L’insostenibile pesantezza dell’essere (multitasking)

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L’INSOSTENIBILE PESANTEZZA DELL’ESSERE (MULTITASKING)

Elogio delle urgenze

(Riflessioni messe in ordine durante una camminata veloce)

1) La vita è inevitabilmente “multitasking”; in questa nostra particolare era storica, poi, lo è ancora di più a causa di un progresso del cosiddetto “problem solving” – niente a che vedere con l’approccio epistemologico di Popper nella sua opera finale intitolata “Tutta la vita è risolvere problemi” – che porta l’utente nel giro di poche ore a “risolvere e re-impegnarsi” senza sosta (re-engagement), come il topolino che gira nella sua ruota, ovvero a mettere da parte un problema risolto per passare a quello successivo ancora da risolvere e se non c’è un problema a inventarsene uno nuovo dal nulla perché il multitasking aborrisce il vuoto, il non fare, l’ozio creativo. Deve tenersi occupato, in eterno allenamento per dare senso (o meglio, un “certo tipo” di senso) ai giorni dell’uomo del terzo millennio. Ma il fare non sempre è sinonimo di creare, anzi: il fare compulsivo distrae dalla vera creazione solida, permanente, meditata. L’elenco degli impegni da depennare contro la settimana di Dio descritta nella Genesi. Chi vincerà stavolta?

Il problema principale con il multitasking – proprio in virtù della sua caratteristica di “contemporaneità” delle azioni – è che sono state abolite le priorità tra livelli (anche nel medioevo l’uomo era multitasking nonostante una certa specializzazione corporativistica; bisognava essere in grado di spostarsi su livelli differenti di azione e questa capacità era soprattutto dettata dal ceto sociale a cui si apparteneva e quindi dalle disponibilità economiche): oggi che l’intera umanità è in gara per una vittoria sicura – perché così gli hanno promesso e l’umanità c’ha creduto! – tutti i livelli del multitasking sono al primo posto e quindi tutti sono diventati importanti anche se molti tra questi non lo sono affatto; una voce dentro di noi sa che non tutti i livelli hanno la stessa importanza e ce lo urla, ma noi ci giriamo dall’altra parte, diamo retta solo al programma che “processa” tutto contemporaneamente, e superiamo il suono di quella voce con altri rumori creati all’uopo per non farle acquisire udibilità. Tutto deve essere risolto, il fare viene prima dell’essere, del pensare, eventualmente del rimandare a un secondo momento. Durante un funerale, mentre passa il feretro, ci scopriamo a parlare di questioni condominiali con i vicini: la morte viene misurata in millesimi e le faccende terrene non ammutoliscono nemmeno dinanzi al sacro mistero della vita che finisce, e che esigerebbe silenzio e inattività riflessiva.

2) Non tutti i livelli di questa esistenza multitasking sono piacevoli: alcuni devono essere affrontati “obtorto collo” e le questioni fastidiose, le vicende tristi, gli impegni presi, vanno risolti con una razionalità quasi automatica, d’ufficio, che a lungo andare ci rende “robotici”, veloci, efficienti, produttivi. Anche la malattia ha un suo iter diagnostico supercollaudato ed efficientissimo: i vari passaggi fanno parte di un’esperienza scientifica acquisita che è diventata routinaria, scontata, istituzionale. Il progresso medico che alcuni decenni fa stupiva i primi fortunati, oggi è vissuto in una quotidianità che non sorprende più. Anche se la strada da fare per sconfiggere molte altre malattie, e per renderle affrontabili da tutti indipendentemente dal ceto sociale o dal reddito, è ancora lunga. Ma l’approccio alla possibilità di una guarigione è diventato accessibile, sistemico.

3) Per non morire dentro e salvaguardare la parte di noi non pubblica, non indaffarata, quella più intima, vera, autentica, immobile, dopo aver affrontato i vari livelli che il quotidiano ci costringe ad affrontare, c’è bisogno di sostare per un po’ presso un “livello superiore”, imparziale, non operativo ma contemplativo, che domini sugli altri, inferiori a loro insaputa, di una visione dall’alto che ognuno di noi realizza in base al tipo di ricerca impostata, alla cultura di appartenenza, al grado di sensibilità, oserei dire “di fede”… Un livello superiore strettamente spirituale o laico-filosofico, che dia un senso al nostro multitasking di cui non possiamo fare a meno, e soprattutto ristabilisca le priorità al margine del caos. Priorità che andrebbero di fatto a “smontare” e quindi ad annullare la caratteristica funzionale del multitasking.

4) Collegata ai punti precedenti è l’ormai cronicizzata “mancanza di presente” (un presente certamente non rappresentato dal vortice iper-informativo in cui siamo immersi e che non toglie la sete di attimo). Ci infastidisce il luogo in cui viviamo da anni o nella migliore delle ipotesi lo viviamo con indifferenza, sottovalutandolo, ignorandolo, facendocelo scivolare addosso, non andando mai oltre il facilmente visibile: si considera lo stretto necessario del luogo che chiamiamo ‘casa’ e non cerchiamo, non siamo interessati a conoscere, ad andare a fondo del luogo che ci ospita. È l’assuefazione al quotidiano che non coincide con la conoscenza: ci poniamo nella condizione di conoscere solo quando ci spostiamo per vedere meglio da angolazioni diverse, trasformando il solito in un universo inesplorato e nuovo. A volte basta spostarsi di qualche chilometro, durante un viaggio di pochi giorni, per cominciare ad avvertire un senso di nostalgia del luogo abituale. Ma non si tratta di nostalgia bensì di disagio: nel corso dello spostamento ci accorgiamo di non conoscere quel luogo appena lasciato perché il movimento denuncia, sperimentando i nuovi punti di vista di cui sopra, la nostra ignoranza che avevamo scambiato per conoscenza innata, data per scontata, già presente in noi e bastante a se stessa perché senza confronto. “Sono di lì!” come a voler dire che è assodata la conoscenza; ma l’essere di un posto, credere di appartenervi, non assicura proprio un bel niente. Partendo ammettiamo che avremmo voluto conoscere di più di un luogo; morendo o vedendo morire realizziamo che avremmo potuto conoscerci di più.

Tutto questo accade perché manca la consapevolezza della nostra condizione di passaggio, manca la pratica quotidiana del “qui e ora”, del riscoprirsi in cammino, sì, ma verso la morte, dell’imparare a non sentirsi assuefatti alla vita che equivale a essere già defunti. Porsi domande continue sul come migliorare quel “qui e ora”, cosa aggiungere all’oggi. Essere presenti a se stessi. Anche piccoli elementi immessi nel quotidiano possono virare destini. Non dovremmo attendere di spostarci per valorizzare il territorio, sia quello esterno che quello interiore: bisognerebbe simulare in noi viaggi quotidiani.

5) Il ristabilire le priorità deve essere per forza traumatico? La soglia di reazione al dolore è innalzata dalla frequenza del dolore stesso e questo non gioca a favore di un’evoluzione interiore perché a lungo andare ci si anestetizza alla novità del vissuto quotidiano. La sensibilità diventa selettiva, a volte giustamente “cinica”: non si può dare importanza agli stimoli superflui, alle piccolezze che si sfracellano come moscerini sul parabrezza dell’urgenza. Il nostro dover essere multitasking – “per questioni estetiche e sociali” – è addomesticato dalle urgenze, non per forza di tipo materiale. Anche le urgenze interiori fanno scuola e dettano la classifica delle esperienze a cui dare la precedenza, dei fatti che devono essere memorizzati perché si prevede una loro futura utilità.

versione pdf: L’INSOSTENIBILE PESANTEZZA DELL’ESSERE (MULTITASKING)

“La polvere del branco”, Franco Battiato

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