di luce e speranza, trafigge
il primo chiarore ad est il petto
e gli occhi assuefatti di gatti
al buio e attenti all’abigeato
di cavalli in ferro e argilla.

Ritornano lenti i contorni alle cime
perse nell’oscurità del trapasso,
l’erba gelata attende fedele
la nascita d’una carezza luminosa.

Preghiera all’ultima stella sul confine,
esordio al mattino senza domande
di sbadigli e brina sull’anima

tra un candore di spazio celeste
fanno male per troppa luce
i vagiti del nuovo giorno,

consueti bagliori d’aurora
scruta nella fredda notte
e si rimette in strada
con la solita fede
il viandante assonnato.

(ph M.Nigro©2024; titolo: Squarcio d’alba)

“Jesce juorno” – Pino Daniele

“Anarcometaverso”, videointervista a Michele Nigro…

Franco Innella rivolge alcune domande a Michele Nigro, autore del racconto post-cyberpunk intitolato “Anarcometaverso” e incluso nella mini-antologia “Delle Eloquenti Distopie” vol.2 (Delos Digital, 2023) curata e introdotta dallo scrittore romano Sandro Battisti

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Tre inediti per “La rosa in più”

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Un grazie di cuore a “La rosa in più” e a Salvatore Sblando per aver ospitato alcuni miei versi…

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Nota a “Come fosse luce” di Rita Pacilio

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Si esce cosparsi di immagini, di combinazioni linguistiche che mai debordano in virtuosismi poetici fini a se stessi, di vita sbattuta in faccia, di luci e ombre esistenziali, dalla lettura delle poesie di Rita Pacilio; se poi l’immersione avviene nell’ambito di un viaggio antologico come nel caso della raccolta “Come fosse luce” (Macabor, 2023), la sensazione di esperienza totalizzante e avvolgente risulta essere ancora più intensa.

Si tratta di un excursus che non dà tregua al lettore: il susseguirsi di versi così descrittivi (pur senza alcun intento didascalico) e intensi nel loro realismo immaginifico (“Mi sforzo di conciliare vita e spirito / capire quanto sia reale l’invisibile”), rende impossibile ogni tentativo di adeguamento a una linea stilistica confortante (come in tanta scialba poesia contemporanea a uso e consumo di chi necessita di istantanee parole consolatorie!), a un racconto-unguento che guarisca rapidamente la pelle dell’anima e metta a riparo da scottanti cambi di rotta dell’esistenza. È una poesia che affonda le mani nella vita personale dell’autrice, come è ovvio che sia, e in quella dell’intera umanità, maltrattata, dimenticata, abusata, amata e odiata, uccisa e protetta, torturata e desiderata: quello che fuori ne viene tirato è un ritmo di metafore ben costruite, schiaffi leggiadri che possono condurre il lettore verso una bellezza sublime o nell’inferno di alcune condizioni reali. L’accostamento, in tanti passaggi “geniale”, tra parole, crea alchimie che risuonano nella mente e nel cuore di chi si immerge nella poetica di Rita Pacilio (“sottana boscosa”, “lampioni spogliati come donne”, “luce elastica”, “labbra foreste”, “singhiozzo grasso”, “dissotterrare l’infinito”, “il melograno rotto singhiozza colori”, “ombre zitte”, “ronfo lucidato”…: solo alcuni esempi prelevati da un paniere di combinazioni ben più ampio): tentare di domare questa alchimia è inutile; lasciarsi trasportare — come in una danza di parole — dal flusso descrittivo dei suoi versi è l’unica via percorribile. Descrittivi sì, belli da sentire, ma compresi nell’economia di una trama indicibile, universale, che appartiene a tutti e a nessuno, che è personale dell’autrice ma è anche storia dell’umanità, e che per questo motivo diventa canto di ognuno.

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“Poesie sospese”, silloge terza

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“… poesiole, ricordi, esortazioni, esibizionismi, scherzose invettive, di sicuro poesiacce, donate a chi non può permettersi di giocare con le parole, di pagarle in prima persona, di viverle sulla propria pelle. […] Questa terza e ultima silloge della serie sospesa, sottotitolata “nuovi materiali per un futuro incerto”, in omaggio alla prima serie, è divisa in quindici tempi, quindici momenti eterogenei e di diversa ispirazione che vanno a chiudere un’esperienza di necessaria gratuità non richiesta. Non abbiamo dati sicuri sul domani, e forse è proprio da questo costante stato di precarietà che nasce la parola più libera, a volte la poesia più vera anche se meno bella…” (dalla Premessa)

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“Fenomenologia della poesia facile” su L’Age d’or…

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Il mio articolo “Fenomenologia della poesia facile” è stato pubblicato (con il titolo riportato in immagine) sul numero di febbraio/marzo 2024 (Anno V) di “L’Age d’or”, “… un blog-rivista online di cultura e società con l’intento di diffondere e sostenere il pensiero critico” curato da Marco PalladiniDésirée Massaroni che ringrazio… Purtroppo per esprimere questo pensiero critico (scambiato dal minus habens per invidia) in maniera coerente e senza ipocrisie si è costretti implicitamente a fare un po’ di book marketing e quindi di pubblicità involontaria a un “personaggio”, più che a un poeta, che invece meriterebbe l’oblio… 

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“Perfect days” e l’hic et nunc di Wenders

versione pdf: “Perfect days” e l’hic et nunc di Wenders

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Quand’è che una vita può essere considerata “perfetta”? Quando soddisfa i parametri valutativi di un sistema videocratico-consumistico basati sull’arrivismo, sul potere dell’influencing e sul successo mediatico o quando rispetta un ecosistema interiore costruito lentamente e con pazienza negli anni? Questo film di Wenders, da più parti e a ragione considerato “poetico”, pone al centro di tutto la contrapposizione tra l’affanno di chi programma la vita futura e il carpe diem di chi sceglie di cogliere l’attimo offerto dal “qui e adesso”, senza preoccuparsi di quel che si dovrà fare domani.

Il protagonista Hirayama (Kōji Yakusho) ha rinunciato a “un altro mondo”, solo accennato nel film, per onorare quotidianamente — nel proprio mondo — la meraviglia dell’esserci, lo stupore per le piccole cose, il primo respiro profondo appena svegli (a svegliarlo non è lo stridore di una sveglia ma il fruscio di una scopa di saggina), attraverso un ritualismo routinario fatto di gesti ripetuti, di abitudini puntuali, di “piccole gioie quotidiane” come innaffiare piantine, sorridere al cielo uscendo di casa, ascoltare musicassette fuori moda, frequentare luoghi pubblici ormai familiari, rifarsi il letto con movimenti collaudati, dedicarsi meticolosamente al proprio lavoro…

Qualcuno potrebbe, con una punta di malizia, ipotizzare che in realtà Wenders si sia reso la vita facile scegliendo una società, una cultura, una tradizione comportamentale come quella giapponese per proporre la sua personale visione di una filosofia esistenziale tendente alla perfezione, dal momento che il modus vivendi del popolo nipponico (al netto delle deviazioni causate dalle influenze occidentali veicolate dalla globalizzazione) è già per sua natura meticoloso, rispettoso del bene comune al limite dell’autolesionismo e affetto da precisione maniacale non solo nei luoghi pubblici e di lavoro ma anche nella vita privata. Tuttavia il protagonista del film aggiunge a queste caratteristiche diffuse un proprio tocco personale: la ricerca della bellezza nelle piccole cose non può essere offuscata dalla routine di un lavoro che da molti potrebbe essere definito “umile” (e umiliante), non all’altezza di chi avrebbe potuto aspirare ad attività più “alte”. Hirayama ci insegna che non esistono lavori umili o non all’altezza di qualcuno, ma solo lavori che nobilitano chi li svolge se eseguiti con dignità e meticolosità, da contrapporre ai lavori fatti per tirare a campare, per sopravvivere e racimolare qualche banconota per uscire con la propria ragazza il sabato sera… Spetta al singolo individuo scegliere se trasformare la propria esistenza in un haiku di equilibrio e di perfezione, capace di congelare l’attimo in tutta la sua bellezza, o vivere una vita in modalità inerziale, senza meraviglia, senza una filigrana che può intravedersi solo in controluce…

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