Call Center, reloaded

versione pdf: “Call Center Reloaded”, di Michele Nigro

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Prefazione

“Call Center, alla ricerca del futuro ibernato”

di Roberto Guerra

Call Center, titolo iconico particolarmente azzeccato, è nato direttamente come libro elettronico (eBook) già alcuni anni fa: in certo senso sembrano passate decadi ma proprio la diversamente breccia temporale ne esalta oggi, nuova edizione e tradizionale cartacea, una certa lungimiranza previsionale.

Se il racconto narra poeticamente l’uomo automatizzato e robotizzato odierno, proprio i famosi Call Center ne testimoniano la quintessenza alla rovescia, esemplificano il paradosso sempre costante della rivoluzione tecnologica: il lavoro liquido estremo e la precarietà ormai generalizzata nella eterna quasi crisi contemporanea hanno nei Call Center, caratterizzati centralmente da tali dinamiche, quasi un perverso Tempio, accettato nella vita quotidiana come se nulla fosse, la normalità come patologia sociale condivisa e quindi non riconosciuta.

Simultaneamente i Call Center  simboleggiano, sempre al contrario, il computer mondo oggi letteralmente ibernato, sia le Macchine sia gli umani.

Come leitmotiv software costante nelle parole dell’autore, certa folle simbiosi strutturale contemporanea, economia-politica-tecnologia, l’attuale turbocapitalismo poco turbo e molto pietrificante come lo sguardo malefico di Medusa, ha degenerato il senso della tecnoscienza, letteralmente ucciso, appunto congelato, il futuro.

Le macchine a quanto pare non sono state inventate per liberare gli umani dal lavoro alienante o i computer per liberare l’Uomo come opera d’arte dal meccanicismo mentale e burotico, ma come sorta di gigantesche slot machine per Usurai 2.0, una assoluta minoranza, burattinai digitali quasi immateriali, come i famigerati Morlock con il popolo degli Eloi in The Time Machine di H.G. Wells, che condizionano o comandano nelle stanze dei bottoni, occidentali o meno.

Nigro si muove in un solco fantadispotico ben noto nell’immaginario scientifico e fantascientifico del Novecento: va da sé che conferma la cosiddetta science fiction, a pari di altri autori, come nuovo diversamente Post Realismo cibernetico; che è peraltro una delle vere news creative nella letteratura contemporanea, dimostrando la provocazione di un certo Marvin Minsky: “La fantascienza è la vera filosofia del nostro tempo”.

E nello specifico di Nigro la filosofia come Psicologia informatica, come ogni gioco sinaptico non lineare, ma transtemporale, come ottimamente si dilatano le pagine e le antitrame menu del libro, con flussi imprevedibili narranti, in una cifra dimensionale passato-presente-futuro, come poi nella Vita Reale, sia imprevedibile che interconnessa, come dissolvenze costanti (per la cronaca, stile prossimo a certa poetica sperimentale e d’avanguardia).

La stessa resilienza del protagonista, nella sua presa di coscienza e ribellione “fredda” all’ibernazione robotizzata e lavorativa, affiora come un puzzle nuovamente alla rovescia, un gioco di incastri a partire da un falso disegno alla partenza da smontare e ricomporre verso un nuovo futuro alternativo e umanizzante assolutamente inedito, senza mappe a priori di riferimento: Nigro è acuto nel far parlare il non detto della letteratura distopico-dispotica, non solo sintomo di certo spirito del tempo apparentemente senza vie d’uscita, ma necessario artificio di discesa nell’inconscio oggi techno, per captare nuovamente un Homme Robot creativo come specchio sinaptico del Corpo sociale.

In pillole, riassumendo e come da incipit, un lavoro narratosofico (non narratologico lineare…) che ha anche anticipato l’ulteriore degrado finanzocratico e nella grande macchina produttiva che ancora di più esige ricette di homme robot non autoalienato ma rebel rebel: oggi si parla di Big Data, Bitcoin e simili, di Algoritmi e Intelligenza Artificiale come registri di sistema per il lavoro 3.0, ma a quanto pare con ancora nuove dissipazioni di risorse tecnoscientifiche.

E visto l’andazzo, come andare su Marte e poi sul più bello dimenticarsi che ci abbiamo inviato delle scimmie con un pallottoliere per errore al posto di astronauti umani con Curiosity, concordiamo con l’autore se abbiamo beninteso: forse solo un vero default della Grande Macchina tecnoeconomica attuale, per istinto di sopravvivenza 2.0, potrebbe generare un nuovo turbocapitalismo non neoluddista, come suicidalmente un certo Green mistificante s’illude di fare, ma finalmente troppo umano o robotico complementare “più umano degli umani”.

 ♦

 

“Call Center – reloaded”

 di Michele Nigro

 

Il lavoratore, in particolar modo quello precario, va educato.

Così come il cucciolo di cane, appena giunto nella sua nuova dimora, deve essere prontamente educato nell’espletamento dei propri bisogni fisiologici in angoli ben precisi provvisti di fogli di vecchi quotidiani conservati all’uopo, allo stesso modo il lavoratore deve capire fin da subito che il suo comportamento non può tendere alla neutralità o alla riflessione (dannosa in ambito produttivo), bensì a un energico entusiasmo decerebrante capace di far ottenere al lavoratore il tanto agognato premio finale. L’allineamento, l’accondiscendenza, l’incondizionato assorbimento delle incontestabili direttive aziendali, la personalità solo abbozzata e mai eclettica, la disponibilità senza “se” e senza “ma”, l’assenza di cultura, la scaltrezza del venditore arabo, il carattere come forma di pressione, il rifiuto di proposte alternative, la repressione del confronto tra individui: questi sono solo alcuni dei cosiddetti “comportamenti premianti” che, se accettati fedelmente dal lavoratore, diventano vere e proprie armi per la conquista del successo aziendale.

Infilo il jack delle cuffie nella presa circolare della scheda audio come un duro, argenteo pene metallico che penetra, lucido ed elettrico, nell’orifizio acustico del mondo. Un filo abbastanza lungo mi concede un’impagabile libertà di movimento fino al muro alle mie spalle tappezzato di grafici colorati e motivanti sulla produttività dello scorso mese. Sono seduto su una comoda sedia girevole provvista di rotelle: divento uno yo-yo umano spingendomi all’indietro e ruotando; il filo è teso tra la mia testa e il computer della postazione. Conosco bene le misure del mio spazio lavorativo: mi fermo un millimetro prima di strappare via il jack. Poi ritorno fedele con le braccia sul tavolo del box dove mi aspettano i pieghevoli che illustrano le caratteristiche patinate dei meravigliosi prodotti da vendere e il decalogo delle cose da dire o da non dire pensati dall’intellighenzia aziendale.

Alcuni minuti prima, abbandonando il corridoio silenzioso nel fabbricato anonimo che ospita l’enorme call center in cui lavoro, mi ero immerso, puntuale come ogni pomeriggio, dal lunedì al sabato, nella chiassosa atmosfera alienante di quel nonluogo, come l’avrebbe definito Marc Augè.

“Buon pomeriggio, sono Marta!”

“Buongiorno, sono Giulio…!”

“Mi scusi se la disturbo, sono Roberta e le telefono perché ci risulta che…!”

“Sono Paola, Emilio, Giuseppe, Serena, Carlo… Sono la soluzione ai tuoi problemi, sono la fortuna che ti piomba in casa, sono la voce che attendevi, la chiave del tuo successo, sono il segreto che i tuoi vicini non vogliono svelarti, la risposta alla tua domanda. Sono la svolta che cercavi, la novità che bussa nel momento giusto, il tuo gentile consigliere pomeridiano, la tua scelta intelligente, sono il tuo assistente spirituale, il tuo miglior amico, sono il Presidente degli Stati Uniti d’America, sono Gesù Cristo, la Madonna. Se vuoi, se questo mi aiuterà a concludere un contratto, posso essere addirittura Dio!”

Lo chiamano ‘lavoro parasubordinato’: come se fosse una malattia infettiva incurabile presa sui confini venerei tra potere economico e popolo, durante un amplesso tra la ricchezza dei pochi e le illusioni delle orde di lavoratori-consumatori ipnotizzati da un benessere irraggiungibile. La mancanza di devozione mi corrode dall’interno; lavorare facendo finta di crederci: questo è il segreto.

Meravigliandomi, per l’ennesima volta, di quel vorticoso pollaio di succulente proposte lanciate nella rete telefonica, avevo raggiunto con passo veloce, attutito dalla moquette blu del pavimento, la mia postazione metamerica – il box numero 103 – e avevo inserito nel computer la password necessaria al conteggio personalizzato delle preziose ore di lavoro. Decine di voci squillanti e teatralmente rassicuranti, intorno a me, riproponevano, intrecciandosi l’un l’altra ma ognuna seguendo miracolosamente un proprio invisibile filo verso la meta contrattuale, un dialogo esistente tra cliente e teleoperatore, e testato dagli psicologi del marketing.

Tramonta il sole triste

d’inizio settembre

sui grigi parcheggi periferici

vuoti d’umanità vagante

tra lucenti vetri di bottiglia

e calme schegge di gioventù.

Sottofondo autostradale

per elettriche note di prova.

Le gru nel cielo rossazzurro

come plettri dolorosi

su anime solitarie

attendono il rock notturno.

Dall’alto, o dal basso, della sua laurea in Scienze Politiche mai usata, il mio vicino di box, inebetito dal turno di mattina che sta per terminare, m’invia un sorriso scialbo sperando in una mia amichevole risposta che l’incoraggi in zona Cesarini: se alla fine di questo mese non raggiungerà il numero di ‘pezzi’ prestabilito dalla Direzione, sarà silurato dai due impiegati gay dell’ufficio del Grande Fratello: meglio conosciuti come i “Dolce&Gabbana dell’Outbound”, Gigi e Lele, oltre a essere i sorridenti e ben vestiti addetti alle buste paga del call center, svolgono egregiamente, e non senza una comprovata dose di sadismo, anche la funzione di selezionatori. “Big Brother is watching you!”: il motto orwelliano che campeggia nel poster del loro ufficio trasformato in nido d’amore, non lascia spazio a dubbi. Compiere ‘carotaggi a campione’ sulla popolazione lavorativa del call center, in cerca di pedine improduttive da licenziare, rappresenta la loro specialità.

Esistono al mondo innumerevoli lavori, tanto assurdi quanto malpagati o con prospettive instabili.

La loro utilità è effimera come l’esistenza di un insetto: adulatori di casalinghe per via telefonica, assistenti all’eiaculazione di tori, livellatori di quadri storti, venditori di connessioni veloci in internet, riciclatori di pile scariche, smazzettatori di risme, salatori di arachidi, rappresentanti di chiodi porta a porta, psico-massaggiatori di piedi per mutilati, controbilanciatori di tubi, assaggiatrici di sperma, venditori di fumo per l’affumicatura dei salumi, sommozzatori di pozzi neri, smistatori di kipple, operatori di clisteri, lucidatori di ossa, collaudatori di giubbotti antiproiettili e bambole gonfiabili, venditori telefonici di righelli, svuotatori di portacenere, allevatori di grilli, mimo per trasmissioni radiofoniche, tester di deodoranti ascellari per uomini, domatori di fenicotteri, commercialisti per bancarelle di mercato, collaudatori di creme emorroidali, occupatori di parcheggi, collaudatori onanisti di profilattici, impacchettatori di regali per negozi, lab rats umani per case farmaceutiche, ricostruttori di reputazioni on line, massaggiatori di cani, buttadentro…

Il sottobosco lavorativo offre una vastissima gamma di occupazioni surreali e facilmente sostituibili: l’assoluta mancanza di diritti e la facile reperibilità di cosiddette ‘risorse umane usa e getta’, come lamette usate poco, infelici ma non ancora pronte a morire, rappresentano l’autentico propellente di quelle aziende che affidano la propria sopravvivenza a una delle carte vincenti della moderna economia: la precarietà del lavoratore.

La molla che fa scattare il meccanismo perverso della precarietà è il bisogno.

“Siamo moscerini schiacciati sul parabrezza di un’economia veloce,” – penso in maniera disincantata – “e che nessuno mai rimpiangerà.” Il tergicristallo della flessibilità ripulisce i luoghi di lavoro in vista di nuovi treni provenienti dalle miniere di kipple sociale, e carichi di una moderna carne da cannone.

Il pleomorfismo occupazionale nasce dal bisogno di soddisfare quelle esigenze primarie di un’esistenza biologica e culturale a cui si intende dare il nome di “Vita”. Gli imprenditori, incoraggiati dall’invenzione vergognosa dei cosiddetti “contratti a progetto”, utilizzano consapevolmente il bisogno così come il contadino adopera la carota appesa a un filo dinanzi agli occhi dell’asino dubbioso: nel tentativo di raggiungere asintoticamente il “premio” ci muoviamo in maniera motivata e muovendoci verso un futuro inesistente trasformiamo l’energia dell’entusiasmo in prodotti, in “oggetti” materiali e immateriali, contribuendo alla produttività generale della grande e benevola famiglia per cui lavoriamo e da cui riceviamo solo ignobili briciole gettate sotto i tavoli di accordi surreali. Noi, formiche e cani in cerca di rimasugli.

Il Supervisore dei box pomeridiani – segmento principale dell’anellide telefonico – dal lembo estremo del call center sbraita qualcosa di minaccioso contro di me. La smetto di giocare allo yo-yo umano e torno con la mia sedia girevole nella posizione standard da allevamento intensivo: rispettare l’interfaccia operatore-monitor è la prima regola per ottenere una concentrazione produttiva. Il sofisticato programma in dotazione all’azienda vomita in automatico nomi, cognomi, indirizzi e numeri telefonici in sequenze apparentemente random: nelle cuffie sentiamo squillare i telefoni degli utenti raggruppati in numero di dieci. Terminato il gruppo dei prescelti dal programma, se nessuno ha risposto, abbiamo la facoltà di attendere un po’ prima di lanciare la nuova sequenza di numeri: ma l’attesa non deve essere né troppo breve, né prolungata, altrimenti quelli del Grande Fratello potrebbero pensare che lavori o troppo e male oppure poco e male.

Siamo batterie umane che forniscono energia al mercato dell’inutile, liberi prigionieri della nuova economia. Siamo le scimmie ammaestrate del telemarketing, legami effimeri tra prodotto e consumatore. Siamo embrioni promozionali immersi nel liquido amniotico del sistema aziendale, in attesa di nascere o di abortire, illudendoci di vivere. Il nostro set cuffia-microfono, come una morsa bizzarra posta sul cranio a presidiare desideri e pensieri, rappresenta l’unico contatto con il mondo esterno, l’unico strumento a nostra disposizione per vendere l’immaterialità a persone che non conosceremo mai.

Mi lascio alle spalle

inganni e mezze verità

mentre spingo

sull’acceleratore malinconico

di sangue e spazzatura.

Angolo squallido di gioia nera

e vuoti cartelloni bianchi

in attesa di colori e occhi.

Quando anche l’ultima

freccia dolente di sole

scomparirà dietro nuove terre,

daremo fuoco al palcoscenico.

Tramonta sole, tramonta!

“Sei nuova?” – oso chiedere a una ragazza fregandomene del coprifuoco aziendale e scavalcando per pochi attimi le barriere antisocializzanti del mio box.

“No, sono qui da tre mesi… Non mi hai mai notata?” – risponde lei ridacchiando e credendo a uno scherzo che precede la pausa caffè. L’assecondo con un tempismo teatrale.

“Ma certo, scherzavo! Sei l’amica di Paola…” – tento di riprendere quota giocandomi la carta dell’operatrice più anziana del call center. Fingo: in realtà non so chi sia questa ragazza che dice di lavorare qui da tre mesi. Mi va statisticamente bene. Lei ci crede: è sul serio un’amica di Paola e annuisce sorridendo. L’azienda sta facendo un ottimo lavoro su di noi. E su di me.

Spontanei agglomerati umani

in cerca di energia sonora

mi ricordano solitudini

e viaggi per un solo passeggero.

Ci illudiamo di essere centro

ma siamo sempre alla periferia

di noi stessi

e dei nostri sogni.

I tempi dell’azienda non coincidono con i tempi del lavoratore. Caso mai vale il contrario: è il lavoratore che, sopprimendo ogni forma di velleità individualista, deve sincronizzare la propria esistenza interiore e fisica con i tempi della Produzione. I tempi formativi, la crescita individuale, la riflessione applicata al miglioramento delle mansioni, la partecipazione attiva al proprio progetto lavorativo, l’autogestione matura del proprio contributo produttivo, sono elementi superati in determinati contesti aziendali dove è più facile applicare un rapido ricambio del personale. Da qui la sensazione di estraniazione applicata al mondo del lavoro: il lavoratore diventa una rondella sostituibile. Niente di più. L’elogio della lentezza è caduto in disuso. L’individuo è morto.

Insicurezza, disagio, umiliazione ‘incentivante’, precarietà, sottomissione e futuro incerto: anche “l’ora d’aria” per il pranzo e le pause per andare a pisciare diventano indicatori di prestazione. Sono l’insignificante rotella dentata di un meccanismo che schiaccia in maniera incruenta la dignità dell’individuo.

“Questo lavoro non appartiene alla mia cultura!” – riesco finalmente a dire quasi ad alta voce, con mia grande sorpresa dopo mesi di veleno ingoiato, mentre tiro lo sciacquone. Esco dal cesso con uno strano sorriso stampato sulla faccia e incontro, vicino alla macchina automatica del caffè, un collega antipatico con cui non ho mai legato. Penso che questo ambiente sia ottimale per mettere gli uni contro gli altri: una stupida competizione per essere vincenti, per superare e quindi superarsi. Sono prigioniero di falsi ideali produttivi. Mi svezzo da solo, mi libero dal dominio delle cuffie. Decido di sorridergli per dare vita a una contro-programmazione aziendale, per cominciare la mia rivoluzione clandestina, per abbandonare la logica dei grafici e quella disumana del rapporto tra ore di lavoro e produttività, per imparare ad amare la precarietà. L’ho spiazzato: il collega antipatico fugge via senza rispondere al sorriso, insospettito.

L’azienda è come una religione di stato: il lavoratore fedele è uno di quei pochi fortunati che ha ricevuto il dono del lavoro da parte del suo dio industriale. Se il lavoratore ha fede non può porsi, per definizione, troppe domande nei confronti del suo dio e deve accettare i dogmi aziendali. Il dubbio, la perplessità, il pensiero alternativo, la coscienza, sono fattori controproducenti. Non bisogna pensare troppo… Ci devi credere! E basta.

Da un periodo a questa parte i tentativi di spersonalizzazione attuati dalla direzione aziendale e gli approcci decostruenti e modellanti dei suoi formatori aguzzini, sono contrastati da una serie insistente di corsivi mentali che irrompono continuamente nella mia vita interiore: sono lì, in qualche angolo del mio io, mentre guido, mangio, lavoro, cammino; mentre faccio sesso, mentre parlo di sport o di religione. È cominciato lo scontro finale tra libertà individuale e adattamento allo spirito aziendale. Ma io cosa desidero?

Iniezioni di rock e birra

per dimenticare questo giorno.

Dopodiché

striscerò

apparentemente soddisfatto

verso casa

nel freddo metallo

di un vettore solitario

rimuovendo

progetti e speranze.

Abbassare fino a zero l’audio fornito dalla cronaca di regime durante i telegiornali e sostituirlo con la musica di sottofondo preferita: per reinterpretare il messaggio, per slegarlo da logiche preconfezionate, per cogliere sfumature criptate. Spezzare le dinamiche festaiole pseudofamiliari per ritornare ad assaporare, consumando scarpe, la città raminga e solitaria tra stupidi rumori di guerriglia urbana e i clamori delle bollicine di un ennesimo anno morente. Il riverbero invernale della stupidità va combattuto adottando un cinico space clearing: avere il coraggio di interrompere le connessioni associative, pubbliche e private, in vista di un autentico ‘anno nuovo’. Le abitudini come eco di comandamenti scritti dalla noia su pietre tradizionali: il cambio di panorama scardinerà il ritmo voluto da chi non sa osare e s’illude di essere felice. Il tempo delle equazioni semplici è finito: si può essere già morti da tempo, fingendo di vivere. Alla fine tireremo le somme e decreteremo chi avrà vissuto veramente. Non ora. Ora è tempo di ciò che voi chiamate “festa” e di ripetizioni come sciocchi déjà vu, rantoli di un tentativo di risveglio che per molti di noi non arriverà mai. Slegate i cani se non volete che muoiano.

I corsivi mentali mi torturano. Una tortura piacevole e necessaria. Mi stupisco del loro modo irriverente di intercalarsi tra i pensieri e le azioni della vita quotidiana. Se non fossi divertito dall’originalità di questi interventi non richiesti, penserei senz’altro a una forma di pazzia indotta dal tipo di lavoro che faccio da mesi. Propinare bugie alla gente, mettendo a tacere la tua vera natura, può creare problemi.

Numerose le ipotesi sulla loro origine: potrebbero essere stralci di uno sconosciuto vademecum del parasubordinato ribelle assorbiti durante un trattamento ipnopedico; incursioni esperienziali provenienti da un passato rimosso; tracce psicogenealogiche di sconosciuti antenati rivoluzionari; frammenti di letture raminghe e residui massmediatici in sospensione; informazioni trasportate da nanotecnologie neuronali o indotte da droghe semiotiche; intercettazioni dietrologiche di servizi segreti; rigurgiti metempsicotici di vite lontanissime nel tempo; pensieri annotati in blog abbandonati da anni su piattaforme sabotate dal Sistema; suggerimenti telepatici di agenti alieni giunti sulla Terra per innescare ribellioni aziendali, distruggere l’economia capitalistica mondiale e predisporre gli umani dormienti a una nuova Rivoluzione d’ottobre di origine extraterrestre… Potrebbero essere vestigia di un io non adeguatamente addestrato e sfuggite al controllo qualità; messaggi subliminali camuffati da banner colorati e lampeggianti caricati sul web per pubblicizzare un nuovo servizio di stampa digitale oppure rappresentare la struttura inconscia di un brano rock sottovalutato nel corso degli anni dalla critica prezzolata. Segnali ribelli lanciati nei canali della comunicazione quotidiana. Umani, alieni, metafisici, generati dal caso evolutivo: non importa. Quando arrivano e albergano per pochi minuti nella mia mente, mi sento libero, mi sento giovane, piacevolmente deconcentrato e improduttivo: ho già firmato il Foglio di Via per la mia fede aziendale. La ribellione ha scelto veicoli bizzarri per farsi strada nel complicato mondo del ventunesimo secolo.

Lucciole rock

prigioniere della mente

che crea falsi conflitti

cercano angolazioni perfette

per captare miasmi sonori.

“Attento a non abituarti

alla solitudine!” – mi dice lei.

E intanto

sono proprio le sue labbra

che per prime

mi negano speranza e baci.

“Questi poveri mediani, schiacciati tra le pressioni dei padroni e il rendimento dei nuovi schiavi, e travestiti da kapo imprenditoriali, attuano una costante azione di disturbo psicologico nei confronti di noi, piccoli ingranaggi in bilico tra il bisogno materiale e la mancanza di un sogno. Credono, così facendo, di spronarci, di aizzarci contro i consumatori indecisi e di renderci produttivi.” – sussurro tra me e me, dirigendomi verso il box reso umano da alcune coccarde residuate dall’ultimo Natale aziendale. Ma un altro corsivo mentale interrompe i miei passi.

L’errore è la pausa dalla regola, la distrazione dal Piano, l’aritmia sinusale, la poesia inedita di Dio, il filo di lana che sfugge alla maglia, il vizio del Creatore, la sbavatura d’inchiostro sulla rivista patinata, le gambe storte del campione, il graffio sul disco, la sordità del compositore… L’errore è la compassione che si prova per il magnifico, è l’aberrazione che sfida la Noia, è la fuga dello Spirito dall’impegno del Materialismo, è il piccolo mammifero strisciante che sopravvive all’estinzione, è “la pietra scartata dai costruttori, divenuta testata d’angolo”, è l’amico dimenticato, è la prima cellula tumorale, è la madre che uccide il neonato, è la nave inaffondabile che affonda, è il grattacielo che crolla, è l’eroe che muore per un raffreddore, è la pioggia col Sole, è il fiore che spacca l’asfalto, è le “Tredici variazioni sul tema” di Jill Sprecher… È la vita.

L’errore sonnecchia in me. Improvvisamente avverto una voglia matta di sbagliare, di indagare sulla vera natura della gerarchia piramidale di questa azienda. Ritorno indietro sui miei passi e il Supervisore ricomincia a sbraitare, ma lo ignoro.

“Dove pensi di andare? Sei in pausa da più di dieci minuti… Vostra Grazia intende fare qualche ‘pezzo’ oggi?”

Il suddito urlante, prigioniero dello stesso programma, non ha ancora capito che l’energia per la vera produttività non proviene dall’esterno, non può essere imposta, trasmessa per osmosi con micropompe terrorizzanti e lubrificate da minacce occupazionali. Per essere un buon Supervisore occorrono un’innata stupidità, la capacità di far sentire inadeguati i propri sottoposti anche quando lavorano alacremente e l’illusione di poter pilotare la produttività ordinando applausi o reprimende. La filosofia del rematore di galea non attecchisce più sul mio cervello frustato e incatenato. Lo schiavo numero 103 abbandona i remi: eloquenti amici inquadrati, che sputacchiate sui vostri microfoni cercando di vendere il nulla, vi lascio il mio soldo e la zuppa. Lo so, non mi seguirete: in compenso sarò io a seguire voi, dall’interstizio bizzarro esistente tra realtà e fantasia, tra la pace dei sensi e il desiderio di sapere.

“Mi piace osservare i miei concittadini specie nei giorni di festa…” – osservazioni etologiche all’inizio dolorose a causa del distacco,  in seguito divertenti e necessarie per capire, per sapere chi sono, per dirigere i miei passi verso la parte vera del mio esistere terreno. Aspettando una luce superiore che non necessita di strappi sociali, di odio, di guerre bianche, di sentimenti negativi covati nell’ombra, di rappresaglie familiari, ma che si nutre di serenità e di una verità afona che non ha bisogno di spiegazioni. I sensi di colpa instillati dall’insicuro cederanno il posto al coraggio intelligente dell’esperienza. Il presenzialismo passivo subirà un naturale cedimento strutturale: il bisogno di senso da donare agli eventi ciclici lo esigerà. L’obbligo parentale evolverà in nuovi significati da costruire: per recuperare i legami che contano. Le cose scontate scompariranno dal mercato dell’ovvio. Anche se non tutti asseconderanno la rivoluzione: le catene hanno un loro fascino. “E il cuore / quando si fa sera / muore d’amore / non si vuol convincere / che è bello / vivere da soli.”

Non sono più il padrone incontrastato del mio cammino, o forse non lo sono mai stato. Seguendo una mappa avuta in dono da una forza misteriosa, compio gesti involontari ma decisi. La visione dei miei nuovi obiettivi è nitida, e non so perché.

Alla fine ci si arrende. Convinti che in fin dei conti è bello accettare la sfida lanciata dall’insicurezza: rimanere legati a certe logiche non ripaga; che è eccitante cambiare, evolvere, sciogliersi in soluzioni estemporanee, svendersi… Avanzare fiduciosi, rimanendo fermi nella novità effimera del presente. Seppellire il passato solido per non fare confronti scomodi con un futuro precario. Il senso d’appartenenza rinforza l’anima, ma al tempo stesso l’appesantisce con un patrimonio genetico superato. La ripetizione uccide la creatività esistenziale. Voltare pagina per salvarsi grazie all’ebbrezza di un divenire nebbioso: la stabilità è un disvalore che può condurre a morte il nostalgico; la mente costruisce catene illusorie in grado di bloccare la freschezza autoimprenditoriale, perché siamo ossessionati dall’idea che lo strappo con il passato sarà doloroso e non crediamo nella possibilità di nuovi scenari.

Strappo il mio strumento di seduzione dal corpo centrale dell’inganno. Lascio cadere le mie cuffie nel primo cestino dei rifiuti che incontro mentre mi dirigo verso l’uscita. Apro la porta blindata, simbolo massiccio di un’asfissia legalizzata, e ripiombo nel silenzio del corridoio senza finestre ma illuminato da luci al neon ricoperte da escrementi di mosche e che porta nel parcheggio dell’azienda. Non esco all’aria aperta, non fuggo. Non ancora, almeno. Seguo le indicazioni fornite dal mio navigatore anarchico che sussurra percorsi scomodi ma veri: prendo le scale e mi dirigo negli inferi del call center, oltre il brusio della televendita, oltre il piano terra della pubblicità cosciente, verso l’ex vano caldaia del fabbricato, lì dove l’odore umido di muffa si mescola a quello sopravvissuto del cherosene che ha intriso le pareti.

“Dovrei cambiare l’oggetto dei miei desideri / non accontentarmi di piccole gioie quotidiane…” Lanciare avvertimenti verso gli incauti che confidano in pazienze inflazionate, segnalare pericoli di crolli esistenziali, deviare il traffico interiore per non ferire nessuno… con stile. La proposta del nuovo destabilizza la visione pigra dell’uomo senza idee. Gli stupidi non capiranno; le pecore umane traviseranno la ricerca di nuove angolazioni e condanneranno la libertà di chi non giace sui letti caldi dei predecessori. Almeno per una volta.

I suggerimenti corsivi si fanno più insistenti e divento prepotente con me stesso. Mentre scendo le scale polverose e semioscure verso il secondo piano interrato, ricordo i primi “test sulla pietà” effettuati dagli aguzzini a carico della mia psiche con domande ingannevoli: “Ti ha intenerito la voce di quella dolce vecchietta al telefono, prima?” E le punizioni bianche che seguivano alle mie ingenue risposte sincere. Imparai presto a mentire: in fin dei conti la “dolce vecchietta” era solo un fottuto cliente, un numero pescato dal programma, una scheda sul mio monitor, senza volto e senza storia. Il mercato non si regge sul dialogo e sull’ascolto, ma sulla capacità di avere sempre l’ultima parola.

Vibra, elettrica corda

nel buio marginale

della normalità psichica.

Lavami l’anima ferita

che pretende e non dona

tra i lampi ritmici

delle acerbe band.

Il difficile non è

ritrovare la via di casa.

Arduo sarà capire se quella

è ancora la mia dimora

abusata e sfruttata

illudendomi di essere libero.

Raggiungo il fondo, in tutti i sensi. La luce intermittente del neon mal funzionante mi permette di leggere a scatti il cartello su una porta di ferro arrugginita:

VIETATO L’INGRESSO

TENSIONE ELETTRICA PERICOLOSA

La sapienza ricevuta in dono dagli sconosciuti autori dei corsivi mentali mi spinge ad aprire, incurante del presunto rischio, quella vecchia porta senza lucchetto: il pericolo di folgorazione è un’invenzione attuata dal Sistema per tenere alla larga i curiosi sprovvisti di carattere e di indicazioni preziose provenienti dal cuore dell’insurrezione. Qualcun altro scende frequentemente in questo posto, qualcuno che conosce il meccanismo da secoli – da quando il baratto si è estinto, da quando esiste il denaro – che lo sfrutta e lo difende con il silenzio, con la connivenza politica e la minaccia psichica indorata dalla pubblicità.

Scosto la pesante porta di pochi centimetri, ne ricavo lo spazio sufficiente per intravedere una strana massa nerastra e imponente, adagiata sul pavimento cementato e lurido, illuminata da un tenue bagliore saettante, e per accorgermi che dal soffitto della stanza interrata una miriade di cavi elettrici scendono come rami di un salice piangente. Un tanfo arcaico, risultato di una indecifrabile mistura chimica, raggiunge il mio naso come un volatile jab. Riesco a non vomitare.

La sera accendiamo il nostro televisore credendo di avere a che fare con un semplice elettrodomestico: un tostapane, uno scaldabagno, un forno a microonde, un rasoio elettrico… Le scelte filmiche contenute nei palinsesti non sono mai casuali. L’occhio disattento e pigro non processa le analogie esistenti tra gli eventi storici quotidiani e i messaggi socio-politici trasportati dagli ‘innocui’ film trasmessi in prima serata: la fascia oraria del lavoratore stanco, della casalinga che vuole rilassarsi, dello studente che desidera svagare la mente. In seconda serata, invece, per gli insonni pensatori falliti e paranoici una programmazione più impegnata contenente tematiche contorte. L’ora tarda non predispone alla rivoluzione attiva. Alle prime luci dell’alba svaniranno tutti i propositi eversivi coltivati con l’ausilio delle tenebre.

L’oscurità del piano interrato mi spinge tra le braccia di una luminosa verità. Spalanco la porta e finalmente entro, rendendo partecipe la totalità del mio corpo. La retina si adatta alla scarsità di luce e alla fine ci vedo.

“Per la metamorfosi di Kafka!” – mi sfugge un’esclamazione letteraria. Il mio cervello mette in dubbio quello che gli occhi percepiscono alla fine di questa surreale sessione lavorativa.

Un medico punk mi diagnostica:

“Metallo pesante nel sangue!”

Ho poche speranze

di sopravvivenza suburbana.

Avete mai scritto poesie

durante un concerto rock?

Che paura può farmi

dunque

la semplice morte?

Sbraitano rabbie antigovernative

nel buio

di questa discarica dimenticata.

Il ‘mostro’ è la stupefacente rappresentazione materiale, terribile, esteriorizzata e a volte profetizzata, della superbia umana. Si ha paura del mostro e si combatte il mostro, ma in realtà abbiamo paura della nostra mostruosità e combattiamo i nostri errori.

La ‘cosa’ è lì: distesa, antica e pulsante come un enorme muscolo cardiaco strappato dal petto della storia del marketing. Gonfia di imprecazioni telefoniche, diritti negati, bugie o mezze verità propinate in nome del guadagno e infarcita di flessibilità occupazionale. Alcuni corpi umani completamente scheletriti o in avanzato stato di decomposizione giacciono ai lati della stanza: forse si tratta di teleoperatori ficcanaso licenziati dalla vita, di sindacalisti filantropi o di giornalisti a caccia di informazioni preziose per un reportage sul lavoro nei call center. Non lo saprò mai. I cavi elettrici, provenienti probabilmente dai numerosi box del call center, come capelli irti di una parrucca mostruosa, sono percorsi dall’alto verso il basso da presumibili flussi di energia informativa che illuminano la superficie viscida e palpitante della massa nel punto in cui si innestano.

Qualcuno potrebbe dire che si tratta della normale strategia attuata da una qualsiasi rete televisiva per alzare lo share: deviare la scelta televisiva del telespettatore medio costruendo un palinsesto coerente con i fatti reali. Invece io penso – paranoicamente – che si tratti di un’operazione esattamente inversa: influenzare l’interpretazione dei fatti reali tramite messaggi allegorici e simbolismi veicolati dal mezzo filmico. E non mi riferisco ai ‘messaggi subliminali’ adottati dagli strateghi della pubblicità per influenzare le scelte commerciali dei consumatori. Il telespettatore non pensante della prima serata (quello determinante dal punto di vista statistico) riceve così la sua dose quotidiana di anestetico, la sua dose di esegesi collettiva, la sua dose di immagini apparentemente innocue ma che nell’intimo svolgono una straordinaria opera di convincimento.

La massa nera e ben nutrita, risultato tumorale della società dei consumi, non si accorge di me: non mi teme, forse mi risparmierà. È diventata spavalda, sicura di sé, autosufficiente, o è semplicemente sazia: la facile disponibilità di risorse umane disperate l’ha resa arrogante ma quieta, quasi immobile e sospesa tra l’indifferenza dei governanti e l’impotenza dei consumatori che s’illudono di scegliere. Il ‘registro pubblico delle opposizioni’ è un placebo che cura i sintomi superficiali e visibili di una malattia economica profonda e allignata. L’informazione estorta con una finta gentilezza rappresenta il braccio violento della produttività, e la pubblicità è un’invenzione superata.

Ma convincere di cosa? Vari (e mutevoli, a seconda di chi sta al potere) possono essere i ‘target’: convincerci che esistono dei pericoli o che non esistono; che siamo dalla parte della ragione sempre e comunque; che la verità appartiene solo e sempre a una precisa tipologia umana… Convincerci a ricordare o a dimenticare un periodo storico; a trasformare gli eroi in assassini o viceversa; a rivedere in maniera superficiale la storia quando è scomoda o in maniera approfondita per esaltare figure storiche ‘necessarie’ per influenzare il consenso popolare. Indurci ad avere paura quando dovremmo essere sereni o a essere sereni quando invece dovremmo avere paura. Spingerci alla diffidenza o alla tolleranza. Al garantismo o al giustizialismo…

Resto basito

come un pezzo di basalto

che gettato in alto

si frantuma

sui marciapiedi della vita

sporchi di amori nati morti.

Faccio qualche passo nella stanza per cambiare visuale, per osservare meglio la creatura ipertrofica, e mi accorgo di calpestare delle strane ramificazioni mollicce che originando dalla parte inferiore della massa s’incuneano nel pavimento alla ricerca di qualcosa o per riunirsi in enormi radici sotterranee distese sotto la superficie della civiltà tecnologica. In realtà non si tratta di radici che cercano nutrimento ma di rami invertiti che trasportano lontano da questo luogo nascosto il materiale informativo raccolto e adeguatamente rielaborato e inscatolato dall’ufficio stampa epatico del mostro. Il concetto di ‘prodotto’ è molto più complesso, va oltre l’oggetto o il servizio messo in vendita: coinvolge il cliente che con orgoglio pensa di resistere all’acquisto e in seguito cede terreno su altri campi di battaglia; coinvolge l’operatore del call center che crede di essere un venditore furbo destinato a un’illusoria felicità a tempo indeterminato; i legislatori che credono in un liberismo economico privo di vittime; gli imprenditori che pensano di possedere la ricchezza eterna…

Comprendo che la ‘cosa’ non è unica, che fa rete, che condivide i dati con altre migliaia di masse tumorali sparse nel mondo capitalista. Anonimo hub di una mente collettiva e muta: i dati parlano da soli e ci condannano a una morte afona senza bisogno di aggiungere altre parole. Non c’è scampo. Anche se stacco il telefono e chiudo la televisione nell’armadio, la ‘cosa’ mi raggiunge, mi fagocita, mi educa e poi mi risputa nel mondo come un mostruoso messia che invia apostoli inconsapevoli in giro per il pianeta a predicare la buona novella dell’onnipotenza commerciale ed esistenziale.

Ripenso alla mia inadeguatezza sociale, alle mie sconfitte sentimentali profetizzate dagli estratti conto, all’orgoglio nell’essere diverso per illudermi di non far parte del Sistema, al mio eterno presente economico che non prevede sviluppi futuri… Io, ipoteca di me stesso.

La monotonia sembra essere diventata un problema nazionale, oltre che personale. Sentiamo l’esigenza di abbandonare antichi schemi familiari in vista di orizzonti esistenziali flessibili: il ricordo, la tradizione, i luoghi e gli oggetti pregni di significato, rappresentano al tempo stesso un peso fastidioso da cui liberarsi e i simboli necessari, archetipici direi, che nutrono la nostra individualità. Da una parte sentiamo di non poter fare a meno di certe ‘fonti storiche’ personali, dall’altra siamo consapevoli che la vera evoluzione interiore (e fenotipica) ha bisogno di interruzioni draconiane. Anche la semplice vendita di un ‘oggetto’ di famiglia può scatenare una serie piuttosto articolata di contrasti interiori, alimentati dal pragmatismo di chi vive accanto a noi.

Sono stanco di essere sfruttato, stanco di far pilotare la mia vita da perfetti anonimi, stanco di far finta di stare bene e di essere sorridente mentre parlo in un microfono di cose che non ho mai visto o di oggetti che non ho mai usato e che mai userò. La ‘cosa’ si nutre anche della mia speranzosa capacità di soprassedere alla rivoluzione personale.

E tu, dolce troia!

Che cerchi tipi vagamente maschili

con faraonici conti bancari

e castelli d’oro.

Disperata farfalla sbattuta

tra soldi e deludenti amori bugiardi.

Mediterranea casalinga provetta

di ragù al colesterolo e mobili antichi

quadri da spolverare e divorzi via sms

il colore da scegliere per la stanza

e i cazzi di plastica su misura

ordinati on line.

Racconti a tutti la stessa storia

offrendo caffè e pasticcini stantii?

Ricordo di aver visto una tanica impolverata, abbandonata nello spazio tra le scale e la porta di ferro. Torno indietro lentamente cercando di non calpestare le bizzarre radici della ‘cosa’, attirando così un’attenzione finora non meritata. Svito il tappo della tanica e il mio naso conferma la speranza nutrita nei secondi precedenti: si tratta di cherosene, residuo del vecchio sistema di riscaldamento adoperato nel fabbricato. Senza riavvitare il tappo, trasporto la tanica nella stanza dove dimora il cthulhu elettrico e comincio a versare il contenuto infiammabile sul pavimento, lambendo la parte inferiore della schifosa massa ansimante.

Il vizio del fumo ha i suoi vantaggi: ho sempre con me, nella tasca dei pantaloni, una scatola di fiammiferi. Ne accendo uno e grazie alla sua luce scorgo sulla superficie nera della massa un organo di forma globulare paragonabile a un occhio, ma non ho tempo per valutazioni anatomiche.

“Crepa puttana!” – decido, in base a intuizioni discutibili, che si tratta di una femmina e lascio cadere il fiammifero acceso sul pavimento bagnato mentre guadagno velocemente l’uscita. Mi giro per fotografare nella mia mente l’ultima scena. La fiammata è possente e illumina finalmente tutta la stanza: la ‘cosa’ enorme sfrigola come grasso sul barbecue e si agita, emettendo da probabili pori secernenti, spruzzi sonori di consensi sulla privacy, questionari sulla customer satisfaction e registrazioni di contratti per via telefonica.

Il futuro ha sfumature solitarie, ma non importa: un sorriso incosciente ed euforico già piega fin da oggi le rughe del viso di domani.

EPILOGO

“Black Friday”

Il fuoco, simbolo di purificazione ed evoluzione, a quest’ora avrà già portato a termine il suo devastante compito liberatorio.

No, non m’illudo di aver fermato il Sistema: ho solo bloccato momentaneamente uno dei suoi innumerevoli nodi. La mia scelta individuale, di non partecipare più al suo gioco schiavizzante, non intaccherà l’opera di espansione di una filosofia di vita accettata da tutti: io rappresento solo una App malfunzionante e sostituibile nel giro di poche ore.

Guido sereno la mia auto verso casa, immerso nella notte che avvolge le azioni eversive di questo ultimo giorno di lavoro nell’azienda mondiale della precarietà. Sono disoccupato, non importa: in un certo modo lo ero anche quando lavoravo nel call center. Non ho più nemmeno quella parvenza di lavoro ma ho conquistato una nuova ricchezza perché ora, a differenza di ieri, io so. E ritorno in stand by, in attesa di una nuova ricerca per sopravvivere in questo mondo di disoccupati telespettatori. Sospeso tra le masse di esodati che vagano nelle zone periferiche della non-morte sociale e quelli che hanno smesso di cercare il proprio futuro perché sconfitti ancor prima di partire: vittime di una scoraggiante autodiagnosi basata sulle informazioni di regime.

La serenità derivante dalla convinzione di aver fatto la scelta giusta rappresenta la mia liquidazione morale e mi godo la vista delle luci metropolitane lontane e tremolanti nell’oscurità, delle montagne illuminate dalla luce indiretta di una luna incompleta, dell’asfalto omogeneo e infinito dell’autostrada scannerizzato dai fari abbaglianti della mia capsula di salvataggio. Nella corsia opposta macchine costose e veloci sfrecciano verso feste che non frequenterò mai. L’evoluzione a volte è sinonimo di solitudine.

Assisto dal vivo alla mia disperata e necessaria metamorfosi: frammenti declamati nelle ore precedenti convergono alla fine verso il punto logico del presente. Innocui flashforwards sparsi nel tessuto di una vita assurda mi traggono in salvo dal mare dell’apparenza come ami poetici e casuali lanciati da pescatori alieni. A farmi compagnia, lungo questo tragitto che mi divide dalla serratura di casa, un programma radiofonico notturno: i versi di un poeta rock sussurrati nell’etere si alternano a brani feroci e anarchici che quasi cullano il mio animo inquieto, predisponendolo a un sonno ristoratore.

Ho imparato a non vomitare rabbia

mentre le parole e i corpi

sono ancora caldi.

Quanta saggezza!

La carta che uso per scrivere

non conosce segreti.

Litri di birra

come lacrime gialle

sul volto della notte.

E sfreccio impavido

su lingue d’asfalto

avvolto

da un’invincibile

spuma sobria.

La notte tiene a battesimo il mio risveglio dalla matrice lavorativa. Intravedo fuochi lontanissimi di probabili sommosse in atto o di sagre inconsapevoli e allegre. Oscilliamo tra il dramma di scelte radicali e impopolari, e la pace anestetica di chi, accontentandosi, gode. Il potere, quello stesso potere che prima ti guarda dall’alto in basso e poi ti impone i suoi prodotti, almeno per questa notte non mi avrà: mi conosce, sa bene dove dirigo i miei passi in attesa dell’alba, ma farà finta di lasciarmi andare, e io farò finta di aver vinto. La tracciabilità della mia esistenza sociale rende vano ogni tentativo di ribellione attiva: anche un ipotetico suicidio entrerebbe a far parte di una precisa strategia di marketing. E allora decido di rallentare la loro vittoria finale restando dispettosamente in vita.

Siamo lavoratori-consumatori! Forniamo spontaneamente al nemico informazioni ed energia-lavoro nella speranza di ricevere in cambio il nostro cubo di aria per un futuro da accertare.

Entro senza far rumore in una casa non mia, poso le chiavi nel solito posto e alzo il piatto sotto cui è nascosta una cena fredda preparata da un genitore paziente e che non consumerò. Mi avvicino alla libreria trascurata e rispolvero un libro profetico di Noam Chomsky.

“È tempo di capire” – confido a me stesso accarezzando la quarta di copertina e sperando che almeno le letture restino un fatto privato. Penso a dove potrò trovare la forza e il coraggio di ricominciare; penso a come ricostruire la mia verginità mentale e rintracciare una nuova speranzosa ingenuità, ora che so. La ricerca mi ricondurrà fiducioso sulle strade del mondo, ma una parte di me saprà che sotto il pavimento della città, scendendo in profondità oltre le crepe nell’asfalto e la rete fognaria, pulsano più forti di prima le grosse radici efferenti dei numerosi mostri sopravvissuti e grassi sparsi per il pianeta e sapientemente ramificati. Le loro terminazioni microscopiche presenti sulla superficie percepiranno la mia presenza negli uffici pubblici e nelle case private, nei bar e nelle stazioni di servizio mentre farò il pieno di benzina prima di un tentativo di fuga verso una zona tecnologicamente deserta, illudendomi di essere dimenticato.

E sarò io stesso a fornire indicazioni sulla meta.

FINE

Il testo del racconto, in alcuni punti, contiene brevi stralci virgolettati tratti da brani del cantautore e musicista Franco Battiato. Nella dedica, invece, è contenuta una frase, anch’essa virgolettata, tratta dal brano “Mio fratello è figlio unico” di Rino Gaetano.

Postfazione/intervista

a cura di Roberto Guerra

(Roberto Guerra) Howard Phillips Lovecraft, William S. Burroughs, Marc Augé, Karin Boye, Noam Chomsky, Marshall McLuhan, Jorge Luis Borges, Dylan Dog… Così i curatori, nella sinossi di “Call Center – reloaded”, segnalano gli influencers che secondo loro hanno determinato la nascita del tuo racconto già pubblicato in prima edizione, lo ricordiamo, nel 2013.

(Michele Nigro) Sì, dietro ogni scrittura esistono autori letti che “spingono” per uscire. Tu utilizzi e quindi liberi dalle catene quelli che servono alla tua causa, al tuo narrare. Non importa se ne sei consapevole o meno, anche se sono dell’idea che avere coscienza della propria scrittura sia uno degli obiettivi dello scrittore: sapere perché hai fatto determinate scelte è importante per imparare a dirigere i propri sforzi, invece di affidarsi a suggerimenti istintivi. A volte, in qualità di recensore, svelo agli autori connessioni all’interno dei loro scritti di cui non erano consapevoli: siamo ciò che leggiamo e vediamo, se ci riferiamo anche ai dati visivi che si accumulano nel corso della nostra esistenza. Ma la prima, grande ispiratrice resta la vita, l’esperienza personale messa in archivio e in seguito rielaborata grazie agli strumenti creativi, in questo caso la scrittura, a nostra disposizione.

“Call Center – reloaded”, quando la Fantascienza diventa quasi neorealismo digitale o cibernetico?

Non credo si tratti di fantascienza, anzi sono certo di non aver scritto fantascienza (volendo forzare la ricerca di un’analogia, potremmo individuare elementi in comune con la cosiddetta “fantascienza sociologica” anche se in questo caso ci troviamo dinanzi a una distopia attuale e non proiettata nel futuro!). In occasione della pubblicazione (per ironia della sorte, proprio su Amazon!) della prima edizione di “Call Center” ho usato l’espressione, che riconfermo nella seconda, social fantasy per descrivere un sottogenere del fantastico caratterizzato da storie ambientate nella nostra realtà ma contenenti – in coincidenza con il climax della storia come nel caso del mio racconto – risvolti surreali, bizzarri e grotteschi. Nel Novecento si parlava di realismo magico (Buzzati, Borges, Màrquez) in riferimento a opere letterarie in cui elementi soprannaturali emergevano da contesti quotidiani e reali. Non parlerei, invece, di neorealismo perché il mio tentativo di spiegare la condizione in cui vive l’uomo del terzo millennio si sposta da un piano realistico a uno fantasioso.

“Call Center – reloaded” è un racconto simbolico: il “mostro” che appare nella storia è il simbolo di un sistema economico e culturale più grande e più forte di noi. Quel mostro è in noi, è nutrito da noi. Siamo noi: anche se nel racconto è altro da noi, è all’apparenza fuori dalla nostra volontà ed è disprezzato come se non ci appartenesse, in realtà lo ri-scegliamo ogni giorno, lo sosteniamo perché ne abbiamo bisogno, addirittura lo votiamo quando diamo forza politica a governanti e leggi che di fatto schiacciano il lavoratore (vedi riforma Fornero e Jobs Act del governo Renzi). Ogni volta che permettiamo all’economia, e in particolare al profitto di pochi, di sorpassare la politica, i diritti civili, la nostra stessa coscienza in qualità di consumatori, noi diamo forza al mostro! Nel racconto io critico un certo tipo di “lavoro liquido”, senza o con pochi diritti, ma chi è che lo incentiva? Siamo noi stessi: abbiamo abbracciato la comodità dell’e-commerce, ci sentiamo “superiori” e “civilizzati” quando la nostra vita appare migliore grazie a prodotti che illusoriamente ci rendono onnipotenti e brillanti; ma dietro le quinte di questa vita facile si nascondono le sofferenti maestranze del marketing, i nuovi schiavi dell’era digitale. Quando da casa, seduti davanti al nostro computer, clicchiamo su un ordine d’acquisto, siamo realmente consapevoli del meccanismo da noi stessi avviato? È recente la protesta sindacale cominciata dai lavoratori Amazon di Piacenza (ma non sono i soli!) a causa dei massacranti turni di lavoro e delle conseguenti ripercussioni psico-fisiche: se qualcuno pensa che a essere “duri” siano solo il lavoro in miniera o quello nell’industria siderurgica, vuol dire che non ha ben compreso il carattere subdolo dei nuovi lavori legati alla cosiddetta new economy.

“Call Center – reloaded”, un saggio letterario?

No. Anche se la forma didascalica, la scarsità di dialoghi, la struttura insolita potrebbero far pensare al contrario, “Call Center – reloaded” è un racconto: qualcuno ha detto che è un racconto senza storia perché tutto si svolge quasi nello stesso posto, non ci sono grandi scenari, trame, sottotrame, spostamenti avventurosi. M’interessava descrivere una condizione mentale, un malessere sociale e culturale senza spazio e senza tempo, un “non-luogo” interiore che non appartiene solo al protagonista del racconto ma a un’intera generazione di lavoratori precari, in Italia e nel mondo. Ho contribuito ad allontanare “Call Center – reloaded” dalla categoria del racconto, forse, anche perché ho introdotto due elementi sperimentali dal punto di vista scritturale: 1) l’utilizzo massiccio di quelli che nel racconto il protagonista definisce corsivi mentali, ovvero argomentazioni calate nel tessuto della storia e apparentemente sconnesse dai contenuti della stessa; 2) l’introduzione di “flashforwards” (opposti ai più “famosi” flashback) sotto forma di stralci poetici collegati a un programma radiofonico citato verso la fine del racconto e presenti fin dall’inizio: si tratta di evocazioni da un futuro prossimo, di una “voce guida”, di anticipazioni non comprese dal lettore il quale pensa a semplici intercalari testuali simili ai corsivi mentali.

Perché complicarsi la vita introducendo questi “flashforwards”?

Io in realtà ho usato una forma semplice di flashforward: i versi di una poesia calati con una certa logica all’interno della storia. Esistono forme più complesse: veri e propri “pezzi” di storia provenienti dal futuro che compaiono nel tempo presente della narrazione. Anche in quel caso il lettore rimane spiazzato, ma capirà in seguito. I flashforward sono i “testimoni” dell’evoluzione futura, positiva o negativa, del personaggio: siamo abituati a una scrittura lineare, con un prima e un dopo messi diligentemente in ordine, e non pensiamo mai al fatto che nella nostra vita non solo i ricordi dal passato possono venire a farci visita ma anche stralci di futuro possono manifestarsi in noi, nel presente… Solo che non sempre siamo in grado di riconoscerli come tali. Li chiamiamo “sogni ad occhi aperti” o nella peggiore delle ipotesi “paranoie” e andiamo dallo psichiatra pensando di essere pazzi!

Robotica e Automazione libereranno operai e dipendenti pubblici?

No, li elimineranno definitivamente. Quando questo accadrà non ci sarà più bisogno di scrivere racconti come “Call Center – reloaded” perché non ci sarà più un lavoratore da proteggere ma solo macchine da aggiustare e sistemi da testare. Non sono un “luddista” contrario al progresso tecnologico introdotto nel lavoro: pensiamo alle condizioni lavorative in epoche passate e agli attuali sistemi di sicurezza che, se attuati e rispettati, possono evitare le cosiddette “morti bianche” o tragedie come quelle della ThyssenKrupp di Torino. Tecnologia e prevenzione possono migliorare la qualità del lavoro del ventunesimo secolo, ma la strada verso il pieno rispetto delle leggi in materia di sicurezza è lunga, come dimostra la cronaca. Il problema, però, non è solo il miglioramento delle condizioni (anche psicologiche) del lavoratore, bensì è capire perché tutti noi alimentiamo e sosteniamo quel sistema politico, culturale e consumistico che sta trasformando lo stesso lavoro in un prodotto: il lavoro è diventato effimero come i prodotti che acquistiamo, caratterizzati da una vita commerciale breve. C’è qualcosa che non va e la politica ha affidato la soluzione del problema occupazionale a un’economia pseudoliberista fallimentare, con risultati negativi che stanno sotto gli occhi di tutti. In “Call Center – reloaded” ho cercato di descrivere l’ibrido lavoratore-consumatore che a sua volta viene “consumato”: come dicevo pocanzi siamo noi stessi che alimentiamo il mostro, con le nostre errate scelte culturali, con le nostre abitudini, con certe politiche lavorative che accettiamo passivamente…

Ma il Potere (poco importa il segno) lo permetterebbe? La società può supportare una comunità basata sul lavoro virtuoso e dignitoso o creativo?

Permettere cosa, la liberazione dei lavoratori? O la realizzazione di una “qualità del lavoro” in cui il lavoratore possa riconoscersi? Al potere politico non interessa il destino dei lavoratori se non per fini propagandistici ed elettorali (e tanto meno a quello economico) o, come ricordavo prima, in qualità di consumatori, dal momento che politica ed economia sono diventati sinonimi. Anzi, le ragioni economiche hanno fagocitato il simulacro politico. Le ricette proposte dalle marionette pre-elettorali si schiantano nella realtà contro il muro delle esigenze economiche create da noi stessi, dalla rivoluzione industriale in poi: con la sola differenza che l’operaio sfruttato del XIX secolo è diventato, nel corso del “secolo breve”, operaio-consumatore-sfruttatore egli stesso. Da qui il fallito attecchimento in Occidente di un pensiero economico di tipo “comunista” e il conseguente annullamento della lotta di classe, perché le classi sono scomparse per fare spazio a un unico calderone gentista. E la politica si è uniformata a questo appiattimento culturale e ideologico. Ma veramente crediamo che la crisi lavorativa sia solo economica o che sia piovuta dal cielo e che il sistema occupazionale al collasso sia la conseguenza del caso o sia solo colpa degli imprenditori ingordi e non anche di un degrado culturale che ci ha resi distratti e vulnerabili? Anche il sistema filosofico marxista, che avrebbe dovuto assicurare una certa “giustizia sociale” in ambito lavorativo, è stato fagocitato dal meccanismo consumistico. I sindacati sono diventati degli involucri vuoti!

Un politico idiota, durante una delle passate legislature, affermò che “con la cultura non si mangia”. Fino a quando il potere sarà nelle mani di questi personaggi e non si darà importanza al lavoro anche creativo, la società non conoscerà mai le potenzialità inespresse esistenti. Per lavoro creativo non intendo solo quello dei musicisti del teatro S. Carlo di Napoli, degli scultori o dei poeti! Ogni invenzione, ogni creazione, diventando servizio, può trasformarsi in lavoro: ma il nostro sistema politico è in grado di investire in questo tipo di sviluppo? Una società può fondarsi sul lavoro dignitoso se c’è alle spalle una politica lungimirante che assicuri un’occupazione stabile e un salario degno di un essere umano. La nostra politica è ancora ferma al “far quadrare i conti”, alla spending review per salvarsi e non affondare; l’investimento nella creazione è utopico, e crediamo veramente di aumentare il nostro “potere di acquisto” grazie al trucco renziano degli 80 euro. Non dimentichiamo che solo dalla sicurezza economica del lavoratore deriva l’aumento del suo potere di acquisto – quello serio e non propagandistico – e da questo il rilancio dell’economia nazionale e mondiale. Non possiamo evitare di essere dei lavoratori-consumatori perché questo è il sistema economico e culturale in cui siamo nati (ammesso che non si voglia ritornare al baratto! Sistema che, in alcune comunità, viaggia in parallelo a quello capitalistico con risultati entusiasmanti), ma dobbiamo migliorare la nostra condizione anche compiendo scelte culturali individuali che un giorno potrebbero diventare sistemi adottabili su larga scala. Se ciò non accadrà a causa di una politica manipolata dalla finanza che condiziona le scelte consumistiche, non proponendo alternative, si andrà incontro a un crollo, stavolta permanente, del sistema sociale: la rivoluzione, come è già accaduto altre volte nel corso della storia, sarà la naturale conseguenza della disperazione generale, perché il pudore ancora ci permette di tenere nascosta quella personale.

In “Call Center – reloaded” descrivo il risveglio di un singolo individuo che compie un viaggio interiore verso una scelta personale draconiana e simbolica, ma in futuro risvegli simili, o più cruenti nonostante lo stato soporifero in cui versiamo, potrebbero aumentare di numero a causa non di un’evoluzione culturale, come sarebbe auspicabile, bensì di esigenze materiali impellenti.

Roberto Guerra (Ferrara, 9 settembre 1960), noto anche come Roby Guerra e Futurguerra, è uno scrittore italiano e videopoeta, promotore dagli anni ’80 del nuovo futurismo e di una nuova poetica prossima al futurismo, al connettivismo e al transumanesimo: è coordinatore del LLF, Laboratorio di Letteratura Futurista (AIT, Associazione Italiana Transumanisti). Ha pubblicato alcune raccolte poetiche, saggi, romanzi di fantascienza, tape o CD di poesia sonora e computerpoesia, video. Ha curato (con lo scrittore e critico letterario Lamberto Donegà) la rivista Poeticamente (anni ’80 e ’90). Ha partecipato (insieme a Franco Ferioli), con Fiori della Scienza, alla rassegna video U-Tape 1985, a cura del Centro Video Arte di Ferrara. Ha collaborato e pubblicato (anni ’90) con la rivista letteraria La Revolte des Chutes (Parigi), (a cura del poeta Marc Kober) e partecipato – con il tape di computerpoesia Les Robots de 7 ans – all’evento Marché de la poesie, 1991 (Parigi). Ha collaborato (anni ’80 e ’90) con il periodico Futurismo Oggi (a cura di Enzo Benedetto, Roma). Ha pubblicato alcuni testi per la rivista letteraria Argo di Bologna (2010), la poesia L’era dei robot (con lavoro grafico del videoartista Maurizio Camerani) per la rivista Numero Zero (Ferrara). Da Balla Marinetti (2005, poesia sonora con G. Felloni), ha realizzato (con lo scrittore Riccardo Roversi e la coreografa/ballerina Alessandra Fabbri) lo spettacolo transfuturista (tecnodance), Punkedelyc Cybernova. Ha realizzato i video Bunker e New Dance Pop (con Andrea Forlani e Filippo Landini, 2000), Automata Voltaire (con Vitaliano Teti, 2007), Ninna Nanna di Marinetti (con Massimo Croce, 2008), Moana Lisa cyberpunk (2010). Ha partecipato, nel 1999 (Ferrara) al Convegno sull’Immaginario Contemporaneo (a cura di Roberto Pazzi). Ha partecipato ad alcune edizioni di The Scientist, video festival internazionale di Ferrara: città in cui, nel 2009, ha curato con Ferrara Video&Arte, un centenario futurista, segnalato dalla Rai nello speciale Il Futuro del Futurismo. Nel 2007 ha curato a Ferrara, Futurismo Renaissance, anteprima del centenario futurista (versione video con Eugenio Squarcia). Ha curato Biancaneve a New York della poetessa Sylvia Forty (Este Edition, 2002, Ferrara). Ha partecipato a Transvision 2010 (Milano) convegno internazionale sul transumanesimo. Come blogger, dal 2008, cura, la rivista on line Futurismo 2009, il blog giornale futurista Asino Rosso, la casa editrice on line Futurist Editions e dal 2011, il blog Nuova Oggettività, per l’omonimo progetto culturale. Ha curato, dal 2009 al 2012, le guide Controcultura e Ferrara per SuperEva.

Pubblicazioni:

L’Ariosto sulla Luna (Liberty House, 1988)

Il Futuro del Villaggio: Ferrara, città d’arte del 2000 (Liberty House, a cura di Lucio Scardino)

Marinetti e il 2000 (Schifanoia, 2000)

L’Immaginario Futurista (Schifanoia, 2000)

Opere Futuriste Complete (Nomade Psichico, 2000)

La Città Lunare (Este Edition, 2006)

Moana Lisa Cyberpunk (Edizioni Diversa Sintonia, 2010)

AA.VV. Per una Nuova Oggettività, a cura di Sandro Giovannini, Giovanni Sessa, Stefano Vaj e altri (Heliopolis, 2011)

Nuovi Futuristi – Nuovi Umanisti – Manifesti e Poesie (Este Edition, eBook, 2011)

Futurismo per la Nuova Umanità. Dopo Marinetti: arte, società, tecnologia (Armando Editore, 2011)

AA.VV. Marinetti 70. Sintesi della critica futurista a cura di Roberto Guerra e Antonio Saccoccio (Armando editore, 2015)

Futurismo Renaissance. Marinetti e le avanguardie virtuose a cura di Roby Guerra e Pierfranco Bruni (D editore, eBook, 2016)

versione pdf: “Call Center Reloaded”, di Michele Nigro

immagine: ph by Michele Nigro©2018

“Mio fratello è figlio unico”, Rino Gaetano

Un pensiero riguardo “Call Center, reloaded

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