“Perfect days” e l’hic et nunc di Wenders

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Quand’è che una vita può essere considerata “perfetta”? Quando soddisfa i parametri valutativi di un sistema videocratico-consumistico basati sull’arrivismo, sul potere dell’influencing e sul successo mediatico o quando rispetta un ecosistema interiore costruito lentamente e con pazienza negli anni? Questo film di Wenders, da più parti e a ragione considerato “poetico”, pone al centro di tutto la contrapposizione tra l’affanno di chi programma la vita futura e il carpe diem di chi sceglie di cogliere l’attimo offerto dal “qui e adesso”, senza preoccuparsi di quel che si dovrà fare domani.

Il protagonista Hirayama (Kōji Yakusho) ha rinunciato a “un altro mondo”, solo accennato nel film, per onorare quotidianamente — nel proprio mondo — la meraviglia dell’esserci, lo stupore per le piccole cose, il primo respiro profondo appena svegli (a svegliarlo non è lo stridore di una sveglia ma il fruscio di una scopa di saggina), attraverso un ritualismo routinario fatto di gesti ripetuti, di abitudini puntuali, di “piccole gioie quotidiane” come innaffiare piantine, sorridere al cielo uscendo di casa, ascoltare musicassette fuori moda, frequentare luoghi pubblici ormai familiari, rifarsi il letto con movimenti collaudati, dedicarsi meticolosamente al proprio lavoro…

Qualcuno potrebbe, con una punta di malizia, ipotizzare che in realtà Wenders si sia reso la vita facile scegliendo una società, una cultura, una tradizione comportamentale come quella giapponese per proporre la sua personale visione di una filosofia esistenziale tendente alla perfezione, dal momento che il modus vivendi del popolo nipponico (al netto delle deviazioni causate dalle influenze occidentali veicolate dalla globalizzazione) è già per sua natura meticoloso, rispettoso del bene comune al limite dell’autolesionismo e affetto da precisione maniacale non solo nei luoghi pubblici e di lavoro ma anche nella vita privata. Tuttavia il protagonista del film aggiunge a queste caratteristiche diffuse un proprio tocco personale: la ricerca della bellezza nelle piccole cose non può essere offuscata dalla routine di un lavoro che da molti potrebbe essere definito “umile” (e umiliante), non all’altezza di chi avrebbe potuto aspirare ad attività più “alte”. Hirayama ci insegna che non esistono lavori umili o non all’altezza di qualcuno, ma solo lavori che nobilitano chi li svolge se eseguiti con dignità e meticolosità, da contrapporre ai lavori fatti per tirare a campare, per sopravvivere e racimolare qualche banconota per uscire con la propria ragazza il sabato sera… Spetta al singolo individuo scegliere se trasformare la propria esistenza in un haiku di equilibrio e di perfezione, capace di congelare l’attimo in tutta la sua bellezza, o vivere una vita in modalità inerziale, senza meraviglia, senza una filigrana che può intravedersi solo in controluce…

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Appunti rozzi di un lettore de “Il dottor Živago” di Pasternàk

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“Così tutto quello che era in lui ancora ferita viva e bruciante veniva estromesso dalle poesie e, in luogo di quella sofferenza che sanguinava e doleva, vi compariva una pacata apertura che innalzava il caso particolare a esperienza universale, a tutti partecipabile.”

(Parte seconda, cap. XIV)

È difficile uscire indenni da un romanzo come Il dottor Živago di Borìs Pasternàk, dopo averlo letto. È difficile staccarsi da quel testo, riporlo in libreria tra gli altri come se niente fosse. Ma niente non è stato. Perché? La risposta è complessa. È una storia immensa, infinita, umana ma al tempo stesso soprannaturale, terrena ma divina, storica ma universale e senza tempo. Una storia dell’umanità ma che appartiene all’infinito.

Che esistenze! Che amori! Che passioni viscerali! Che epopee esistenziali…! E che tristezza, pur nella forza che la vita dona ai suoi protagonisti. Un racconto che cresce piano piano, dall’infanzia all’età adulta, da un determinismo che tutto sembrerebbe aver stabilito al vortice dell’esistenza che ogni cosa stravolge: due classi sociali, un uomo e una donna, vanno incontro al loro destino, al fatto che la guerra e la rivoluzione li farà incontrare e darà loro l’opportunità di amarsi al di là della Storia e delle loro vicende personali. È questo il grande messaggio del Živago di Pasternàk: rispettare la propria natura individuale, la propria storia interiore e sentimentale anche se il mondo intorno va in un’altra direzione, spinto da altre esigenze verso il baratro o il rinnovamento. La critica alle intenzioni rivoluzionarie da parte di Pasternàk sono evidenti e forti, anche se narrativizzate: da qui il suo essere osteggiato in patria e la nascita del conseguente “Caso Pasternàk” intorno alla rinuncia da parte dell’autore al Premio Nobel per la letteratura e all’avventurosa storia editoriale del romanzo.

La storia tra Jurij Živago e Lara Antipova fa tornare alla mente le tante vicende clandestine di amori impossibili eppure reali, vissuti, ma inesistenti agli occhi di una visione “ufficiale” della vita. Donne e uomini, impegnati su “altri fronti”, che seguono il loro cuore e la loro riscoperta natura su campi di battaglia collaterali, condannati dalla società per eccesso di individualismo, ritenuti “fuori dalla Storia”. Lo strazio per un amore impossibile o comunque difficile da preservare (e sintetizzato nel “come faremo!” sussurrato a Jurij dalla Lara del film di David Lean). Anche Jurij, come Lara Antipova, è sposato, con prole: una doppia impossibilità, un doppio nodo su corde diverse e separate. Il senso di sospensione e di precarietà di un amore difficile ma vissuto, nascosto nelle intercapedini delle altre storie private, protetto da occhi indiscreti. Eppure quanta forza e speranza possono effondersi da storie in salita come questa descritta da Pasternàk: il viverla comunque, pur sapendo di non avere un futuro; si attinge dalla complessità di simili incontri una forza incredibile, strana, quasi crudele, ma grazie a essi si vivono sensazioni e si carpiscono segreti esistenziali che non sarebbe possibile conoscere attraverso una storia ordinaria. Forse il vero amore è quello che nasce nel dolore, tra gli attriti del reale, quello nato “mutilato”, e che insegna più cose.

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Fellini e l’elogio alla pagina bianca

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In un sistema produttivistico che obbliga a un efficientismo artistico, il giorno libero dal set, il buio delle idee, la pagina bianca, la confusione mentale ed esistenziale, l’ozio non creativo, rappresentano una salvifica benedizione, sono gli elementi di uno stato di grazia che se inizialmente deprimono e abbattono la voglia di fare dell’artista, in seguito rivelano la loro necessaria funzione risanatrice, di pausa dal mondo, di punto di vista alternativo. E se fosse la fine delle idee, dell’entusiasmo, dell’energia vitale? Se questa depressione ipocondriaca che prende il posto del successo fosse una nuova e permanente condizione interiore da accettare e fare propria? Le domande si fanno insistenti così come le richieste dall’ambiente a cui si appartiene; la lacune esistenziali, il groviglio di contorsioni, di acrobazie autoassolutorie e di alibi in cui l’essere umano si intrappola con le proprie mani, diventano la nuova verità a cui è difficile non credere. Ma i sogni, i desideri e le fantasie a occhi aperti riportano l’uomo sbandato verso un inconscio a cui è difficile mentire: le voci interiori sono vere nella loro assurdità, e torturano l’essere che crede di usare attivamente la propria coscienza, di dominare la vita con la forza di volontà. Si vive di collaudate facciate più o meno accettate perché comode, si scende a compromessi con tutti ma allo stesso tempo si fugge da tutti e da tutto, da se stessi, dalle responsabilità, dagli affari di chi ha puntato su di noi… Qualcuno, però, ha il coraggio di dire: “Sei libero, ma devi scegliere. Non c’è più tanto tempo!”. La fine si avvicina: non siamo immortali e l’orologio ci pugnala alle spalle secondo dopo secondo, ora dopo ora; bisogna compiere delle scelte, selezionare le priorità, recuperare ciò che conta nella vita. Ma più tentiamo di soddisfare queste priorità e più ci incartiamo in noi stessi, più ci allontaniamo dal gesto draconiano e liberatorio; più cerchiamo di dare risposte a chi ci insegue, più rischiamo di dimenticare la nostra anima, i nostri obiettivi interiori. Arriva il momento salvifico della rinuncia, del dire a se stessi la verità; il coraggio di gettare la spugna e rivelarsi deboli ma veri, e ritrovare il coraggio di ricominciare aprendosi a un aiuto, a una seconda possibilità, alla riscoperta della parola “insieme”. Abbattere il castello di menzogne, affrontare i conflitti nascosti nel cuore e trascinati dall’infanzia, aprire le mani in segno di resa e riconquistare l’entusiasmo perduto, la genialità creatrice che rianima. Le proprie debolezze, i propri fantasmi, diventano così alleati, personaggi da rivalutare positivamente, protagonisti di una pellicola non ancora girata: tutti parte di un enorme spettacolo circense chiamato “vita”. Ma per scoprire questo nuovo copione e scoprirsi, bisogna avere il coraggio di rinunciare a insistere, di autocensurarsi, di vivere il silenzio, di ritornare a guardare senza paura il foglio bianco, di non sentirsi artisti necessari ma in bilico e inutili, di strappare il foglio su cui è riportata un’idea che non ci convince totalmente, di mandare tutti a casa, di smontare la scena che non ci appartiene più; perché a volte “distruggere è meglio che creare” in un mondo ipocrita e autoreferenziale che crede di sfornare il romanzo necessario, il film necessario, l’album musicale necessario… Rinunciare al tutto per rivalutare il nulla. Il film non ancora prodotto — e che sarà il più bello — è quello che parla di noi, della nostra più scomoda intimità, delle nostre paure e dei nostri desideri, del nostro sentirci inutili, delle debolezze che danzano con noi in un cerchio finale e risolutivo. Tenendosi per mano, assecondando una musica allegra e al tempo stesso malinconica: la colonna sonora di un circo che felicemente sta per chiudere i battenti.

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“La generazione Baga – Riflessioni sull’ultimo mezzo secolo del Salone Margherita” di Antonio Vacca

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Per “Dialoghi da bar”, Michele Nigro e Francesco Innella presentano – in compagnia dell’Autore – il libro di Antonio Vacca intitolato “La generazione Baga – Riflessioni sull’ultimo mezzo secolo del Salone Margherita” (Print Art ed. – 2020 – 90 pag.) con prefazione di Gigi Miseferi.

La Generazione Baga è un viaggio “partecipe” attraverso gli Spettacoli della Compagnìa “Il Bagaglino” e, inevitabilmente, fra le pieghe del Salone Margherita romano da circa cinquant’anni a questa parte. Sviluppato con l’empatia dello spettatore affezionato, non ha velleità di retrospezione esaustiva e racconta modi, tempi ed artisti di quel meraviglioso fenomeno teatrale con precipuo intento di arginare la spèndita d’un evo spettacolare che dalle vicende più recenti rischia un parziale sbiadimento nella memoria sociale.

Antonio Vacca, 65 anni, medico nutrizionista in pensione, giornalista pubblicista e già collaboratore di tv locali e nazionali, scrive saggi brevi dal 1985, dedicati al cibo, soprattutto in rapporto ai media; si è occupato a lungo di Dieta Mediterranea. Dalla sua passione per il teatro nasce il libro “La generazione Baga”, uscito nel 2020 e di grande attualità ora che molti riparlano di “Bagaglino”.

Nanni Moretti, tra etica ed estetica

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Che a Nanni Moretti non andassero a genio molte cose dell’epoca in cui vive, l’avevamo intuito da tempo. La critica alla contemporaneità (e l’autocritica) che partendo da Ecce bombo passa per Palombella rossa, Caro diario e Aprile, trova forse una piena maturità nel suo ultimo film intitolato Il sol dell’avvenire. Una critica all’etica politica, artistica, sociale; una critica all’estetica cinematografica, morale, sentimentale. Nanni Moretti, ancora una volta, parla di se stesso, usa se stesso e la sua esperienza privata e professionale per evidenziare, non senza un’immancabile dose di ironia, le parti indigeste dell’esistenza e dei difficili rapporti interpersonali, gli elementi insopportabili delle scelte altrui, le sfumature su cui molti non si soffermano per pigrizia mentale e morale. Al di là delle “larussate” sul 25 aprile, su via Rasella e sulla presunta assenza del termine “antifascismo” (o meglio, del suo significato ideologico) nella Costituzione Italiana, questo film del regista romano rimette in moto la voglia non dico di “fare politica” ma almeno di interessarsi a essa dopo un’epoca di governi multicolori e quindi amorfi, appiattiti dal punto di vista partitico, e trasformati in un “circo” mediatico senza sostanza. Ma il Nulla che tutto semplifica, persiste ancora nelle cose amate dal protagonista Giovanni: persino la violenza, nelle scene di un certo cinema contemporaneo, è stata semplificata, predigerita, de-estetizzata dalle esigenze del marketing “netflixiano”. Nelle trame dei film (anche in quelli concepiti per illustrare la storia politica), l’amore, ovvero l’individualismo, vuole a tutti i costi prevalere sulla politica, scavalcando i copioni e le rigide direttive del regista; c’è bisogno di stupire e non di far pensare: persino gli oggetti del nostro presente invadono prepotentemente la scena storica riprodotta sul set; il ricordo politico di un’epoca è costantemente minacciato dalla modernità.

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“Crimes of the Future”: tra nuovi vizi e nuove carni

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Ritmo lento, film a tratti soporifero, trama non articolata e scene ridotte all’osso, azione quasi inesistente… Ma si tratta del nuovo, atteso capolavoro del maestro del genere body horror David Cronenberg e quindi un suo perché il film “Crimes of the Future” ce l’ha, deve avercelo, ed è forte nel suo essere semplice e contorto allo stesso tempo. La specie umana sta evolvendo, in cosa precisamente è difficile da stabilire, se non attraverso gli strumenti immaginifici della fantascienza: nuove funzionalità, nuovi organi non previsti – quasi sempre tumori solidi – crescono nel corpo di alcuni esseri umani – come accade al protagonista Saul Tenser (Viggo Mortensen) -, forse indotti a formarsi da un subconscio che materializza istinti repressi e desideri o più probabilmente a causa di inquinamento e scelte ecologiche scellerate compiute da un’umanità segnata, ridotta di numero e impoverita.

L’asportazione di questi “ospiti” organici diventa pubblica performance artistica ad opera della bella Caprice (Léa Seydoux), ex chirurgo prestato all’arte concettuale; l’autopsia in vitam, un ricercato gesto artistico eseguibile da pochi per la soddisfazione collettiva; l’autolesionismo è erotico e le ferite di un bisturi sono come pennellate d’artista: l’uomo ha imparato a giocare col proprio organismo, le proprie malattie e di conseguenza con le proprie emozioni. Come chiaramente si afferma nel film: “la chirurgia è il nuovo sesso!”. Avendo azzerato nel corso degli anni ogni forma di dolore (la sovraesposizione informativa e il consumo di massa di arte e cultura ci renderanno insensibili?), l’umanità così anestetizzata deve ora cercare nuove soglie di piacere da condividere in un amplesso sociale, esplorare nuovi confini corporali da oltrepassare, assaporare nuove sfide evolutive delimitate da un labile confine legislativo… Ma non tutti sono disposti ad accettare queste mutazioni: all’inizio del film una madre uccide, soffocandolo con un cuscino, il proprio figlio ghiotto di plastica perché non riesce ad accettare questa sua “mostruosità alimentare”. Forse un riferimento alla nostra convivenza forzata con plastica e microplastiche che stanno di fatto inquinando terra e oceani, e a un nostro possibile futuro da plasticofagi? Già oggi un certo mercato alimentare propone raccapriccianti “alternative proteiche”!

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“ESTERNO NOTTE, parte 1” di Marco Bellocchio

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Marco Bellocchio decide di riprendere il discorso su Moro partendo dalla fine di “Buongiorno, notte”, da un’ucronia tenera e al tempo stesso lacerante, riguardante un ipotetico Moro liberato dalle BR e ricoverato in un ospedale blindatissimo dopo i drammaticamente noti 55 giorni di prigionia: al suo capezzale, angosciati e fintamente sbigottiti per non tradire la preoccupazione per un fastidioso esito non previsto, il trio Zaccagnini, Andreotti, Cossiga. La risposta alla loro presenza sul viso provato di Moro – stavolta redivivo grazie alla straordinaria interpretazione di Fabrizio Gifuni – è una lacrima di forte delusione per quella “fermezza” dietro cui nascondere l’esigenza necessariamente “storica” di sbarazzarsi di uno scomodo segretario di partito: i “compromessi” e le cosiddette “ragion di stato” sono entrambi fatti storici, ma alla fine vince sempre il fatto storico che, al di là dell’idealismo più che dell’ideologia, ha forti ramificazioni negli sporchi e insondabili meccanismi della sopravvivenza politica. Se in “Buongiorno, notte” Roberto Herlitzka interpreta un Moro che sulle proprie gambe – accompagnato dalle note di “Shine on you crazy diamond” dei Pink Floyd – abbandona con una certa baldanza, come in un sogno mai divenuto realtà, il covo delle BR, il Moro di Gifuni è sofferente, reale, possibile; il sogno dell’altro Moro liberato, che avvolto nel suo cappotto gira tra le strade di Roma in cerca della via verso casa, lascia il posto al Moro debilitato ma concreto, avvilito, disincantato e sconfitto dall’interno.

Bellocchio è innamorato di questa ipotesi, e ci ritorna su: cosa sarebbe avvenuto in Italia se…? E continua a fantasticarci sopra, a immaginare scenari politici, umani, personali e nazionali: quasi come a volersi vendicare al posto di Moro, grazie alla fantasia che tutto può, di una storia infame fatta di immobilismo, di una serie di scelte scellerate, di non azioni vigliacche dettate dalla finta linea della non trattativa.

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In “Esterno notte, parte 1” ancora non è possibile gustare le conseguenze immaginate del “ritorno di Moro” perché il racconto devia subito verso i giorni reali precedenti al sequestro in Via Fani, se ne analizzano le temperature sociali e familiari, le atmosfere politiche e religiose, per ribadire il concetto di un “Moro contro tutti”, premessa di un finale nell’aria che considerare “scontato” con il senno di poi sarebbe ingiusto e presuntuoso. Scontato no, ma ipotizzabile e da ipotizzare da chi di dovere, sì! Moro credeva nel “compromesso storico”, a differenza del Papa e del suo stesso partito (o di alcune parti di questo, quelle più intransigenti e manifestamente anticomuniste); Moro fu un domatore di venti durante una tempesta invisibile: i comunisti extraparlamentari non furono più severi delle correnti contrarie al compromesso all’interno della Democrazia Cristiana. Tra realtà e fantasia, il cilicio che nel film Papa Paolo VI vuole indossare subito dopo la notizia del sequestro, rappresenta la penitenza da offrire al Supremo in cambio della liberazione dell’adorato Aldo o la punizione per i cattivi pensieri fatti nei confronti di un segretario di partito che con la scelta politica del compromesso con i comunisti avrebbe confuso le menti e i cuori dei fedeli cristiani sparsi per il mondo? Il film è diviso in capitoli, dedicati a ognuno dei personaggi politici e religiosi protagonisti di una vicenda politica e umana che segnò il passaggio definitivo (già cominciato con le prime stragi) verso l’età del disincanto della “giovane” Repubblica Italiana: come è nello stile del Bellocchio de “L’ora di religione”, la Chiesa e lo stesso Pontefice – nonostante lo sforzo del regista di semplicemente “raccontare” – appaiono surreali, appartenenti a una dimensione spazio-temporale che agli occhi di un ateo sembra assurda nel suo essere invece drammaticamente reale: il cumulo di banconote sul tavolo della stanza papale (“raccolte” per liberare Moro) e ricoperte da un drappo perché considerate “sterco del demonio” e quindi da tenere lontane dalla vista, è la rappresentazione di un mondo secolare, secolarizzato e bipolare che pur relazionandosi col divino “per il bene di tutti”, deve avere a che fare con le cose (sporche) della società in cui operano, anche politicamente, i suoi fedeli. Bellocchio ama calcare la mano sulla rappresentazione grottesca di una Chiesa apparentemente fuori dal mondo ma di fatto immersa nella sporcizia dell’umanità.

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Stesso destino per la classe politica. Il regista ha gioco facile con “quella” politica, di quell’epoca ormai storica; politici che se confrontati con i personaggi inconsistenti della politica odierna (sfornati dai talent show del populismo e dell’approssimazione), sembrano giganti, statisti puri e da rimpiangere, uomini seriamente votati alla causa della “res publica”. Vedere questo film al cinema nei giorni in cui si consuma la prevedibile beatificazione laica di Ciriaco De Mita all’indomani della sua morte, ha un suo profondo e significativo “perché”! Furono politici di razza, possenti, immortali e non solo politicamente, tenaci come piante rampicanti attaccate ai muri del tempo e del decisionismo, aggrappati a poteri forse oggi impensabili, a meccanismi che la fluidità umana e ideologica dei nostri tempi non saprebbe concepire. Tuttavia Cossiga ne esce fortemente ridicolizzato, e non potrebbe essere altrimenti con lo sguardo dissacrante e umanizzante di Bellocchio: è un uomo fallito dal punto di vista familiare (“inesistente” per la moglie), di successo ma costantemente insicuro e impaurito, bisognoso di un conforto (e di un confronto) proveniente da esponenti di servizi segreti stranieri presenti sul territorio italiano come se fossero turisti, disorientato dal punto di vista decisionale come lo fu l’intera classe politica italiana durante quei terribili giorni. Un politico-bambino, che affoga il bisogno impotente di salvare l’amico Aldo (riconosciuto come padre e mentore dal politico sardo) nella passione radioamatoriale per l’esterno, per una voce proveniente da fuori, in grado di sottrarlo al peso insopportabile del suo ministero. Un Cossiga fissato, dissociato, paranoico, ossessionato dal futile, dai particolari insignificanti e dal fantasma ante mortem di Moro.

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“Soylent Green”: dal romanzo al film…

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Ho avuto modo recentemente di fare un confronto “a caldo” tra un più o meno famoso romanzo di fantascienza e la sua riduzione cinematografica: trattasi di “Largo! Largo!” dell’autore statunitense Harry Harrison (titolo originale: “Make room! Make room!” del 1966) e del film, con Charlton Heston, “2022: i sopravvissuti” (titolo originale: “Soylent Green” del 1973). Mai come in questo caso mi sento di affermare che “il film ha salvato il racconto!”. Infatti, profonde e significative sono le differenze e le omissioni tra i due prodotti; variazioni che – ma è un mio personalissimo e quindi discutibile parere – premiano di gran lunga la trasposizione filmica, secondo me più ricca di elementi di discussione e dotata di obiettivi ben definiti. O, forse, questo è quel che accade a chi legge una storia dopo averne assimilato l’immaginario attraverso la sua traduzione su pellicola. Fatto sta che, alla fine del romanzo, inevitabilmente si resta a bocca asciutta ripensando alle sequenze del film, come se si attendesse un seguito narrativo che non arriverà mai. In questo caso parlare di “riduzione” cinematografica è riduttivo (perdonate il gioco di parole!): grazie al film diretto da Richard Fleischer la storia raccontata su carta da Harrison viene ampliata, arricchita, sviluppata come avrebbe meritato, oserei dire migliorata; i messaggi scientifici e fantascientifici del romanzo giungono a maturazione, si completano in maniera organica e acquisiscono una funzionalità che ha un senso compiuto.

In confronto al film, nel romanzo molti punti a mio avviso nevralgici sono semplicemente assenti, quando non addirittura stravolti: “Sol”, l’anziano coinquilino del protagonista Andy Rusch, muore di polmonite nel letto di casa, mentre nel film – scoperto il terribile segreto legato al Soylent Green – sceglie di suicidarsi presso il Tempio come previsto e consentito da una legge di Stato. La scena del suicidio assistito del vecchio Solomon Kahn (nel film si chiama “Sol” Roth), da sola, vale quanto l’intero film: l’intensità del momento è sottolineata da un felice connubio tra musica classica e immagini commuoventi tratte da un mondo naturale ormai estinto a causa delle scelte distruttive dell’essere umano. Alla base di questa “scelta legalizzata” di morte vi è indirettamente il gravoso problema della sovrappopolazione; l’esclamazione “largo! largo!” contenuta nel titolo italiano del romanzo esprime tutta l’urgenza della ricerca di un nuovo “spazio vitale” di nazistica memoria, stavolta ottenuto in maniera volontaria, pacifica e senza occupare altri territori, disumanamente spontanea, come dignitosa scelta esistenziale dell’individuo introdotta sul “libero mercato” di una vita che non è più vita. Un atto finale di generosità nei confronti di un’umanità accalcata: mettersi da parte, “fare spazio”, consegnarsi nelle mani dello Stato per farsi fuori, senza traumi, dolcemente, legalmente, assistiti con cura e amore fino all’ultimo respiro, tra il plauso dei governanti che sentitamente ringraziano. È quasi impossibile non cogliere un’analogia con le recenti evoluzioni legislative in materia di “suicidio assistito”: nel nostro presente, però, i moventi sono la pietas nei confronti di malati psicofisici considerati inguaribili dalla medicina e il conseguente diritto a una sacrosanta autodeterminazione esistenziale che esula da qualsivoglia “capriccio suicidario”. Restano, tuttavia, innumerevoli domande sul futuro evolutivo di una simile “apertura”, sulle possibili errate reinterpretazioni legislative che potrebbero verificarsi e che porterebbero inevitabilmente a un “alleggerimento” delle motivazioni e delle modalità applicative di questa “exit strategy” esistenziale.

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“È stata la mano di Dio” su Pangea.news

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Il mio articolo Su “È stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino (già pubblicato su questo blog, qui) è stato riproposto su Pangearivista avventuriera di cultura e idee, “una delle migliori rassegne culturali in Italia”, curata dal giornalista, poeta, scrittore e critico letterario Davide Brullo e che da sempre pubblica articoli interessanti e culturalmente stimolanti.

Per leggere l’articolo: QUI!

Su “È stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino

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“La realtà è scadente”

(Fabietto)

Al di là dell’autobiografismo “in ritardo” – anche se c’è sempre qualcosa di personale persino in film la cui trama è all’apparenza lontana dal privato del regista -, È stata la mano di Dio” di Sorrentino è una bella elegia filmica sulla nascita di una scelta artistica: la propria.

“Ce l’hai una cosa da raccontare?” la domanda cardine del film. E cos’è che ti spinge o ti spingerà a raccontarla attraverso la cinepresa (o un romanzo, ricordando il più recente Sorrentino romanziere)? Basta il “dolore”, quest’entità ispiratrice non ben definita e di fatto non definibile, per scegliere di trasporre l’esistenza reale che non ci piace sotto forma di riduzione cinematografica? Se non ci fosse stato l’evento luttuoso, l’impeto sarebbe stato lo stesso? Quella idea embrionale di “fare il regista di film” avrebbe sostenuto le distanze? Forse sì ma in maniera diversa: non lo sapremo mai. Ed è giusto non saperlo perché le esistenze non si basano sui “se fosse” ma su ciò che appare concretamente davanti agli occhi, in questo caso, dello spettatore. L’idea abbozzata e maldestra, come il primo sesso fatto con l’anziana vicina di casa che fa da “nave-scuola”, per realizzarsi avrà bisogno di ben altre esperienze, di vero sesso con ragazze desiderate, di gambe che hanno voglia di andare, di esistenza da macinare altrove. Di fede: come quella nel “munaciello” e in una zia che si fa passare per pazza gabbando una realtà scomoda e violenta; di fede in cose di cui vergognarsi, lontanissime, non credute possibili dagli altri (e forse anche da sé stessi), come il voler fare cinema. Fantasticherie giovanili che pian piano diventano esigenze esistenziali, modi vitali per tradurre il reale amaro in qualcos’altro.

Il dolore non è completo se non è abbinato al comico che nasce anche nei momenti più tragici: passare dalla disperazione alla risata è la commedia della vita che può ispirare un film, una storia da scrivere, una musica; è il vissuto sublimato in arte.

I familiari e i parenti – proprio come la città di Napoli che basa la sua bellezza su un’atavica contraddizione che non può essere compresa e accettata da tutti, se non viene vissuta e metabolizzata – sono al tempo stesso spassosi e drammatici: la quotidianità è un continuo e sorprendente psicodramma da cui trarre impulso creativo.

La propria materia umana è ancora, giustamente, acerba, non modellata, imbevuta di indecisione: anche imparare a piangere diventa una conquista interiore importantissima e interessante. Fino a quando ci si potrà isolare dal mondo nascondendosi sotto le cuffie di un inseparabile walkman? Si diventa curiosi sperimentatori di sé stessi e del mondo circostante: il dolore apre canali sensoriali ed emotivi straordinari, sprona sensibilità che in seguito serviranno a penetrare in modo originale e non convenzionale in quell’umanità ridotta in pellicola. C’è sete di vita e di libertà: anche dall’amicizia con un malavitoso, poco raccomandabile in base a un buonsenso comune, si attinge a piene mani e sospendendo il giudizio; la conoscenza diretta della realtà, quella che brucia sulla pelle scarificata dalla sofferenza, prevale sulla morale e soprattutto sul moralismo. Il dolore permette all’uomo sensibile di continuare a stupirsi e a considerare il “mistero” lì dove le persone appagate e asintomatiche non vedono nient’altro che una stanca realtà.

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Gli angeli di Périer e Wenders, su Pangea.news

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Il mio articolo “Il passaggio degli angeli”, dal romanzo di Périer ai film di Wenders (già pubblicato su questo blog, qui) è stato riproposto su Pangearivista avventuriera di cultura e idee, “una delle migliori rassegne culturali in Italia”, curata dal giornalista, poeta, scrittore e critico letterario Davide Brullo e che da sempre pubblica articoli interessanti e culturalmente stimolanti.

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“Il passaggio degli angeli”, dal romanzo di Périer ai film di Wenders

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“… Ma questi miracoli in pieno giorno
Solo in poesia possono ancora stupire…”
(Il passaggio degli angeli – Capitolo XIII)

C’è un libro dietro gli angeli berlinesi del regista Wim Wenders, immortalati nei film “Il cielo sopra Berlino” (1987) e “Così lontano così vicino” (1993): il titolo è “Il passaggio degli angeli” (Le Passage des anges), romanzo del 1926 scritto dal belga francofono Odilon-Jean Périer; anche se definirlo romanzo è limitativo: si tratta infatti di prosa poetica in salsa — direbbero, forse, gli appassionati del genere — urban fantasy, la cui architettura ricorda, è vero, il racconto lungo, interrotto di tanto in tanto da versi a corredo di un’atmosfera “magica” e gravida di eventi, ma che dalle regole del romanzo si svincola con maestria fin dalle prime pagine. Périer, prima di ogni altra cosa, è un poeta surrealista, cercatore di una purezza angelica oltre le umane imperfezioni. La città descritta in questo romanzo breve è una città in perenne attesa di una svolta: “Attendono tutti un temporale, una soluzione.” Il tono è sibillino, imprevedibile, istintivo, come se fossero gli occhi del poeta a scrivere direttamente su carta e non la sua mente. È la storia sovrannaturale e bizzarra di tre angeli — Alpha, Michel e Misère — scesi in una città senza nome (perché la storia è adattabile a tutte le città passeggiate dai poeti, prim’ancora che alla Bruxelles di Périer) a osservare la vita insignificante e assurda degli umani: “Infine apparvero gli Stranieri. […] Tutti avevano visto degli angeli, ma nessuno credeva agli occhi del vicino. Quei personaggi misteriosi si presentavano con naturalezza, come degli amici che si ritrovano nel momento del bisogno. Se ne stavano in piedi sugli alberi, seduti sui bordi dei tetti, in fila, senz’ali, magri, decenti, vestiti di grigio perla o d’azzurro. […] Chi li aveva incontrati […] parlava di poesia, di amore, di libertà.” Solo i forti e i filosofi troppo saggi non li vedono, mentre “Tutte le ragazze avevano già il loro angelo, amico intimo.”

Odilon-Jean Périer
Odilon-Jean Périer

Le città da sempre hanno bisogno di miracoli: “Miracolo a Milano” (1951) di Vittorio De Sica, Il miracolo della 34ª strada” (1947) di George Seaton… C’è bisogno di interrompere il dominio asfissiante della ragione e del positivo, per dare spazio — sospendendo momentaneamente l’incredulità — al meraviglioso, al surreale, al sovrannaturale, all’incredibile possibilità di una visione dall’alto. Ma gli angeli di Périer, al contrario, si lasciano miracolare, si calano nell’umanità, assecondando la Legge Marziale degli spiriti solidi, perdendo ben presto la loro divinità; non è una sconfitta, un difensivo lathe biosas epicureo o un mimetizzarsi per timidezza (“dei veri angeli non hanno bisogno dell’aureola”), bensì è il prezzo dello scambio: “degli angeli non scendono sulla terra senz’apportarvi dell’incertezza”, senza alterare gli schemi delle umane sicurezze e dei poteri; in cambio imparano tutto o quasi sui pregi e difetti della specie ospitante (“C’è molto da fare, molto da sperimentare, qui… […] Ci è permesso d’esaminare da vicino le loro gioie, le loro cerimonie.”), diluendosi in essa, innamorandosi, ascoltando le domande e i desideri del mondo, simulando una vittoria dei filosofi saggi e dei realisti che amano il buon senso, il visibile e la scienza: “Non pensavano più in alcun modo a volar via. Molti di loro avevano messo su un po’ di pancia…”.

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I tre angeli sperimentano l’amore e il piacere (“Michel, con le lacrime agli occhi, dovette arrendersi a quell’amore terrestre”; mentre Misère conosce Christine Ègalité, la fanciulla armata del Circo Jacques: anche ne “Il cielo sopra Berlino” di Wenders c’è una ragazza, Marion, che lavora nel circo ma è una trapezista che indossa finte ali d’angelo), la sensualità e la bellezza, la violenza che lascia cicatrici, gli scrupoli e la perdizione, la vita coniugale e la carnalità occasionale, la libertà e il disprezzo per la saggezza dei vecchi, la religiosità morbosa e l’idolatria (le strutture sociali e culturali della nazione si allineano alla religione ufficiale e al Maestro di turno), l’ebbrezza del consenso popolare, il possesso e la gelosia, la pressione dei doveri di un soldato, la noia e il dolce far niente (“aveva il tempo di cogliere con agio la vita terrestre, ammirando le vetrine, inseguendo le ragazze, toccando ogni cosa”). Il futile e la bassezza morale: per dimenticare di provenire dal cielo e avere la sicurezza, una volta per tutte, di essere diventati uomini. Lo scopo di questa full immersion nell’umanità è quello di salvarla dall’inerzia, dalla codardia e dalla cauta disperazione, dagli “artifici della gentilezza e del linguaggio”: “Uomini! Ci sono delle cose da fare nella vita di un uomo, e voi rapidamente vi decidete a dormire, senza indugi: ah, come rinunciate senza pena al vostro bel potere…”. La bellezza dell’esistere prevale su ogni falsa religione: solo la poesia può farsi garante di questa bellezza. Non mancano i dubbi e un senso di straniamento: “Che cosa siamo venuti a fare qui? […] Un bel mattino ci troviamo in piedi tra delle strane bestie, graziose e folli, seducenti. Perché noi tre, tra tutti gli angeli?”. Il romanzo fantasioso e magico di Périer diventa filosofico (anche se l’Autore ci avverte che il suo scritto non ha motivazioni profonde, obiettivi edificanti o simboli da cercare): forse per comprendere il senso del nostro esistere qui e in questo modo, per riconquistare le ragioni del nostro esserci, bisogna diventare, o almeno sentirsi, un po’ come degli angeli calati per caso in una realtà aliena e riuscire a stupirsi (“Vedo la città in cui abito; com’è strana…”) anche delle cose più scontate, a riscoprire e quindi riscoprirsi, a sperimentare con una curiosità primordiale; stupore e curiosità fanciullesca che nel primo film “angelico” di Wenders sono ben rappresentate dalle parole di una poesia di Peter Handke, (contestato) Premio Nobel per la letteratura nel 2019 e collaboratore ai testi del regista, intitolata “Elogio dell’infanzia” (Lied vom Kindsein) e che del film ne costituisce la filigrana (una sorta di poesia-copione) su cui si innestano le immagini di un regista istintivo e privo di un piano ben preciso:

“… Quando il bambino era bambino,
era l’epoca di queste domande:
perché io sono io, e perché non sei tu?
perché sono qui, e perché non sono lì?
quando comincia il tempo, e dove finisce lo spazio?
la vita sotto il sole è forse solo un sogno?
non è solo l’apparenza di un mondo davanti al mondo
quello che vedo, sento e odoro?
c’è veramente il male e gente
veramente cattiva?
come può essere che io, che sono io,
non c’ero prima di diventare,
e che, una volta, io, che sono io,
non sarò più quello che sono?…”

Ma non tutti ce la fanno a riprendere il candore delle domande ancestrali, neanche tra gli angeli: c’è chi “vuole inebriarsi della stupidità del mondo”, chi si dà alla politica, chi si illude con un’attività senza rischi come il cinema che simula la vita vera (“… nulla è più buffo del fatto di vedere gli uomini evolvere in funzione dei sogni che gli si attribuiscono.”)… Si cerca di capire se abbiamo perso la nostra originalità: “Sono ancora l’angelo che ero?”. Forse gli esseri umani sono tutti angeli caduti in terra e divenuti immemori della propria spiritualità. Per agire sulla Storia bisogna fare delle scelte, manifestarsi, perché “… l’errore è di restare un angelo tra queste persone. Tutto è facile, — per me solo. Ma se mi occupassi della gente? Se tentassi d’animare uno dei tanti imbecilli… […] Scopro le vie deserte della mia città. […] Domani comincerò ad agire sugli uomini.” Occuparsi di Politica, scegliere l’anarchia anche se un po’ fuori moda: l’astensionismo e l’antipolitica per giungere, paradossalmente, al vero senso dell’uomo politico che non delega, libero ma in prima linea. Forse alla fine il vero miracolo è ritornare a vedere la bellezza naturale delle cose e della realtà con occhi umani: “Chi ha mai creduto ai miracoli? Non accade nulla. È la mezzanotte di una giornata come le altre…”.

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“Elogio dell’infanzia”, di Peter Handke

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Elogio dell’infanzia

Quando il bambino era bambino,
camminava con le braccia ciondoloni,
voleva che il ruscello fosse un fiume,
il fiume un torrente
e questa pozzanghera il mare.

Quando il bambino era bambino,
non sapeva di essere un bambino,
per lui tutto aveva un’anima
e tutte le anime erano un tutt’uno.

Quando il bambino era bambino
non aveva opinioni su nulla,
non aveva abitudini,
sedeva spesso con le gambe incrociate,
e di colpo si metteva a correre,
aveva un vortice tra i capelli
e non faceva facce da fotografo.

Quando il bambino era bambino,
era l’epoca di queste domande:
perché io sono io, e perché non sei tu?
perché sono qui, e perché non sono lì?
quando comincia il tempo, e dove finisce lo spazio?
la vita sotto il sole è forse solo un sogno?
non è solo l’apparenza di un mondo davanti al mondo
quello che vedo, sento e odoro?
c’è veramente il male e gente veramente cattiva?
come può essere che io, che sono io,
non c’ero prima di diventare,
e che, una volta, io, che sono io,
non sarò più quello che sono?

Quando il bambino era bambino,
si strozzava con gli spinaci, i piselli, il riso al latte,
e con il cavolfiore bollito,
e adesso mangia tutto questo, e non solo per necessità.

Quando il bambino era bambino,
una volta si svegliò in un letto sconosciuto,
e adesso questo gli succede sempre.
Molte persone gli sembravano belle,
e adesso questo gli succede solo in qualche raro caso di fortuna.

Si immaginava chiaramente il Paradiso,
e adesso riesce appena a sospettarlo,
non riusciva a immaginarsi il nulla,
e oggi trema alla sua idea.

Quando il bambino era bambino,
giocava con entusiasmo,
e, adesso, è tutto immerso nella cosa come allora,
soltanto quando questa cosa è il suo lavoro.

Quando il bambino era bambino,
per nutrirsi gli bastavano pane e mela,
ed è ancora così.

Quando il bambino era bambino,
le bacche gli cadevano in mano come solo le bacche sanno cadere,
ed è ancora così,
le noci fresche gli raspavano la lingua,
ed è ancora così,
a ogni monte,
sentiva nostalgia per una montagna ancora più alta,
e in ogni città,
sentiva nostalgia per una città ancora più grande,
ed è ancora così,
sulla cima di un albero prendeva le ciliegie tutto euforico,
com’è ancora oggi,
aveva timore davanti a ogni estraneo,
e continua ad averlo,
aspettava la prima neve,
e continua ad aspettarla.

Quando il bambino era bambino,
lanciava contro l’albero un bastone come fosse una lancia,
che ancora continua a vibrare.

(immagine dal film Il cielo sopra Berlino, Wim Wenders, 1987)

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S. Francesco: da Zeffirelli alla Cavani, su Pangea.news

san francesco pangea

Il mio articolo “San Francesco d’Assisi: da Zeffirelli alla Cavani” (già pubblicato su questo blog, qui) è stato riproposto su Pangearivista avventuriera di cultura e idee, “una delle migliori rassegne culturali in Italia”, curata dal giornalista, poeta, scrittore e critico letterario Davide Brullo e che da sempre pubblica articoli interessanti e culturalmente stimolanti.

Per leggere l’articolo: QUI!